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L’ultima Marilyn

Nella storia del cinema esiste un prima e dopo Marilyn Monroe: l’attrice è stata una delle icone del XX secolo che più hanno influenzato l’immaginario collettivo rivoluzionando i canoni di moda e bellezza. Approfondendo la sua vita, non siamo sopraffatti solo dal suo fascino senza tempo e dalla sua sensualità, ma percepiamo la sua intima fragilità: quel barlume di umanità con il quale, a 60 anni dalla sua tragica scomparsa, è ancora in grado di instillare in noi ammiratori un profondo e irrazionale senso di colpa e rabbia per non essere riusciti a salvarla.

Marilyn Monroe fotografata da Alfred Eisenstaedt nel 1953

Se le circostanze della sua morte non sono mai state del tutto chiarite, il clamore e l’aura di mistero che hanno circondato l’evento hanno contribuito a diffondere speculazioni di ogni genere sulla sua tormentata esistenza: una polveriera di denaro, sesso e politica che ha coinvolto la famiglia Kennedy e che in tanti hanno cercato di insabbiare.

Non esiste ammiratore di Marilyn Monroe che non abbia sentito almeno una volta la necessità di ricostruire i suoi ultimi mesi di vita, non riuscendo ad accettare il suo destino né le controverse versioni delle autorità sulla sua fine senza darsi una personale e plausibile spiegazione: forse un ultimo tentativo di capire chi fosse e cosa provasse Marilyn in quel periodo per restituirne il ritratto più autentico possibile, come se ci sentissimo in debito con lei almeno della verità.

Testimonianze imprescindibili, così profondamente connesse alla sua sfera privata, le riprese degli ultimi due film in cui Marilyn ha recitato: Gli spostati (1961) e Something’s Got to Give (1962), rimasto incompiuto.

Marilyn Monroe fotografata da Baron nel 1954

Da Norma Jeane a Marilyn Monroe

Marilyn Monroe nacque come Norma Jeane Mortenson l’1 giugno 1926. Il cinema era già nel suo destino: sua madre, Gladys Pearl Monroe, lavorava come impiegata alla Consolidated Film Industries e aveva voluto darle i nomi delle attrici Norma Shearer e Jean Harlow.

Alla nascita di Norma Jeane, Gladys aveva già avuto due figli dal matrimonio con John Newton Baker, dal quale aveva poi divorziato, e si era separata dal secondo marito Martin Edward Mortenson, da cui Norma Jeane aveva preso il cognome. Norma Jeane non conobbe mai il proprio padre. Solo pochi mesi fa un test del DNA ne ha confermato l’identità in Charles Stanley Gifford, collega della madre che l’aveva lasciata non appena informato della gravidanza.

Gladys era mentalmente instabile e non in grado di prendersi cura finanziariamente di Norma Jeane: ricoverata in preda a esaurimento nervoso, le venne diagnosticata una schizofrenia paranoide e fu dichiarata incapace di intendere e di volere. Per tutta la vita, non seppe mai che la sua Norma Jeane era diventata Marilyn Monroe.

Gladys e Norma Jeane

Fin dall’infanzia, Norma Jeane fu mandata in orfanotrofio e data in affido a diverse famiglie, dove spesso subì abusi e molestie. Grace McKee, archivista di pellicole alla Columbia Pictures e migliore amica di sua madre, divenne la sua tutrice, avvicinandola al mondo del cinema e di Hollywood. Compiuti 16 anni, il 19 giugno 1942 Norma Jeane sposò James Dougherty, il figlio di un vicino: un matrimonio organizzato dalla sua tutrice per non farla tornare in orfanotrofio.

Nel 1944, in piena Seconda Guerra Mondiale, Dougherty si arruolò nella marina mercantile e Norma Jeane iniziò a lavorare da operaia alla Radioplane Company, inizialmente come impacchettatrice di paracadute e poi come addetta alla verniciatura delle fusoliere degli aerei. Nel 1945, il fotografo David Conover si recò presso lo stabilimento in cerca di ragazze che tenessero su il morale delle truppe al fronte per un servizio sulla rivista Yank e le scattò alcune foto, che riscossero un immediato successo, esortandola a intraprendere la carriera di modella.

Norma Jeane fotografata da David Conover nel 1945

Norma Jeane lasciò quindi la fabbrica e divenne una pin-up, comparendo in servizi fotografici su varie riviste. Le sue foto furono notate da Emmeline Snively, direttrice della Blu Book School of Charm and Modeling, una delle più importanti agenzie pubblicitarie di Hollywood. Snively cambiò per sempre il suo look: da allora, la rossa e riccia Norma Jeane avrebbe avuto capelli biondi e lisci.

Grazie ai servizi fotografici, nell’agosto 1946 Norma Jeane firmò con la 20th Century Fox il suo primo contratto cinematografico, della durata di sei mesi e con un compenso di 125 dollari a settimana. Nel settembre 1946 divorziò da Dougherty, contrario alla sua carriera. Ben Lyon, l’attore e dirigente della Fox che aveva organizzato il suo provino, le consigliò di cambiare nome: furono scelti il cognome da nubile di sua madre, Monroe, e il nome della stella di Broadway Marilyn Miller. Da quel momento Norma Jeane Mortenson divenne per tutti Marilyn Monroe.

Marilyn Monroe fotografata da Frank Powolny nel 1952

Come nasce una stella

Marilyn dedicò da subito il massimo impegno alle lezioni di recitazione, canto e danza, ma per più di tre anni rimbalzò tra la 20th Century Fox e la Columbia Pictures (dove i suoi capelli furono definitivamente tinti in biondo platino), accettando ruoli insignificanti e miseri contratti. La svolta arrivò solo nel 1950, quando riuscì a catturare l’attenzione di pubblico e critica con la sua interpretazione in Giungla d’asfalto (The Asphalt Jungle) di John Huston che lanciò, di fatto, la sua carriera cinematografica.

Marilyn in Giungla d’asfalto

Il 1953 proiettò Marilyn tra le star di Hollywood: le interpretazioni in Niagara, Gli uomini preferiscono le bionde (Gentlemen Prefer Blondes) e Come sposare un milionario (How to Marry a Millionaire) riscossero uno straordinario successo e consacrarono l’attrice come assoluto sex symbol. A dicembre comparve sulla copertina e nel paginone centrale del primo numero della rivista Playboy.

Marilyn sul set di Niagara

L’anno successivo, Marilyn raggiunse l’apice della popolarità. Il 14 gennaio 1954 sposò il campione di baseball Joe DiMaggio, ma il chiacchieratissimo matrimonio ebbe vita breve: la scena della gonna di Marilyn sollevata dallo spostamento d’aria della metropolitana in Quando la moglie è in vacanza (The Seven Year Itch) di Billy Wilder, che sarebbe divenuto uno dei maggiori successi della diva, inflisse il colpo di grazia a un’unione già scricchiolante per la feroce gelosia dello sportivo italoamericano. Marilyn e DiMaggio divorziarono il 27 ottobre dello stesso anno.

Un fotogramma della celebre scena di Quando la moglie è in vacanza

Il 29 giugno 1956 Marilyn sposò il drammaturgo Arthur Miller, celebre autore di opere come Il crogiuolo, Erano tutti miei figli e Morte di un commesso viaggiatore. I media non furono teneri con la coppia, sottolineando in ogni modo l’antitesi tra la sex symbol e il letterato. La rivista Variety titolò Egghead Weds Hourglass: nello slang statunitense, letteralmente, Testa d’uovo (intellettuale) sposa clessidra (donna tutte curve).

Marilyn e Arthur Miller

Marilyn aveva appena compiuto 30 anni e già affermava di odiare Hollywood e di desiderare una famiglia e una vita normale, lontana dai riflettori. La sua carriera iniziava a mostrare i segni di un precoce declino. Voleva un figlio, ma in diverse occasioni non riuscì a portare a termine la gravidanza, in parte a causa dell’endometriosi di cui soffriva. Rientrata dall’Inghilterra dopo aver girato Il principe e la ballerina (The Prince and the Showgirl, 1957), che fu un totale insuccesso, ebbe una gravidanza ectopica; l’anno successivo, poco dopo aver concluso le riprese di A qualcuno piace caldo (Some Like It Hot, 1958) ebbe un aborto spontaneo. Nella sua vita, Marilyn ebbe in totale almeno 12 aborti.

Marilyn e Laurence Olivier ne Il principe e la ballerina

A qualcuno piace caldo, diretto da Billy Wilder e co-interpretato da Jack Lemmon e Tony Curtis, ebbe un successo straordinario e fu acclamato da pubblico e critica: sembrava la scintilla ideale per rilanciare la carriera di Marilyn, che vinse il Golden Globe come miglior attrice in un film commedia o musicale. La produzione del film, però, fu estremamente travagliata: Marilyn dimenticava spesso il copione, non seguiva le direttive del regista e chiedeva di rigirare le scene dozzine di volte, al punto che Tony Curtis dichiarò che baciarla era come baciare Hitler. Il regista Billy Wilder, nonostante i leggendari litigi sul set, in seguito descrisse il film come il suo più grande successo e dichiarò che lavorare con Marilyn era così difficile perché era del tutto imprevedibile, definendola un genio assoluto come attrice comica.

Marilyn in A qualcuno piace caldo

Marilyn si prese una pausa fino alla fine del 1959, quando accettò di recitare in Facciamo l’amore (Let’s Make Love) di George Cukor per rispettare il contratto con la 20th Century Fox. Durante le riprese ebbe una breve relazione col co-protagonista Yves Montand, marito dell’attrice Simone Signoret. Marilyn smentì pubblicamente il flirt, ma la stampa lo reclamizzò al punto da renderlo parte della campagna pubblicitaria del film, che si rivelò comunque un flop.

In quel periodo Marilyn iniziò a vedere uno psichiatra, il dottor Ralph Greenson: soffriva di insonnia e ingeriva eccessive dosi di farmaci, dai quali stava sviluppando una forte dipendenza. Secondo Greenson, il suo stato era dovuto al deteriorarsi del rapporto con il marito, verso il quale era sempre più insofferente.

Marilyn e Yves Montand in Facciamo l’amore

Gli spostati

Gli spostati (The Misfits, 1961) di John Huston, sceneggiato da Arthur Miller e co-interpretato da Clark Gable, Eli Wallach e Montgomery Clift, è un’analisi del malessere nella società statunitense attraverso la storia di una piccola comunità di sbandati che si illudono di essere dei ribelli senza padrone.

A Reno (Nevada) per divorziare dal marito assente, la bella e vulnerabile Roslyn (Marilyn) stringe amicizia con Gay (Gable), cowboy di mezza età, Guido (Wallach), meccanico e aviatore, e Perce (Clift), cowboy da rodeo. I tre, turbando la sensibilità di Roslyn, vanno a caccia di cavalli selvaggi da vendere a peso per farne cibo per cani. Roslyn si innamora, ricambiata, di Gay, che libera in suo omaggio lo splendido stallone catturato e domato a prezzo di una lotta furiosa.

Marilyn tra Montgomery Clift e Clark Gable sul set de Gli spostati

Arthur Miller aveva scritto la sceneggiatura del film come regalo di San Valentino per Marilyn, con un ruolo creato appositamente per lei, ma pochi mesi dopo il loro matrimonio era già naufragato: Marilyn odiava il fatto che il marito avesse basato sulla sua vita il personaggio di Roslyn, considerandolo inoltre inferiore alle parti maschili, e non sopportava la sua abitudine di riscrivere le scene la notte prima di girarle. In questa sorta di ritratto indiretto, tuttavia, Marilyn diede finalmente prova del proprio talento drammatico.

Marilyn con Clift, Gable, Wallach, Huston e Miller sul set de Gli spostati

Il rapporto con Miller si era comunque già da tempo incrinato per l’incompatibilità di carattere tra i due, che sarebbe poi diventata la motivazione ufficiale del loro divorzio. Marilyn, sul set come nella vita privata, era in quel periodo particolarmente instabile per l’abuso di alcool e farmaci, tra i problemi di salute cronici e le continue interruzioni di gravidanza.

Lo scrittore Truman Capote avrebbe voluto lei per interpretare Holly Golightly nell’adattamento cinematografico del suo Colazione da Tiffany (Breakfast at Tiffany’s), le cui riprese sarebbero iniziate nell’ottobre 1960, ma i produttori temevano che Marilyn avrebbe creato complicazioni e il ruolo andò ad Audrey Hepburn.

Le riprese de Gli spostati ebbero il via nel luglio 1960, nel torrido deserto del Nevada. Marilyn soffriva di calcoli biliari e assumeva farmaci sia per riposare che per svegliarsi, al punto che di solito veniva truccata mentre dormiva sotto l’effetto dei barbiturici. La sua dipendenza era talmente grave che nell’agosto 1960 il regista John Huston interruppe le riprese per due settimane per permetterle di disintossicarsi in ospedale.

Marilyn e il regista John Huston

Nel 1950 Huston aveva lanciato Marilyn nel suo primo ruolo di rilievo in Giungla d’asfalto e ne aveva visto poi crescere il mito: per un amaro scherzo del destino, diresse anche il suo ultimo film. Anni dopo, dichiarò di essere assolutamente certo che Marilyn fosse condannata: C’erano prove davanti a me quasi ogni giorno. Non poteva salvarsi o essere salvata da qualcun altro. I suoi dannati dottori l’avevano resa dipendente dai sonniferi.

Marilyn aveva problemi a ricordare le battute e non arrivava mai sul set prima delle 11:30, oltre due ore di ritardo rispetto a quanto stabilito; regista e attori, spazientiti, decisero di posticipare a quell’orario l’inizio delle riprese. Il più insofferente era Clark Gable, che per contratto lavorava solo dalle 9:00 alle 17:00 per poi tornare a casa dalla moglie incinta.

Marilyn e Gable ne Gli spostati

Benché da tempo malato di cuore e accanito fumatore, Gable rifiutò la controfigura in quasi tutte le scene più pericolose, in quella che sarebbe stata considerata una delle sue migliori interpretazioni. Le riprese terminarono il 4 novembre 1960; Gable ebbe un infarto due giorni dopo e morì il 16 novembre a soli 59 anni. La vedova dichiarò aspramente che lo stato di eterna attesa di Marilyn aveva contribuito alla prematura morte del marito.

Gli spostati fu quindi sia l’ultimo film completo di Marilyn che l’ultimo film di Gable, idolo d’infanzia della diva: in una delle sue ultime interviste, Marilyn confessò di aver fantasticato spesso che Gable fosse il padre che non aveva mai conosciuto.

Marilyn e Gable ne Gli spostati

L’11 novembre Marilyn e Arthur Miller si separarono ufficialmente, per poi divorziare il 24 gennaio 1961 a Ciudad Juárez, in Messico, dopo cinque anni di matrimonio. Gli spostati venne distribuito l’1 febbraio 1961 e fu un disastro al botteghino, ma la critica elogiò la sceneggiatura e le interpretazioni del quartetto di attori principali; la pellicola è stata recentemente rivalutata, tanto da essere considerata un cult degli Anni ’60.

Marilyn era ormai al limite: il 7 febbraio 1961, sempre più spesso preda di turbe psichiche, si recò volontariamente al Payne Whitney Psychiatric Clinic, l’ospedale psichiatrico di New York, sotto il falso nome di Faye Miller. Ben presto la casa di cura divenne per lei una prigione: chiese aiuto all’ex marito Joe DiMaggio, con cui aveva ristabilito un rapporto di amicizia, che riuscì a farla uscire e trasferire al Columbian Presbyterian, da cui venne dimessa poco dopo.

Marilyn e Joe DiMaggio all’epoca del loro matrimonio

A maggio subì un intervento chirurgico per l’endometriosi, a giugno una colecistectomia: dimessa l’11 luglio, fu colpita da un microfono durante l’assalto dei giornalisti. Non girò alcun film per tutto il 1961. Nel frattempo aveva iniziato una relazione con l’amico di lunga data Frank Sinatra, che durò diversi mesi: Sinatra aveva promesso di sposarla, ma nel gennaio 1962 la lasciò definitivamente annunciando il proprio matrimonio con l’attrice e ballerina Juliet Prowse, che poi non avvenne.

Marilyn e Frank Sinatra

Something’s Got to Give, i Kennedy e la morte

Something’s Got to Give (1962), diretto da George Cukor per la 20th Century Fox, doveva essere il remake della screwball comedy Le mie due mogli (My Favorite Wife, 1940) di Garson Kanin, con Cary Grant e Irene Dunne: oltre a Marilyn, il cast comprendeva Dean Martin e Cyd Charisse.

La fotografa Ellen Arden (Marilyn), moglie di Nick (Martin) e madre di due bambini, è dispersa in mare da cinque anni. Nick la fa dichiarare legalmente morta e si risposa con Bianca Russell (Charisse), ma proprio allora Ellen viene ritrovata su un’isola deserta e torna a casa. I figli non la riconoscono, ma la prendono in simpatia e la invitano a restare. Venuta a conoscenza del matrimonio di Nick e decisa a riconquistare la propria famiglia, Ellen decide di rivelarsi facendosi passare per la nuova tata svedese Ingrid Tic, catapultando Nick in un delicatissimo triangolo amoroso.

Marilyn sul set di Something’s Got to Give

Assente dallo schermo da oltre un anno, da tempo in precarie condizioni di salute e reduce dall’intervento alla cistifellea, Marilyn aveva perso più di 11 kg, raggiungendo il peso più basso della sua vita adulta. L’inizio delle riprese di Something’s Got to Give, previsto per gennaio 1962, era stato quindi posticipato a fine aprile per permetterle un pieno recupero.

Il 9 aprile 1962 Marilyn informò il produttore di Something’s Got to Give, Henry T. Weinstein, che la Casa Bianca le aveva chiesto di esibirsi in occasione del compleanno del Presidente John Fitzgerald Kennedy, a maggio: Weinstein l’aveva autorizzata, credendo che non ci sarebbero stati problemi sul set. Marilyn e JFK erano amanti probabilmente fin dal 1957, quando lui era ancora senatore del Massachusetts. Intermediari per i loro incontri erano stati Frank Sinatra e l’attore Peter Lawford, cognato del Presidente: Lawford aveva messo più volte la propria casa a loro disposizione.

Peter Lawford e JFK

Il 23 aprile, primo giorno di riprese, Marilyn telefonò a Weinstein per avvisarlo che non sarebbe stata presente a causa di una sinusite, contratta probabilmente dopo essersi recata all’Actors Studio di New York dall’insegnante di recitazione Lee Strasberg, per rivedere insieme la parte. La diagnosi del medico inviato dallo studio avrebbe posticipato le riprese del film di un altro mese, ma il regista George Cukor si rifiutò di aspettare e riorganizzò il programma in modo da iniziare a girare le scene in cui non compariva Marilyn.

Marilyn e il regista George Cukor sul set di Something’s Got to Give

Nel mese successivo le riprese proseguirono per lo più senza Marilyn, quasi sempre assente a causa di febbre, mal di testa, sinusite cronica e bronchite, e si accumularono altri 10 giorni di ritardo. La produzione era già fuori budget e la sceneggiatura, ancora in divenire, veniva riscritta ogni notte, costringendo una sempre più frustrata Marilyn a dover memorizzare nuove scene ogni giorno. Con l’avvicinarsi del compleanno del Presidente Kennedy (29 maggio), nessuno pensava che Marilyn avrebbe mantenuto il suo impegno con la Casa Bianca.

Il 19 maggio, invece, Marilyn partecipò ai festeggiamenti anticipati per il 45° compleanno del Presidente al Madison Square Garden di New York indossando l’iconico abito attillato in tessuto trasparente color carne con 2.500 strass cuciti all’esterno, che la faceva apparire nuda. Davanti a circa 15.000 persone, rivolgendosi al Presidente con voce intima e sensuale, cantò la celebre Happy Birthday, Mr. President, sostituendo Mr. President al nome di Kennedy nel tradizionale testo di Happy Birthday to You.

Happy Birthday, Mr. President

Il Presidente la ringraziò affermando che dopo aver ascoltato degli auguri di compleanno tanto dolci, poteva anche ritirarsi dalla politica, ma già da tempo aveva preso le distanze dall’attrice: il regalo di compleanno di Marilyn, un Rolex d’oro con incisa la frase Jack, with love as always from Marilyn, May 29th 1962 (Jack, con amore come sempre da Marilyn, 29 maggio 1962), venne donato a un dipendente. La performance di Marilyn fu una delle sue ultime apparizioni pubbliche di rilievo prima della sua morte, avvenuta meno di tre mesi dopo.

Marilyn tra Robert Kennedy e John Fitzgerald Kennedy

Il viaggio a New York aveva ulteriormente inasprito i rapporti con i dirigenti della 20th Century Fox, ma al suo ritorno Marilyn decise di dare a Something’s Got to Give una sensazionale spinta pubblicitaria facendo qualcosa che nessuna grande attrice di Hollywood aveva mai fatto prima.

In una scena del film, Ellen (Marilyn) nuota in piscina di notte, vede Nick (Martin) alla finestra e lo invita a unirsi a lei; Nick le chiede di uscire dalla piscina, quando si rende conto che Ellen è nuda. Marilyn avrebbe dovuto indossare un body, ma lo tolse subito per nuotare solo con lo slip di un bikini color carne. Se Something’s Got to Give fosse stato completato e distribuito come previsto, Marilyn sarebbe stata la prima stella del cinema a comparire in topless in un film di Hollywood nell’era del sonoro; un primato che spetterà invece all’attrice Jayne Mansfield nel misconosciuto Promises! Promises! dell’anno successivo (1963).

Marilyn in Something’s Got to Give

Quel 23 maggio sul set dovevano essere presenti solo i membri della troupe necessari a girare la scena, ma Marilyn aveva fatto entrare diversi fotografi, che l’avevano immortalata con e senza costume da bagno. Volendo spingere Liz Taylor fuori dalle copertine, nei mesi successivi permise a diverse riviste di pubblicare foto di lei parzialmente nuda. La copertina della rivista Life del 22 giugno mostrava Marilyn avvolta in un accappatoio di spugna blu con il titolo: A skinny dip you’ll never see on the screen (Un bagno nudo che non vedrete mai al cinema).

Marilyn sulla copertina di Life

L’1 giugno 1962, giorno del suo 36° compleanno, Marilyn girò una scena in giardino con Dean Martin e Wally Cox: sarà il suo ultimo giorno su un set cinematografico. Il 4 giugno Marilyn telefonò al produttore Weinstein per notificargli la propria assenza quel giorno, lamentando febbre e il riacutizzarsi della sinusite: fino a quel momento, era stata presente solo 12 giorni su 35.

Marilyn festeggia il proprio compleanno sul set col regista George Cukor

L’8 giugno la 20th Century Fox decise di licenziarla, fortemente appoggiata del regista Cukor, intentando contro di lei una causa da oltre mezzo milione di dollari. La decisione di licenziare Marilyn fu senza dubbio influenzata dalla massiccia debacle finanziaria in cui versava in quel periodo la 20th Century Fox per le riprese di Cleopatra (1963) di Joseph L. Mankiewicz, ancora oggi il film più costoso della storia del cinema: a fronte dei 2 milioni di dollari stimati inizialmente per la sua realizzazione, la pellicola ne avrebbe richiesti 44 (corrispondenti a 372 milioni di dollari attuali), rischiando di far fallire la casa di produzione.

Locandina di Cleopatra

I dirigenti della 20th Century Fox avevano pianificato l’uscita di Something’s Got to Give durante le vacanze di Natale di quell’anno proprio per compensare i costi di Cleopatra: alla disperata ricerca di un capro espiatorio per salvare la faccia, iniziarono una campagna denigratoria a mezzo stampa scandalistica contro Marilyn, additando la sua sregolatezza come causa di un millantato sforamento del budget di oltre 1 milione di dollari, accusandola di aver finto di essere malata e diffondendo addirittura la voce che fosse mentalmente disturbata.

Il ruolo di Marilyn fu offerto a Kim Novak e Shirley MacLaine, ma entrambe rifiutarono; trapelò il nome di Lee Remick, che aveva provato gli abiti di scena ed era stata fotografata con il regista, ma la notizia si rivelò una montatura della stampa. Dean Martin si rifiutò di continuare senza Marilyn e minacciò di abbandonare il film.

Marilyn e Martin in Something’s Got to Give

Per riscattare la propria immagine pubblica, Marilyn si lanciò in una serie di iniziative pubblicitarie, tra cui varie interviste per le riviste Life e Cosmopolitan e due servizi fotografici con Bert Stern per Vogue: uno doveva essere un classico editoriale di moda, nell’altro Marilyn posò nuda. Nei tre giorni di lavoro all’Hotel Bel-Air di Hollywood, Stern le scattò in totale 2.571 foto, che pubblicò solo nel 1982 raccogliendole nel libro The Last Sitting.

Marilyn fotografata da Bert Stern

Le riprese di Something’s Got to Give avevano ormai raggiunto una rovinosa fase di stallo. La 20th Century Fox pensò addirittura di utilizzare il materiale già girato con Marilyn aggiungendo solo una controfigura per le scene mancanti, ma presto si pentì di averla licenziata, riaprì le negoziazioni verso fine giugno e dovette sottostare alle sue condizioni: Marilyn avrebbe ricevuto 500.000 dollari per Something’s Got to Give, le cui riprese sarebbero state posticipate a ottobre, e altrettanti per un altro film, più bonus se completati in tempo; George Cukor sarebbe stato sostituito alla regia da Jean Negulesco, che aveva diretto Marilyn in Come sposare un milionario.

Il 13 luglio 1962, Marilyn posò sulla spiaggia di Santa Monica per il fotografo e amico George Barris, con cui aveva lavorato 8 anni prima in Quando la moglie è in vacanza. Le foto, che per anni Barris rifiutò di pubblicare, vedono Marilyn in bikini arancione, avvolta in un telo da mare verde e con indosso un pullover di lana a maglia larga: saranno gli ultimi scatti della diva.

Marilyn fotografata da George Barris

Col passare del tempo, faceva sempre più freddo. Marilyn voleva smettere.
Questa è l’ultima. -le dissi-
Ok, George. -rispose lei- Questa è solo per te.
Si sporse in avanti e mandò un bacio alla telecamera. Era l’ultima foto che le avrei mai scattato.

(George Barris sull’ultima foto di Marilyn)
L’ultima foto di Marilyn

In quel periodo Marilyn viveva nella sua residenza di Brentwood, a Los Angeles, che aveva acquistato a gennaio di quell’anno. Dopo la fine della relazione col Presidente Kennedy era divenuta amante di suo fratello Robert, allora Procuratore generale, e aveva confidato ad amici e perfino giornalisti che presto avrebbe sposato un uomo molto importante, dichiarando inoltre di essere incinta. Non si conosceva l’identità del padre del nascituro, ma si presumeva potesse essere proprio Robert Kennedy.

Nel frattempo, l’attore e cognato di Kennedy Peter Lawford aveva assunto l’investigatore privato Fred Otash per spiarla, registrandone le conversazioni: secondo Otash, Marilyn era davvero incinta e aveva poi abortito in Messico, forse costretta, con l’aiuto di un medico statunitense che l’aveva seguita oltre confine. L’1 agosto Marilyn firmò il nuovo contratto con la 20th Century Fox.

Peter Lawford e Robert Kennedy

La notte del 5 agosto 1962 la domestica Eunice Murray si svegliò verso le 3:00 e vide la luce accesa sotto la porta della camera da letto di Marilyn: provò a chiamarla, ma nessuno rispose; la porta era chiusa a chiave dall’interno. Alle 3:30 la domestica telefonò allo psichiatra di Marilyn, il dottor Greenson, che arrivò poco dopo e riuscì a entrare nella camera da una finestra: Marilyn giaceva morta nel suo letto, nuda e con in mano la cornetta del telefono. Aveva 36 anni. Alle 3:50 circa il suo medico personale, Hyman Engelberg, ne dichiarò la morte. La polizia di Los Angeles fu avvisata alle 4:25.

Il dottor Thomas Noguchi, medico legale della contea di Los Angeles, eseguì l’autopsia sul cadavere: Marilyn era morta tra le 20:30 e le 22:30 del 4 agosto per avvelenamento acuto da barbiturici. Nel sangue aveva 8 mg% (milligrammi per 100 millilitri di soluzione) di idrato di cloralio e 4,5 mg% di pentobarbital, nel fegato 13 mg% di pentobarbital: quantità di gran lunga superiori al dosaggio letale, che esclusero immediatamente l’ipotesi di un’overdose accidentale.

Noguchi fu assistito dal Los Angeles Suicide Prevention Team. I medici di Marilyn affermarono che l’attrice era soggetta a gravi fobie e frequenti depressioni con cambiamenti d’umore improvvisi e imprevedibili e che era andata diverse volte in overdose di farmaci in passato, forse intenzionalmente. Noguchi classificò quindi la sua morte come probabile suicidio.

Thomas Noguchi

L’incerta ricostruzione degli eventi, il tempo trascorso tra la morte e la denuncia alla polizia, le incongruenze nelle dichiarazioni dei testimoni e il frettoloso referto autoptico hanno alimentato nel tempo varie teorie alternative secondo le quali Marilyn non si sarebbe suicidata, ma sarebbe stata assassinata. Tali ipotesi si basano soprattutto sulle possibili rivelazioni di Marilyn sulle sue relazioni coi Kennedy, considerate una seria minaccia per la loro carriera politica, o su una vendetta della mafia statunitense nei confronti della famiglia Kennedy per le promesse fatte in campagna elettorale e non mantenute.

Già all’epoca si diffuse la voce che Robert Kennedy e Peter Lawford fossero nella casa dell’attrice poche ore prima della sua morte, confermata solo 10 anni fa dalla divulgazione degli archivi segreti dell’investigatore Fred Otash. Nei dossier, Otash parla di una violenta discussione tra Marilyn e Robert Kennedy sulla loro relazione, sull’impegno che lui aveva preso con lei, sul fatto che i Kennedy e i loro amici l’avessero resa un oggetto sessuale da passarsi l’un l’altro: Marilyn gridava disperata, mentre Kennedy e Lawford cercavano di calmarla.

Otash avrebbe saputo della morte di Marilyn solo nelle prime ore del giorno successivo, quando Lawford lo avrebbe chiamato chiedendogli di rimuovere qualsiasi elemento incriminante dalla casa: prove di cui da allora non v’è alcuna traccia, compresi i presunti nastri delle conversazioni. Nel 1982 un’indagine formale del procuratore generale della contea di Los Angeles John Van de Kamp si concluse in un nulla di fatto.

Fred Otash

A oggi non esiste alcuna evidenza di omicidio, ma neppure un’inconfutabile prova che Marilyn si sia suicidata: la fragilità psichica, le dipendenze dai farmaci e le relazioni con uomini di potere l’avevano resa un pericolo per sé stessa, ma l’avevano anche esposta alla mercé di persone senza scrupoli.

Il film Something’s Got to Give non fu mai portato a termine. Per anni non si seppe più nulla nemmeno del footage, che raccoglie le ultime scene in cui compare Marilyn: 9 ore di riprese e parti sonore rimasero inutilizzate negli archivi della 20th Century Fox fino al 1989, quando vennero ritrovate dalla Fox Entertainment News e assemblate in un documentario di un’ora intitolato Marilyn: Something’s Got to Give. L’1 giugno 2001, in occasione del 75° compleanno di Marilyn, un segmento di 37 minuti del documentario venne trasmesso dal canale satellitare AMC col titolo Marilyn Monroe: The Final Days ed è attualmente disponibile su YouTube.

Marilyn Monroe: The Final Days

Dopo la morte di Marilyn, la 20th Century Fox riprese immediatamente il progetto di Something’s Got to Give, mantenendo la trama e riutilizzando gran parte dei set, insieme ad acconciature e costumi in precedenza ideati per la diva. Furono invece rinnovati troupe, cast e titolo: Fammi posto tesoro (Move Over, Darling), diretto da Michael Gordon, vide Doris Day e James Garner nei ruoli di Marilyn Monroe e Dean Martin. Garner era stato a suo tempo la scelta iniziale per la parte, ma aveva preferito recitare ne La grande fuga di John Sturges ed era stato sostituito da Dean Martin.

Fammi posto tesoro venne distribuito nel dicembre 1963, esattamente un anno dopo l’uscita prevista per Something’s Got to Give: Marilyn Monroe non c’era più, ma ancora una volta lo spettacolo doveva continuare.

Locandina di Fammi posto tesoro

“Top Gun”: una saga da record

36 anni di attesa per uno dei sequel più annunciati di sempre: il 2022 è stato finalmente l’anno di Top Gun: Maverick, con Tom Cruise di nuovo nel ruolo del pilota Pete Maverick Mitchell, che aveva lanciato la sua carriera in Top Gun (1986). Uno dei periodi di tempo più lunghi tra un film e il suo sequel, che per di più procede sulla stessa trama dell’originale seguendo gli eventi della vita reale.

La sceneggiatura di un seguito era stata già scritta subito dopo il trionfo del primo film, ma il divieto del Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti di mostrare le più recenti innovazioni nella tecnologia militare impedì la realizzazione del progetto. Nonostante le proposte ricorrenti nei decenni e la strada per il successo praticamente spianata dall’hype sempre più pressante, la produzione di Top Gun: Maverick si è rivelata piuttosto travagliata.

Tom Cruise in Top Gun: Maverick

La Paramount Pictures aveva annunciato un sequel di Top Gun già nel 2010: Tom Cruise e Val Kilmer erano stati contattati per tornare nei rispettivi ruoli, così come il produttore Jerry Bruckheimer e il regista Tony Scott. Una bozza della sceneggiatura era già pronta nel 2012, ma il 19 agosto dello stesso anno Scott si suicidò gettandosi dal Vincent Thomas Bridge di Los Angeles e il progetto venne di nuovo accantonato.

Nel 2017 fu ingaggiato il regista Joseph Kosinski, che scrisse la sceneggiatura definitiva di Top Gun: Maverick. Kosinski aveva già lavorato con Tom Cruise in Oblivion (2013) e non era nuovo a sequel realizzati decenni dopo gli originali, avendo diretto Tron: Legacy (2010), uscito 28 anni dopo Tron (1982), capostipite della saga.

Kosinski sul set di Oblivion

E chissà che rilevanza avrebbe avuto il Tom Iceman Kazansky di Val Kilmer nel progetto originale, ridotto a un cameo nella versione finale, seppur significativo e commovente. Nel 2017 emerse infatti che Kilmer aveva sconfitto dopo due anni un cancro alla gola, sottoponendosi a due tracheotomie che avevano danneggiato le sue corde vocali al punto da non permettergli più di parlare se non per mezzo di un dispositivo elettronico. Nel 2021 la voce di Kilmer venne ricreata da registrazioni d’archivio grazie all’intelligenza artificiale, che consentì di riprodurla in Top Gun: Maverick. E pensare che Kilmer aveva recitato nel primo Top Gun solo perché costretto da obblighi contrattuali, in quello che si sarebbe rivelato uno dei ruoli più iconici della sua carriera…

Val Kilmer e Tom Cruise in Top Gun: Maverick

Capitoli a confronto

In entrambe le pellicole della saga i migliori piloti della Marina Militare statunitense vengono addestrati nella scuola di combattimento Top Gun ma, nonostante i numerosi riferimenti del sequel al suo predecessore, i due film differiscono in modo sostanziale già nella struttura e nell’impronta dei due diversi registi.

Top Gun (1986) è l’esaltazione della sfida per il primato, come la lotta per diventare il maschio dominante in un gruppo: l’azione si basa sugli allenamenti più che su reali imprese belliche, ma il ritmo è mantenuto sapientemente elevato come se i combattimenti aerei (dogfight) fossero vere battaglie per la vita o la morte, grazie anche all’acceso dualismo tra i piloti di punta Maverick (Tom Cruise) e Iceman (Val Kilmer).

Maverick e Iceman in Top Gun

Cercare di dimostrare a ogni costo di essere il miglior pilota ha però un prezzo altissimo e la morte del compagno Goose (Anthony Edwards) segnerà profondamente Maverick, che vivrà per sempre sommerso dai sensi di colpa. Come dichiarato dallo stesso Tom Cruise, Top Gun si discosta dal classico action movie per concentrarsi sul profilo psicologico del protagonista, spaziando nel genere drammatico. In diversi momenti il focus del film si sposta dall’azione alla riflessione, rievocando i fantasmi di Maverick: dalla perdita del padre a quella di Goose, all’incessante bisogno di superare limiti, di infrangere regole, di vivere di solo istinto nell’adrenalina di giocare costantemente con la morte.

Maverick e Goose in Top Gun

Top Gun: Maverick (2022) segue invece più da vicino i canoni del film d’azione. Maverick, ormai divenuto una scomoda leggenda a fine carriera, torna da istruttore alla Top Gun per addestrare dei piloti a una missione quasi suicida: tra questi Rooster (Miles Teller), il figlio di Goose.

Pur mantenendo lo schema del predecessore nelle esercitazioni della parte iniziale, il film è incentrato sull’impresa finale, sulla crescita dei singoli e sulla forza del gruppo. Il turbolento rapporto tra Maverick e Rooster potrebbe sembrare solo un altro modo di rivangare il passato e riallacciarsi al primo film, ma in realtà è il presupposto essenziale per evidenziare l’evoluzione di entrambi i personaggi: i progressi di Rooster nell’acquisire temperamento e sicurezza, la capacità di Maverick di dare fiducia al di là dei tormenti personali.

Rooster (Miles Teller) in Top Gun: Maverick

Come nella maggior parte delle recenti produzioni hollywoodiane, elemento imprescindibile è diventata l’inclusività, spesso forzata al punto da sembrare più una strategia di marketing che la naturale evoluzione nella realizzazione di un film. Considerando che Top Gun: Maverick è il sequel di un film manifesto del machismo patinato di cui inevitabilmente mantiene l’impronta, in questo caso la scelta di introdurre piloti di diverse etnie, tra cui due donne, più che comprensibile è sembrata doverosa.

Phoenix (Monica Barbaro) in Top Gun: Maverick

Non è mai facile per un sequel ripercorrere le orme del predecessore, specialmente di un blockbuster di fama mondiale, ma Top Gun: Maverick ne sfrutta il clamore mediatico senza esserne sommerso, riuscendo a tracciare in autonomia la propria strada.

Entrambi i film fanno parte di una categoria inevitabilmente ritenuta commerciale e spesso snobbata dalla critica, ma la regia di mestiere, l’adeguato mix di azione e introspezione, il ritmo frenetico e la convincente definizione dei personaggi rendono a tutti gli effetti Top Gun una delle saghe più coinvolgenti degli ultimi anni.

Tom Cruise in Top Gun: Maverick

Curiosità sui due film

Top Gun: Maverick è stato presentato nella selezione ufficiale del Festival di Cannes, durante il quale Tom Cruise ha ricevuto a sorpresa la Palma d’oro onoraria.

Tom Cruise premiato a Cannes

Entrambi i capitoli della saga hanno riscosso grandissimo successo al botteghino: Top Gun: Maverick ha già guadagnato oltre 1 miliardo di dollari in tutto il mondo, diventando la pellicola di maggior incasso del 2022 e dell’intera carriera di Tom Cruise (la prima a raggiungere simili cifre), superando proprio il primo Top Gun (già film di maggior incasso del 1986, arrivato a guadagnare 357 milioni di dollari in tutto il mondo).

Tom Cruise in Top Gun

Tom Cruise si dichiarò disponibile a recitare in Top Gun: Maverick a condizione che fossero usati veri velivoli per le riprese aeree e che fosse ridotto al minimo l’utilizzo dei consueti effetti speciali basati su green screen (mediante il quale si può sostituire il colore di uno sfondo con qualsiasi altra immagine) o CGI (Computer-Generated Imagery): perfino i primi piani nella cabina di pilotaggio sono stati realizzati durante reali sequenze di volo e ciò ha costretto gran parte del cast a sottoporsi a lunghe sessioni di allenamento.

Prima di Top Gun (1986), Tom Cruise non aveva mai guidato nemmeno una motocicletta (imparò nel parcheggio della House of Motorcycles a El Cajon, in California): ora, a 60 anni (compiuti oggi), non usa praticamente mai gli stuntman ed esegue da solo anche le scene più estreme.

Tom Cruise in Top Gun

In Top Gun (1986), l’unico attore a non vomitare durante le riprese negli aerei da combattimento fu Anthony Edwards (Goose), il cui personaggio è l’unico a morire.

Anthony Edwards (Goose) in Top Gun

Miles Teller scelse il nome di battaglia Rooster (Gallo) per il proprio personaggio perché apparteneva alla stessa famiglia di quello di suo padre nel primo film, Goose (Oca). Top Gun: Maverick potrebbe aver risollevato la sua carriera, che dopo lo strepitoso successo di Whiplash (2014) sembrava essere già in forte declino, complici ruoli sbagliati e dichiarazioni pubbliche sopra le righe: Teller era infatti reduce da una serie di flop commerciali e di critica e da alcune spiacevoli interviste, in cui si era mostrato come una persona sgradevole e volgare, che avevano fatto crollare la sua popolarità.

Miles Teller in Top Gun: Maverick

La convincente interpretazione e l’incredibile trasformazione fisica per il Rooster di Top Gun: Maverick hanno sorpreso perfino alcuni colleghi: la somiglianza per nulla scontata con Anthony Edwards, suo padre in Top Gun, viene ricreata in modo impressionante nella scena in cui Teller suona al piano e canta Great Balls of Fire di Jerry Lee Lewis, come Edwards nel primo film. Una scena che in Top Gun non era nemmeno prevista: fu il regista Tony Scott ad aggiungerla all’ultimo perché stava ascoltando la canzone quella mattina…

Miles Teller in Top Gun: Maverick

Il personaggio interpretato da Jennifer Connelly in Top Gun: Maverick, Penny Benjamin, non compare nel primo Top Gun, ma viene menzionata più volte come una ragazza (la figlia dell’ammiraglio) con cui Maverick ha avuto una storia e su cui ha effettuato uno dei suoi vietatissimi voli radenti alle torri di controllo. In Top Gun (1986) viene anche riferito che Penny ha 16 anni, quindi in Top Gun: Maverick (2022) dovrebbe averne più o meno 51: Jennifer Connelly ha esattamente 51 anni.

Il titolo della celebre serie di videogiochi motoristici Need for Speed è tratto dalla frase “I feel the need… the need for speed!” detta da Maverick a Goose in una scena di Top Gun (1986), andata persa nel doppiaggio italiano e sostituita con: “Ma noi saremo sempre i più forti!”.

Tom Cruise e Jennifer Connelly in Top Gun: Maverick

La partita di beach football in Top Gun: Maverick è un dichiarato omaggio alla famosissima partita di beach volley di Top Gun, diventata una delle scene più iconiche del film, alla quale il regista Tony Scott aveva inaspettatamente dedicato un’intera giornata di riprese, rischiando di essere licenziato.

Beach football in Top Gun: Maverick

La tensione tra Maverick e Iceman nel primo Top Gun non fu solo recitazione: per restare nei personaggi, Tom Cruise e Val Kilmer si tennero a distanza per l’intera durata delle riprese e non socializzarono mai. Tom Cruise e Anthony Edwards alloggiarono addirittura in una struttura diversa da quella di tutti gli altri attori interpreti dei piloti, per restare separati dal gruppo. Negli anni, comunque, come dichiarato più volte da entrambi, i due sono diventati grandi amici e la serenità del loro attuale rapporto ha senza dubbio contribuito a rendere ancora più emozionanti le scene condivise in Top Gun: Maverick.

Kilmer e Cruise in Top Gun

Anche le riprese del primo film furono funestate da un tragico episodio, e se Top Gun: Maverick è stato dedicato alla memoria del regista Tony Scott, Top Gun fu dedicato ad Art Scholl, famoso pilota acrobatico e stuntman morto il 16 settembre 1985 precipitando nell’Oceano Pacifico al largo della costa meridionale della California nel tentativo di filmare un avvitamento piatto dal suo velivolo: né il corpo né l’aereo vennero mai ritrovati.

Un contributo essenziale al successo mondiale di Top Gun (1986) fu dato dalla strepitosa colonna sonora, comprendente canzoni divenute immortali come Danger Zone di Kenny Loggins e soprattutto Take My Breath Away, scritta da Tom Whitlock e prodotta da Giorgio Moroder per i Berlin, vincitrice dell’Oscar e del Golden Globe per la miglior canzone originale.

BerlinTake My Breath Away

Si trattò della terza statuetta per l’italiano Giorgio Moroder, uno dei musicisti più innovativi e influenti nell’ambito della musica elettronica e della disco music, già premiato nel 1979 per la miglior colonna sonora di Fuga di mezzanotte e nel 1984 ancora per la miglior canzone originale con Flashdance… What a Feeling.

Giorgio Moroder

Per i Berlin, gruppo musicale new wave statunitense, Take My Breath Away rappresentò allo stesso tempo il culmine della fama e l’inizio della fine: la band si sciolse infatti già nel 1987 per divergenze tra la front woman Terri Nunn e il fondatore del gruppo John Crawford, risentito del fatto che i Berlin avessero raggiunto il successo grazie a una canzone che non avevano scritto loro, non avevano mai sentito e non c’entrava niente con loro.

Berlin

Premi Oscar 2022

La 94ª edizione degli Academy Awards sarà purtroppo ricordata per quello che molti hanno definito il momento più brutto nella storia degli Oscar. Durante la presentazione del premio per il miglior documentario, il comico Chris Rock si è rivolto alla moglie di Will Smith, Jada Pinkett Smith, paragonandola alla Demi Moore del film Soldato Jane per la sua testa rasata. Pinkett Smith soffre di alopecia e il suo disappunto per la pessima battuta, all’insegna del body shaming, ha innescato la violenta e ingiustificabile reazione del marito Will Smith, che è salito sul palco e ha schiaffeggiato il presentatore.

Poco dopo, Smith ha ricevuto il suo primo Oscar in carriera come miglior attore protagonista: in lacrime durante il discorso di accettazione, l’attore si è scusato con l’Academy e con gli altri candidati per il proprio gesto sconsiderato, motivandolo con l’amore verso i propri cari e ricevendo dal pubblico una standing ovation decisamente fuori luogo.

Una famiglia vincente – King Richard

L’Oscar a Will Smith era il più scontato della serata: per il ruolo di Richard Williams nel biopic Una famiglia vincente – King Richard, storia del padre e allenatore delle sorelle campionesse di tennis Venus e Serena Williams, l’attore aveva già vinto i maggiori premi internazionali (Golden Globe, Screen Actors Guild Award, Critics Choice Award e BAFTA). Una lodevole interpretazione in un film godibile e ben costruito, seppur leggermente sminuito dall’etichetta di ennesimo stereotipo del sogno americano.

Nettamente sfavoriti alla vigilia gli altri candidati, nonostante l’eccellente performance di Benedict Cumberbatch (Il potere del cane) il momento d’oro di Andrew Garfield (Tick, Tick… Boom!) e il solito intramontabile Denzel Washington (Macbeth).

Il potere del cane

Il potere del cane ha conquistato l’altra statuetta ampiamente annunciata, la sua unica a fronte di 12 nomination (il numero più alto in questa edizione): l’Oscar al miglior regista è andato infatti alla neozelandese Jane Campion, prima donna a essere candidata più di una volta per il premio e già vincitrice del Leone d’argento alla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia. Dopo la vittoria dello scorso anno di Chloé Zhao con Nomadland, è la prima volta che l’Oscar viene assegnato a una donna per due edizioni consecutive.

Suggestive inquadrature e notevoli riprese dall’alto in un film solo all’apparenza definibile western: Il potere del cane è un dramma cupo e inquietante, con personaggi ambigui e un’atmosfera intrisa di perversione. Bravi gli attori (Kirsten Dunst, Jesse Plemons e il luciferino Kodi Smit-McPhee, oltre a Cumberbatch), tutti e quattro candidati all’Oscar.

CODA – I segni del cuore

Decisamente troppe le 10 pellicole candidate all’Oscar per il miglior film, la metà delle quali non aveva alcuna possibilità di vittoria. Il premio è infine andato con merito a un outsider: CODA – I segni del cuore. Remake de La famiglia Bélier (2014) di Éric Lartigau, CODA è l’acronimo di Child Of Deaf Adult, ossia persona udente cresciuta da genitore sordo: la protagonista Ruby Rossi (Emilia Jones) è l’unico membro udente della propria famiglia, avendo padre, madre e fratello sordi, e ha una grande passione per la musica.

La pellicola affronta una tematica delicata da un punto di vista originale e coinvolgente: la disabilità non è rappresentata come un dramma, ma come qualcosa di speciale come il legame che crea tra le persone. CODA pone luce con leggerezza e semplicità sulla difficoltà di comunicare in contesti ancora impreparati alla diversità e sulla caparbietà nel superarla. Un film allegro e allo stesso tempo emozionante, dal messaggio fortemente positivo, diverso da tutti gli altri in gara.

Marlee Matlin, la madre di Ruby nel film, è stata la prima interprete sorda a conquistare un Oscar e la donna più giovane a vincere la statuetta come miglior attrice protagonista per Figli di un dio minore (1986), debuttando all’età di 21 anni: lei e Troy Kotsur, premiato come miglior attore non protagonista per la magnifica interpretazione del padre di Ruby, sono quindi gli unici due attori sordi ad aver vinto un Oscar. Grande soddisfazione anche per la regista e sceneggiatrice Siân Heder, che si aggiudica il premio per la miglior sceneggiatura non originale. Un vero e proprio trionfo per CODA, che conquista tutti e tre gli Oscar per cui era candidato.

Gli occhi di Tammy Faye

Se l’Oscar al miglior attore era praticamente già assegnato, molto più tirata è stata la sfida per l’Oscar alla miglior attrice, dove il testa a testa tra Nicole Kidman e Jessica Chastain si è concluso con la vittoria di quest’ultima per Gli occhi di Tammy Faye, film biografico incentrato sulla vita della famosa telepredicatrice: una statuetta meritata in un film piuttosto lento e fiacco, trascinato quasi unicamente dalla sua performance; premiati con l’Oscar anche i trucchi e le acconciature, impeccabili al punto da rendere l’attrice irriconoscibile.

Nicole Kidman, già vincitrice del Golden Globe per A proposito dei Ricardo, è stata poco aiutata da un film abbastanza piatto e da un’interpretazione un po’ troppo asettica di quella Lucille Ball resa celebre dalla sensazionale mimica facciale e dalla strepitosa verve comica. Davvero difficile la scelta finale, considerato anche il livello delle altre tre candidate: la sorprendente Kristen Stewart nel ruolo di Lady Diana in Spencer, la splendida Penelope Cruz in Madres paralelas di Pedro Almodóvar e la sempre bravissima Olivia Colman ne La figlia oscura di Maggie Gyllenhaal, quest’ultima penalizzata forse dall’aver condiviso la scena con la stella emergente Jessie Buckley, a sua volta candidata come miglior attrice non protagonista.

West Side Story

Era davvero impossibile per West Side Story replicare il successo dell’omonimo capolavoro girato 60 anni prima (1961), vincitore di 10 Oscar e considerato uno dei migliori musical di tutti i tempi. La pellicola, diretta da Steven Spielberg, è riuscita però a ritagliarsi uno spazio importante in questa rassegna degli Academy Awards grazie alla statuetta conquistata da Ariana DeBose come miglior attrice non protagonista nel ruolo di Anita, entrando di diritto nella storia del cinema: l’attrice interprete di Anita nel film del 1961, Rita Moreno, aveva infatti vinto a sua volta l’Oscar come miglior attrice non protagonista.

Anita raggiunge quindi Don Corleone e Joker tra i personaggi le cui interpretazioni hanno guadagnato più di un Oscar, ma la sua doppietta è, se vogliamo, ancora più speciale: mentre gli altri compaiono in due distinte narrazioni (Il padrino e Il padrino – Parte II, Il cavaliere oscuro e Joker), in questo caso l’interpretazione dello stesso personaggio in entrambi gli adattamenti cinematografici della stessa opera viene premiata con lo stesso Oscar.

Belfast

Kenneth Branagh ha finalmente conquistato il suo primo Oscar in carriera per la sceneggiatura originale del semi-autobiografico Belfast: un degno riconoscimento per uno degli artisti più poliedrici del panorama cinematografico mondiale, come testimoniato dallo straordinario dettaglio delle 7 diverse nomination su 8 totali (film, regista, attore protagonista, attore non protagonista, sceneggiatura non originale, sceneggiatura originale, cortometraggio) in oltre 30 anni (la prima nel 1990).

Il suo Belfast è un film intenso e coraggioso sul conflitto nordirlandese tra cattolici e protestanti visto dalla prospettiva di un bambino, con un’iconica fotografia in bianco e nero e ottimi interpreti, piccoli e grandi, tra i quali spicca la performance di Ciarán Hinds nel ruolo del nonno.

Drive My Car

Quasi scontato l’Oscar come miglior film internazionale a Drive My Car di Ryūsuke Hamaguchi (Giappone), candidato anche nelle categorie Miglior film, Miglior regista e Miglior sceneggiatura non originale e dato per favorito rispetto a Flee (Danimarca), La persona peggiore del mondo (Norvegia) e al nostro È stata la mano di Dio di Paolo Sorrentino.

Già vincitore del Golden Globe per il miglior film in lingua straniera e del Prix du scénario (premio alla migliore sceneggiatura) al Festival di Cannes, Drive My Car è un dramma introspettivo sul rimpianto e l’accettazione di sé stessi, ma anche un omaggio al teatro, alla sua capacità di unire personalità e linguaggi diversi, al potere che esercita su chi vi si dedica. Un film impegnativo, ancora di più per la durata di quasi tre ore, ma senza dubbio da vedere.

Dune

A sorpresa, il film più premiato in questa edizione degli Academy Awards è stato Dune di Denis Villeneuve, prima parte dell’adattamento cinematografico dell’omonimo romanzo di Frank Herbert già portato sullo schermo nel 1984 da David Lynch, vincitore di 6 Oscar su 10 nomination: fotografia, montaggio, sonoro, scenografia, effetti speciali e colonna sonora al leggendario Hans Zimmer, alla seconda statuetta in carriera dopo quella per Il re leone (1995).

Un avvincente film di fantascienza supportato da un pregevole cast corale comprendente Timothée Chalamet, Rebecca Ferguson, Oscar Isaac, Zendaya, Jason Momoa, Josh Brolin, Stellan Skarsgård, Javier Bardem e Charlotte Rampling.

Il remake vince facilmente il confronto con il film originale, sommerso a suo tempo da critiche ben poco lusinghiere:

Molti dei personaggi di Dune sono sensitivi, il che li mette nella posizione unica di essere in grado di capire ciò che accade nel film.

Janet Maslin

Ci sono voluti a Dune circa nove minuti per spogliarmi completamente di ogni aspettativa.
Questo film è un vero casino, un’incomprensibile, brutta, non strutturata, inutile escursione nei reami più oscuri di una delle sceneggiature più confuse di tutti i tempi.

Roger Ebert

L’Oscar onorario è stato assegnato agli attori Samuel L. Jackson, Elaine May e Liv Ullmann, mentre Danny Glover ha ricevuto il Premio umanitario Jean Hersholt per il suo decennale impegno nella difesa della giustizia e dei diritti umani. Crudelia, reboot e prequel de La carica dei 101, premiato con l’Oscar per i migliori costumi. Miglior film d’animazione Encanto, 60° classico Disney, miglior canzone No Time To Die di Billie Eilish e Finneas O’Connell per l’omonimo film, 25° capitolo della saga di James Bond.

Zero Oscar!

Grande delusione, infine, per tante pellicole pluricandidate, alcune delle quali annunciate come possibili outsider: La figlia oscura, Licorice Pizza, La persona peggiore del mondo, A proposito dei Ricardo, Macbeth, Tick, Tick… Boom!, Madres paralelas, Don’t Look Up e La fiera delle illusioni – Nightmare Alley tornano a casa senza nemmeno una statuetta.

Il grande coltello (Robert Aldrich, 1955)

Il grande coltello (The Big Knife) è un film del 1955 prodotto e diretto da Robert Aldrich e interpretato da Jack Palance, Ida Lupino, Rod Steiger, Shelley Winters, Wendell Corey e Jean Hagen.

Charlie Castle (Palance) è una star di Hollywood all’apice del successo, ma nell’agiatezza della sua lussuosa villa di Bel Air è un’anima tormentata.

Sua moglie Marion (Lupino), stanca dei suoi vizi e della sua vita senza scopo, è andata via di casa con il loro bambino e medita il divorzio: Marion accusa Charlie di essersi venduto allo star system hollywoodiano e di aver rinunciato alle sue idealità in cambio di facili compensi, accettando ruoli scadenti ma di successo.

Il mezzo idealismo, Charlie, è la peritonite dell’anima.
Sono parole che hanno senso tra i vivi…

(Il grande coltello)

La vita di Charlie è a un bivio: il potente e spregevole boss degli Studios, Stanley Hoff (Steiger), gli impone un rinnovo di contratto di sette anni.

Charlie vorrebbe liberarsi da quell’opprimente giogo, ma ha le mani legate: Hoff e il suo scagnozzo Smiley Coy (Corey) sono a conoscenza dei retroscena di un drammatico episodio del suo passato, e sono disposti a ricattarlo pur di ottenere quanto vogliono. Marion, dal canto suo, non accetterà una riconciliazione se Charlie firmerà il contratto.

Charlie è con le spalle al muro: troverà la forza di affrontare Hoff per riscattare se stesso e riconquistare la propria famiglia?

Charlie e Marion

Un film in cui l’azione avanza non per il gioco dei sentimenti, né per quello delle azioni, ma per definizione morale dei personaggi.

(François Truffaut)

Secondo il critico cinematografico Jeff Stafford, “l’uso dei long take da parte del direttore della fotografia Ernest Laszlo accresce notevolmente la tensione claustrofobica del film e la mescolanza di nomi fittizi con quelli reali (Billy Wilder, Elia Kazan, William Wyler) durante i dialoghi conferisce a Il grande coltello un tono realistico, quasi documentaristico.

La potenza de Il grande coltello è evocata fin dai titoli di testa: l’angosciante immagine del protagonista con le mani tra i capelli per la disperazione, che si riduce poi in frantumi, proviene dal genio di uno dei più grandi illustratori nella storia del cinema, Saul Bass.

Un fotogramma dei titoli di testa

A quel tempo i titoli di testa passavano spesso inosservati: Bass fu il primo a individuarne le potenzialità creative e a utilizzarli per introdurre le atmosfere del film, come epilogo per spiegarne il senso, come prologo o per raccontare eventi precedenti alla narrazione. Egli riteneva che il pubblico dovesse essere coinvolto fin dal primo frame.

Tra le sue opere più celebri, i titoli di testa de L’uomo dal braccio d’oro e Anatomia di un omicidio di Otto Preminger, Il giro del mondo in 80 giorni di Michael Anderson, La donna che visse due volte, Intrigo internazionale e Psyco di Alfred Hitchcock, Spartacus di Stanley Kubrick, Alien di Ridley Scott, Quei bravi ragazzi di Martin Scorsese.

Saul Bass

Il grande coltello è tratto dall’omonimo dramma (The Big Knife, 1949) di Clifford Odets: la singola ambientazione (la villa di Charlie Castle), i toni e le gestualità della recitazione ne evidenziano fortemente la derivazione teatrale.

Drammaturgo, sceneggiatore, regista e attore teatrale, Clifford Odets è annoverato tra gli astri della letteratura statunitense del ‘900: le sue opere hanno ispirato autori come Arthur Miller (Death of a Salesman), Paddy Chayefsky (Network), Neil Simon (The Odd Couple) e David Mamet (Glengarry Glen Ross).

Clifford Odets

Considerato l’erede del premio Nobel per la letteratura Eugene O’Neill, Odets fece parte del Group Theatre, la compagnia teatrale diretta da Lee Strasberg celebre per aver introdotto negli Stati Uniti il Metodo Stanislavskij (basato sull’immedesimazione dell’attore nel personaggio da interpretare) e ritenuta una delle più influenti nella storia del teatro americano.

Non c’è nulla di più torturato sulla faccia della Terra, e non esisterà mai, di un uomo che ha venduto i suoi sogni ma non può dimenticarli.

(Il grande coltello)

Il grande coltello è un’allegoria sui devastanti effetti della fama e del denaro sulla personalità di un artista e una durissima critica al patinato mondo di Hollywood scagliata da chi vi ha vissuto gran parte della propria vita: Odets, infatti, ricevette i maggiori compensi scrivendo sceneggiature di film come Il generale morì all’alba, Il ribelle e Piombo rovente; per La ragazza di campagna, adattamento cinematografico di un suo soggetto, Grace Kelly vinse il suo unico Oscar come miglior attrice protagonista.

Sono ingenuo, eh?
Sì, ma è la tua qualità migliore.

(Il grande coltello)

In un film di dichiarato stampo teatrale in cui i personaggi sono molto più importanti della trama (forte è l’influenza di Anton Chekhov sull’autore) a esaltarsi è l’abilità degli attori.

Colpisce in particolare la mirabile interpretazione di Jack Palance nel ruolo del sofferente Charlie Castle: un belloccio che può avere tutto ciò che desidera, ma che ha rinunciato a tutto ciò che amava e che in fondo continua ad amare; un idealista, intellettuale, amante dell’arte e della musica, stritolato da una prigione d’oro che lo ha condotto ai più miseri compromessi, alle più subdole frequentazioni, a sguazzare nel marciume celato dietro l’abbagliante universo dell’industria cinematografica.

Jack Palance e Ida Lupino in una scena del film

La sua performance è resa ancora più straordinaria dall’insolito ruolo da protagonista: Volodymyr Palahniuk, in arte Jack Palance, è infatti ricordato soprattutto per i molti ruoli da cattivo, cui era stato relegato fin dagli inizi della carriera per i suoi lineamenti spigolosi. Nato in Pennsylvania da una famiglia di origine ucraina, dopo aver tentato la carriera da pugile professionista recitò in circa 130 pellicole tra cinema e televisione.

Nel 1992, conquistò il premio Oscar come miglior attore non protagonista per il film Scappo dalla città – La vita, l’amore e le vacche, a più di quarant’anni dal proprio debutto cinematografico: nel ritirare la statuetta, ricevette una standing ovation dal pubblico in sala praticando delle flessioni con un braccio solo alla tenera età di 73 anni.

Jack Palance ne Il grande coltello

A regalare un’altra indimenticabile interpretazione è l’ossigenato Rod Steiger nei panni dell’antagonista principale, il produttore Stanley Hoff: mefistofelico, spietato, patriota fanatico al punto da chiedere al protagonista di firmare il contratto con la penna del generale Douglas MacArthur, comandante dell’esercito statunitense durante la Seconda Guerra Mondiale.

Rod Steiger ne Il grande coltello

Il personaggio si ispira ad alcuni dei più potenti produttori cinematografici hollywoodiani, ancora in auge nel periodo in cui fu realizzato il film. I suoi finti pianti provengono da Louis B. Mayer, dispotico boss della Metro Goldwyn Mayer (esperto nel piangere a comando, secondo le fonti dell’epoca), ma la sua figura è modellata soprattutto sulle fattezze del feroce tycoon della Columbia Pictures, Harry Cohn: il produttore si accorse subito della voluta somiglianza e tentò senza successo di agire per vie legali contro il regista Robert Aldrich, minacciando di rovinargli la carriera.

Harry Cohn

Cohn era noto per i suoi modi autocratici e intimidatori. Quando divenne presidente della Columbia Pictures rimase anche a capo della produzione, acquisendo così un potere incontrastabile. Si diceva che avesse dispositivi di ascolto ovunque e che potesse sintonizzarsi su qualsiasi conversazione, per poi intervenire facendo risuonare la propria voce attraverso un altoparlante in caso non gradisse qualcosa.

Moe Howard, del trio comico The Three Stooges (conosciuto in Italia come I tre marmittoni), lo definiva un tipo alla Dr. Jekyll e Mr. Hyde, capace di urlare e imprecare contro attori e registi nel proprio ufficio tutto il pomeriggio e di salutarli poi cordialmente la stessa sera a cena.

Secondo il biografo Michael Fleming, Cohn obbligò un altro membro degli Stooges, Curly Howard, a continuare a lavorare dopo essere stato colpito da una serie di lievi ictus: poco tempo dopo Howard ne subì uno più grave, che lo costrinse al ritiro e lo portò a prematura morte.

Curly Howard

Cohn aveva anche stretti legami con la criminalità organizzata, in particolare amicizie di lunga data con i gangster John Roselli e Abner Zwillman. Questi rapporti vennero brutalmente alla luce per un abietto episodio di razzismo, intimidazione e violenza.

Nel 1957, l’attore, cantante e ballerino di colore Sammy Davis Jr. frequentava la biondissima attrice Kim Novak, in quel momento sotto contratto con la Columbia Pictures di Harry Cohn.

King Cohn (nomignolo che gli era stato affibbiato per l’assonanza col celebre gorilla) temeva che la relazione interraziale potesse danneggiare gli Studios e ingaggiò Roselli e i suoi uomini per spaventare Davis e imporgli di non vedere più la Novak.

Sammy Davis Jr.

I gangster lo rapirono per alcune ore e lo minacciarono di fargli perdere l’altro occhio (aveva un occhio di vetro avendo perso il sinistro tre anni prima in un grave incidente d’auto) e di fratturargli le gambe se non avesse sposato una donna di colore entro due giorni: Davis sposò la ballerina di colore Loray White nel 1958 e pagò per contrarre il matrimonio a condizione che si potesse sciogliere entro la fine dell’anno, divorziando poi ufficialmente nell’aprile 1959.

Cohn chiedeva rapporti sessuali alle attrici in cambio dei contratti. Due star come Rita Hayworth e Joan Crawford si rifiutarono platealmente, ma Cohn dovette mantenerle sotto contratto in quanto troppo preziose per la casa di produzione. Secondo lo scrittore Joseph McBride, l’attrice Jean Arthur lasciò il mondo del cinema a causa delle avances di Cohn.

Rita Hayworth e Harry Cohn

Oltre allo Stanley Hoff de Il grande coltello, i tratti caratteristici di Harry Cohn hanno ispirato personaggi di diversi film: il Willie Stark di Tutti gli uomini del re e l’Harry Brock di Nata ieri, entrambi interpretati da Broderick Crawford, e soprattutto il viscido produttore Jack Woltz ne Il padrino, interpretato da John Marley ed entrato nell’immaginario collettivo per la celeberrima scena della testa di cavallo mozzata.

Uno dei personaggi secondari che restano maggiormente impressi ne Il grande coltello è la Connie Bliss interpretata da Jean Hagen, moglie del migliore amico di Charlie Castle, Buddy Bliss: seducente, maliziosa, spregiudicata e soprattutto completamente diversa dalla smorfiosa e capricciosa diva del muto Lina Lamont di Cantando sotto la pioggia, ruolo per cui è più nota l’attrice.

Jean Hagen ne Il grande coltello

Non c’è dubbio che la rivelazione di Robert Aldrich sarà l’evento cinematografico del 1955, all’inizio dell’anno non conoscevamo nemmeno il suo nome.

(François Truffaut)

Il cuore pulsante de Il grande coltello è un regista anticonformista e indipendente: Robert Aldrich. Aldrich amava affrontare temi politici e sociali scomodi, sfidando lo strapotere delle grandi case di produzione cinematografica e scagliando espliciti atti d’accusa verso lo stile di vita americano. I suoi personaggi non sono mai eroi tutti d’un pezzo, ma perdenti, cinici e violenti; nei suoi film dominano avidità e sete di potere.

Fu grazie a lui che il pubblico americano degli Anni ’50 e ’60, tradizionalmente abituato a buoni sentimenti e ideali patriottici, venne di colpo riportato alla realtà da immagini e linguaggi del tutto nuovi per il cinema: non sorprende, quindi, che Aldrich sia considerato un punto di riferimento da intere generazioni di registi.

Robert Aldrich

Cresciuto in una famiglia di politici e banchieri imparentata con i Rockfeller, Aldrich approdò a Hollywood come addetto alla produzione per la RKO, diventando quindi assistente di registi del calibro di Charlie Chaplin, Jean Renoir, Joseph Losey, William A. Wellman, Jules Dassin, Edward Dmytryk e Lewis Milestone.

Per nove anni imparò il mestiere da maestri assoluti, acquisendo i fondamenti pratici ed estetici del cinema, dei quali riportò egli stesso alcuni esempi in varie interviste: le ambientazioni e le atmosfere da Jean Renoir, le tecniche per pianificare in anticipo una ripresa da Lewis Milestone, le scene d’azione da William A. Wellman, l’importanza della comunicazione con gli attori da Joseph Losey, l’empatia visiva tra telecamera e pubblico da Charlie Chaplin.

Molti di questi straordinari cineasti erano anche tra i primi sospettati di attività filocomuniste e sovversive durante la caccia alle streghe messa in atto dal senatore Joseph McCarthy, il cosiddetto maccartismo: sotto la loro influenza, Aldrich rifiutò le convenzioni morali e commerciali dell’epoca per intraprendere un percorso personale fuori dal coro.

Robert Aldrich riconoscibile subito dietro Charlie Chaplin sul set di Luci della ribalta

Aldrich iniziò la sua trentennale carriera di regista nel 1954 con due western: L’ultimo Apache, il primo film dichiaratamente dalla parte degli indiani d’America, e Vera Cruz, considerato il vero modello d’ispirazione per il western all’italiana (pare che il grande Sergio Leone lo conoscesse a memoria, al punto da saperlo raccontare inquadratura per inquadratura).

Nel 1955, pochi mesi prima di girare Il grande coltello, Aldrich approdò al noir con Un bacio e una pistola, adattamento di un romanzo di Mickey Spillane con protagonista l’investigatore privato Mike Hammer, definito dal critico Tim Dirks il film noir definitivo, apocalittico e nichilista.

Dopo i celebri Che fine ha fatto Baby Jane? e Piano… piano, dolce Carlotta, Aldrich diresse il memorabile Quella sporca dozzina, una delle sue pellicole di maggior successo e modello per i film d’azione dei decenni successivi, e Quella sporca ultima meta, sferzante denuncia contro il sistema carcerario statunitense.

Robert Aldrich con Lee Marvin e John Cassavetes sul set di Quella sporca dozzina

Oltre a presentare un affresco molto esatto di Hollywood, “Il grande coltello” è il film americano più raffinato e intelligente che abbiamo visto da molti mesi a questa parte.

(François Truffaut)

Con Il grande coltello, Aldrich vinse il Leone d’argento per la miglior regia alla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia e ottenne il plauso della critica europea: i Cahiers du Cinéma inclusero tre dei suoi film (L’ultimo Apache, Vera Cruz e, appunto, Il grande coltello) tra i dieci migliori dell’anno e lo accolsero come protagonista di una nuova rivoluzione autoriale.

Jack Palance e Rod Steiger ne Il grande coltello

Alnwick Castle: un luogo magico

Nell’Inghilterra nordorientale, al confine con la Scozia, la contea di Northumberland ospita un luogo incantato in cui il tempo sembra essersi fermato: il castello di Alnwick.

Costruito nel 1096 dal barone Yves de Vescy per difendere la frontiera settentrionale inglese dagli assalti degli scozzesi, il secondo castello abitato più grande d’Inghilterra (dopo quello di Windsor) è la residenza ufficiale dei duchi di Northumberland ed è aperto al pubblico nel periodo estivo.

Veduta del castello di Alnwick

Nel 1309, il castello di Alnwick fu acquistato da Henry de Percy, primo barone Percy e avo degli attuali proprietari: Ralph Percy, XII Duca di Northumberland in carica dal 1995, sua moglie Jane Richard e i loro quattro figli. Henry de Percy fece restaurare il castello, la Abbot’s Tower, il Middle Gateway e la Constable’s Tower che sono arrivati ai giorni nostri in perfetto stato di conservazione, mantenendo intatto il fascino dell’epoca.

Dentro le mura del castello

Non sorprende quindi che la maestosa fortezza medievale sia divenuta negli anni una location ricercatissima nel mondo dello spettacolo, dal cinema (Becket e il suo re, Robin Hood: Principe dei ladri, Elizabeth, Transformers – L’ultimo cavaliere) alle serie TV (quinta e sesta stagione di Downton Abbey, sotto il nome di Brancaster Castle).

L’ingresso principale del castello

Un film in particolare, però, ha contribuito a rendere il castello di Alnwick celebre in tutto il mondo e uno dei luoghi più visitati d’Inghilterra: Harry Potter e la pietra filosofale (Chris Columbus, 2001), primo episodio della saga cinematografica con protagonista il mago nato dalla penna della scrittrice britannica J. K. Rowling. Il castello funge infatti da fiabesca ambientazione per la Scuola di Magia e Stregoneria di Hogwarts, comparendo anche nel capitolo successivo, Harry Potter e la camera dei segreti (2002).

Una scena di Harry Potter e la pietra filosofale

Il castello e il giardino

Data la sua posizione strategica nel Borders (la regione attorno al confine anglo-scozzese), il castello di Alnwick è una meta perfetta da visitare sia durante un viaggio in Scozia che in Inghilterra.

Passeggiando all’interno delle mura, si viene trasportati immediatamente nel magico mondo di Hogwarts, in attesa di una partita di Quidditch o di una lezione di volo sulla scopa, ma la bellezza dell’imponente architettura è tale da catturare chiunque, non solo i fan di Harry Potter.

Il castello in una scena di Harry Potter e la pietra filosofale

Il castello è composto da due costruzioni ad anello: l’anello interno contiene un piccolo cortile e le sontuose sale principali, in cui brillano regali salotti, biblioteche e sale da pranzo. Lungo il perimetro delle mura esterne svettano le torri, nelle quali si tengono mostre patrocinate dal ducato.

La Postern Tower ospita affreschi di Pompei, reperti dell’antico Egitto e del periodo romano-britannico, testimonianza del fervido interesse del duca per l’archeologia. All’interno della Constable’s Tower ha occasionalmente luogo la ricostruzione storica della tentata invasione dell’Inghilterra ad opera di Napoleone Bonaparte. La Abbot’s Tower è la sede del Northumberland Fusiliers Museum.

Dentro le mura del castello

La duchessa Jane Richard, originaria di Edimburgo, è la prima nella sua posizione a non provenire dall’aristocrazia e la prima donna a essere nominata Lord luogotenente di Northumberland, titolo conferitole nel 2009 dalla regina Elisabetta II: dal 2000 ha curato il rinnovamento dell’Alnwick Garden, il giardino adiacente al castello, rendendolo una delle maggiori attrazioni d’Inghilterra.

Un notevole contributo a tale successo è arrivato, ancora una volta, dalla saga di Harry Potter, grazie soprattutto a due suggestive materie insegnate a Hogwarts, Pozioni e Erbologia: dal 2005, l’Alnwick Garden ospita infatti il Poison Garden, in cui sono esposte alcune delle piante più tossiche al mondo (noce vomica o albero della stricnina, cicuta, ricino, digitale, belladonna, Brugmansia, Laburnum) insieme a cannabis, coca e papavero da oppio.

L’Alnwick Garden

Harry Potter e la pietra filosofale

Harry Potter, rimasto orfano dei genitori all’età di un anno, viene affidato agli zii materni, Vernon e Petunia Dursley, dal preside della Scuola di Magia e Stregoneria di Hogwarts Albus Silente. Nei dieci anni successivi Harry cresce in un clima fortemente ostile: trattato con durezza dagli zii e vessato dal cugino Dudley, è costretto a dormire in un sottoscala, ma si rende presto conto di avere poteri straordinari.

Harry nella sua cameretta

Poco prima del suo undicesimo compleanno, Harry riceve inaspettatamente una misteriosa lettera, che gli zii gli impediscono di leggere. Col passare dei giorni le lettere aumentano sempre di più, recapitate da gufi e civette, finché lo zio Vernon decide esasperato di trasferire la famiglia in una sperduta baracca.

La lettera per Harry

Il giorno del compleanno di Harry, il guardiacaccia Hagrid riesce finalmente a consegnargli la lettera di ammissione alla Scuola di Magia e Stregoneria di Hogwarts, rivelandogli di essere un mago. Harry riesce inoltre a far luce sul proprio passato: anche i suoi genitori erano maghi e, dieci anni prima, erano stati uccisi dal più terribile mago oscuro di tutti i tempi, Lord Voldemort; l’insolita cicatrice che ha sulla fronte è la testimonianza del fatto che quella notte è sopravvissuto alla furia di Voldemort, evento che lo ha reso una celebrità tra i maghi.

Harry e Hagrid a Diagon Alley

Hagrid accompagna Harry prima a Diagon Alley, un quartiere magico al centro di Londra dove poter procurare l’occorrente per la scuola, poi alla stazione di King’s Cross per prendere il treno in partenza dal binario 9 ¾. Qui Harry incontra Ron Weasley, anche lui al primo anno di scuola, e la sua famiglia. Durante il viaggio sull’Hogwarts Express, Harry e Ron fanno amicizia e conoscono Hermione Granger, saccente ragazza figlia di genitori babbani (senza poteri magici), e l’arrogante Draco Malfoy, verso il quale provano subito una contraccambiata antipatia.

Harry, Ron e Hermione

Giunti a Hogwarts, i ragazzi del primo anno devono essere assegnati dal Cappello Parlante a una delle quattro case della scuola: Grifondoro, Serpeverde, Tassorosso e Corvonero. Harry, Ron e Hermione vengono assegnati alla casa dei Grifondoro e stringono presto una forte amicizia.

Harry e il Cappello Parlante

Harry inizia a frequentare i corsi di magia, distinguendosi soprattutto per l’innato talento nel volo sulla scopa, grazie al quale diventa il nuovo cercatore dei Grifondoro nella squadra di Quidditch, il gioco più popolare nella comunità dei maghi.

Quidditch!

Nel corso dell’anno, Harry, Ron e Hermione vengono a conoscenza del fatto che sotto una misteriosa botola nel castello di Hogwarts è custodita la pietra filosofale, in grado di trasformare qualsiasi metallo in oro e di produrre un elisir di lunga vita. I tre si convincono che il sinistro professore di Pozioni Severus Piton, che sembra nutrire una particolare avversione per Harry, voglia rubarla per consegnarla a Voldemort, e decidono di intervenire. Dopo una serie di prove, Harry scoprirà che a volere la pietra filosofale è Raptor, il professore di Difesa contro le Arti Oscure, e dovrà affrontare nuovamente Voldemort, che sopravvive come un parassita nel corpo di Raptor, bramoso della pietra per tornare in vita.

Harry, Ron e Hermione

Curiosità sul film

Harry Potter e la pietra filosofale fu presentato in anteprima mondiale alla Leicester Square di Londra esattamente vent’anni fa, il 4 novembre 2001: per l’occasione, il cinema fu decorato in modo da riprodurre la scuola di Hogwarts.

Il film fu subito accolto positivamente dalla critica e riscosse un incredibile successo di pubblico, arrivando a incassare 974.755.371 milioni di dollari in tutto il mondo.

La statua di Harry Potter alla Leicester Square di Londra

Il castello di Alnwick, la King’s Cross Station di Londra, la Cattedrale di Gloucester, la stazione di Goathland e i Warner Bros. Studios di Leavesden furono utilizzati come set principali, ma le riprese del film ebbero luogo in diverse altre location sparse nel Regno Unito: alcune scene di Hogwarts furono girate a Harrow School e alla Cattedrale di Durham; la Divinity School dell’Università di Oxford venne utilizzata come infermeria di Hogwarts; la Duke Humfrey’s Library, parte della Biblioteca Bodleiana, divenne la biblioteca della scuola; la Australia House di Londra venne usata per la banca Gringott, la Christ Church come sala dei trofei di Hogwarts; la scena in cui Harry aizza il serpente contro Dudley venne girata allo zoo di Londra; Privet Drive fu ricostruita a Picket Post Close a Bracknell, nel Berkshire.

La Cattedrale di Canterbury, candidata come possibile set per Hogwarts, negò le riprese alla Warner Bros. a causa dei contenuti pagani del film.

La King’s Cross Station di Londra

Harry Potter e la pietra filosofale, così come gli altri capitoli della saga, vanta un cast stellare interamente britannico e irlandese su precisa volontà della Rowling, che intendeva così mantenere l’integrità culturale dei romanzi: i tre protagonisti Daniel Radcliffe, Rupert Grint e Emma Watson, che qui mossero i primi passi delle proprie carriere cinematografiche nei ruoli di Harry Potter e dei suoi migliori amici Ron Weasley e Hermione Granger, sono affiancati da attori come Richard Harris (Albus Silente nei primi due film, sostituito poi da Michael Gambon), Alan Rickman (Severus Piton), Maggie Smith (Minerva McGranitt), Robbie Coltrane (Hagrid), Tom Felton (Draco Malfoy), Jason Isaacs (Lucius Malfoy) e John Hurt (Olivander, il venditore di bacchette magiche).

La scrittrice J. K. Rowling con Rupert Grint, Daniel Radcliffe e Emma Watson

Richard Harris aveva inizialmente rifiutato il ruolo del preside Albus Silente, ma dichiarò di aver cambiato idea quando sua nipote lo minacciò di non rivolgergli più la parola se non lo avesse interpretato.

Richard Harris/Albus Silente in una scena del film

Il professore di Difesa contro le Arti Oscure, Quirinus Raptor, è interpretato da Ian Hart. Per la parte era candidato anche l’attore David Thewlis, che entrerà a far parte della saga dal terzo capitolo, Harry Potter e il prigioniero di Azkaban, nelle vesti di un altro professore di Difesa contro le Arti Oscure: Remus Lupin.

Ian Hart/Quirinus Raptor (in alto) e David Thewlis/Remus Lupin (in basso)

Severus Piton, insegnante di Pozioni e direttore della casa di Serpeverde, è uno dei personaggi chiave della saga, magistralmente interpretato da Alan Rickman: per il ruolo era stato inizialmente selezionato l’attore Tim Roth, che dovette rifiutare essendo già impegnato sul set del film Planet of the Apes – Il pianeta delle scimmie di Tim Burton.

Alan Rickman/Severus Piton (a sinistra) e Tim Roth (a destra)

U-Boot 96 (Wolfgang Petersen, 1981)

Eine Reise ans Ende des Verstandes”
“Un viaggio ai limiti della mente umana”

(Tagline del film)

U-Boot 96 (Das Boot) è un film di guerra tedesco del 1981 scritto e diretto da Wolfgang Petersen e interpretato da Jürgen Prochnow, Herbert Grönemeyer e Klaus Wennemann.

La pellicola è incentrata sull’U-96, un sommergibile della Marina militare tedesca (Kriegsmarine) in servizio durante la Seconda Guerra Mondiale (U-Boot è l’abbreviazione di Unterseeboot, letteralmente battello sottomarino) ed è tratta dall’omonimo romanzo di Lothar-Günther Buchheim Das Boot, pubblicato nel 1973 ed edito in Italia come U-Boot.

L’U-96 in una scena del film

La narrazione è immaginaria, ma si basa su episodi realmente accaduti al vero U-96: Buchheim, autore del romanzo, era salito a bordo del sommergibile nel 1941 come corrispondente di guerra per fotografare e descrivere un U-Boot in azione per scopi di propaganda; Heinrich Lehmann-Willenbrock, comandante dell’U-96 e sesto comandante tedesco per tonnellaggio nemico affondato (179125 tonnellate) nella Battaglia dell’Atlantico contro gli Alleati, fece da consulente alla regia insieme a Hans-Joachim Krug, comandante in seconda dell’U-219.

Il vero U-96 e il comandante Lehmann-Willenbrock

Nell’ottobre 1941, il tenente Werner si imbarca a La Rochelle come corrispondente di guerra a bordo del sommergibile tedesco U-96, in procinto di salpare per l’Atlantico a caccia di navi nemiche. L’U-96 ha come ufficiali più alti in grado l’autorevole comandante, soprannominato Der Alte (Il vecchio), e il valente direttore di macchina.

Werner entra rapidamente a contatto con le dure condizioni di vita all’interno del sommergibile, segnate da snervanti attese, sporcizia e promiscuità, che minano costantemente il morale dell’equipaggio.

Il comandante e il tenente Werner in una scena del film

Dopo giorni di navigazione viene segnalata la presenza di un convoglio Alleato e il comandante si lancia all’attacco, ma una fitta nebbia ribalta inaspettatamente lo scenario: l’U-96 viene individuato e bombardato da un cacciatorpediniere (una nave da guerra progettata appositamente per attaccare i sommergibili, equipaggiata con sonar e cariche di profondità) e da cacciatore diventa preda, riuscendo comunque ad allontanarsi.

La disillusione del comandante, diffidente riguardo all’attendibilità degli ordini ricevuti, trova conferma quando l’U-96 si imbatte in un’unità amica: un incontro così improbabile nell’immensità dell’oceano induce a sospettare che uno dei due sommergibili sia stato inviato nel posto sbagliato, palese testimonianza della superficialità dell’Alto Comando sui reali obiettivi delle missioni.

Una notte l’U-96 avvista un convoglio nemico e attacca lanciando tre siluri, nonostante il chiarore della Luna lo renda facilmente distinguibile: i siluri raggiungono i bersagli, ma il sommergibile viene individuato da un caccia di scorta alle navi e bombardato per ore, riuscendo miracolosamente a salvarsi.

Una scena del film

Quando il rientro sembra ormai imminente, un inatteso ordine impone al sommergibile un ultimo incarico, che si rivela essere una missione suicida: dirigersi verso la base di La Spezia passando attraverso lo stretto di Gibilterra presidiato dalla flotta britannica.

Durante l’insidiosa traversata, l’U-96 viene centrato da una bomba e tenta la fuga immergendosi rapidamente: il colpo ricevuto ha però danneggiato gli strumenti per regolare l’immersione e l’assetto del sommergibile, che continua a scendere senza più controllo.

Raggiunta la profondità di 270 metri, ben oltre il livello di tenuta del natante, un banco di sabbia arresta la mortale discesa: la pressione dell’acqua, tuttavia, fa cedere rivetti e parte della tubolatura, provocando l’apertura di falle e di vie d’acqua che inondano rapidamente il sommergibile.

Una scena del film

In una corsa contro il tempo, con sempre meno ossigeno e forze residue, l’equipaggio riesce strenuamente a chiudere le falle e, grazie all’ingegno del direttore di macchina, a riparare gli impianti danneggiati, rimettendo il sommergibile in condizione di emergere: dopo oltre 24 ore e senza quasi più ossigeno, l’U-96 riesce a tornare in superficie.

Il comandante rinuncia ad attraversare lo stretto e dà ordine di rientrare alla base, ma il destino sarà implacabile.

Il direttore di macchina (Wennemann), il comandante (Prochnow) e il tenente Werner (Grönemeyer) in una scena del film

Un film di guerra antimilitarista, un film tedesco antinazista

A parte il primo guardiamarina, giovane ufficiale e fervente nazista, l’equipaggio dell’U-96 è apolitico o, come nel caso del comandante, apertamente antinazista. Lo storico Michael Gannon conferma che nel 1941, anno in cui è ambientato il film, gli U-Boot erano uno dei rami meno filo-nazisti nelle forze armate tedesche. Nel suo libro Iron Coffins (Bare di ferro), l’ex comandante di U-Boot Herbert A. Werner sottolinea che la selezione del personale navale in base alla lealtà al partito durante la guerra avvenne solo dal 1943 in poi, quando gli U-Boot stavano subendo ingenti perdite, il morale dei soldati era ai minimi termini e iniziava a serpeggiare un crescente scetticismo verso il Führer e l’Alto Comando.

Una scena del film

L’originalità di U-Boot 96 è spiazzante fin dal soggetto: la vita all’interno di un sommergibile durante la Seconda Guerra Mondiale raccontata dal punto di vista dei soldati tedeschi, mostrati per la prima volta come esseri umani dotati di sentimenti e ingegno e non come fanatici sanguinari. Una prospettiva del tutto nuova per l’epoca: in un’industria cinematografica dominata dal colosso statunitense, la pellicola di produzione tedesca stravolse i canoni del cinema di guerra. Un’impresa titanica ed estremamente rischiosa, che richiese una maniacale attenzione ai particolari: la minima ambiguità avrebbe facilmente attirato accuse di revisionismo.

I protagonisti non vengono dipinti come eroi: sono semplicemente soldati chiamati ad affrontare paure e insidie in un contesto così estremo e claustrofobico, dove all’angosciosa frenesia delle battaglie fanno da contraltare i lunghi periodi di inattività. È questa la vera forza del film: la costante tensione e il notevole realismo catapultano lo spettatore a bordo e generano una potentissima empatia verso i personaggi, arrivando a rendere imprevedibile un epilogo in fondo annunciato.

Una scena del film

Curiosità

La realizzazione del film durò due anni, dal 1979 al 1981. Le scene all’interno del sommergibile furono girate tutte di seguito, per rendere l’aspetto degli attori il più realistico possibile: il caratteristico pallore di chi ha vissuto al chiuso per lunghi periodi, la barba e i capelli incolti, i vestiti sporchi e sdruciti. Agli attori fu inoltre impartita una formazione sul campo per imparare a muoversi rapidamente negli angusti spazi del sommergibile, senza inciampare o scontrarsi con i compagni, così da limitare al massimo incidenti ed eventuali interruzioni.

Gli ufficiali dell’U-Boot 96 in una scena del film

Non disponendo la produzione delle attrezzature all’avanguardia usate dal cinema hollywoodiano, nelle scene in cui i personaggi dovevano essere bagnati l’acqua non era riscaldata e gli attori tremavano realmente per il freddo.

Ogni dettaglio, dalle divise alle apparecchiature, dalle armi alle suppellettili, è storicamente accurato. Per riprodurre l’U-96 furono realizzati due modelli a grandezza naturale di un vero U-Boot Tipo VII-C: un sommergibile motorizzato e vuoto per gli esterni in mare e un tubo provvisto di tutti gli interni; quest’ultimo era montato su un simulatore di navigazione azionato da attuatori idraulici in modo da ricreare rollio e beccheggio, insieme agli scossoni prodotti dalle bombe di profondità.

Interni del modello: tavolo del timoniere (in alto a sinistra), camera di manovra (in alto a destra), sala siluri (in basso a destra), sala macchine (in basso a sinistra)

Il modello usato per le scene in emersione venne prestato a Steven Spielberg per I predatori dell’arca perduta, le cui riprese erano iniziate in quel periodo, e fu restituito in pessime condizioni, tanto da allarmare la produzione sulla sua effettiva capacità di galleggiare nelle ultime scene ancora da girare.

Un modello della torretta del vero U-96 con il celebre logo del pesce sega ghignante fu realizzato per gli esterni che non richiedevano la ripresa dell’intero scafo. La torretta fu posizionata in una piscina nei Bavaria Studios di Monaco: per simulare le onde venivano lanciati getti d’acqua.

In alto, l’U-995 (un U-Boot Tipo VII-C) in esposizione al Memoriale navale di Laboe; in basso il modello della torretta esposto ai Bavaria Studios di Monaco

U-Boot 96 fu la prima parte di rilievo per l’attore Jürgen Prochnow (il comandante), che da quel momento divenne uno dei caratteristi più richiesti a livello internazionale (Dune, Un’arida stagione bianca, Robin Hood – La leggenda, Il paziente inglese), recitando spesso in ruoli di villain autoritari, crudeli e sadici.

Jürgen Prochnow in U-Boot 96

Herbert Grönemeyer (il tenente Werner) è uno dei più popolari cantautori tedeschi: dal 1984 tutti i suoi album si sono posizionati al primo posto nelle classifiche nazionali e i suoi album Mensch e 4630 Bochum sono ancora oggi il primo e il terzo album più venduti di sempre in Germania.

Herbert Grönemeyer in U-Boot 96

Nel 1997 la pellicola è stata distribuita in una versione Director’s cut di 209 minuti che, rispetto alla versione cinematografica del 1981 (149 minuti), risulta essere molto più completa senza appesantire la narrazione. Poiché l’audio originale era andato perduto, furono richiamati gli attori originali che, dopo sedici anni, ridoppiarono l’intera pellicola. In modo simile fu ricreata l’imponente colonna sonora, a partire dalla registrazione originale conservata dal compositore Klaus Doldinger: l’audio su più canali consentì la distribuzione del film in Dolby Digital.

U-Boot 96 è considerato uno dei migliori film di guerra mai realizzati: un thriller mozzafiato dal realismo quasi documentaristico, intelligente e anticonformista. Acclamato dalla critica, ottenne 6 nomination ai premi Oscar (regia, sceneggiatura non originale, fotografia, montaggio, sonoro e montaggio sonoro), attuale record per una pellicola tedesca, ma non riuscì a conquistare neppure una statuetta. Il film ebbe inoltre uno straordinario successo di pubblico, specialmente in Germania e negli Stati Uniti: a fronte di un budget iniziale di 32 milioni di marchi (tuttora una delle produzioni tedesche più costose di sempre), incassò quasi 85 milioni di dollari in tutto il mondo. Due anni dopo, un’altra pellicola diretta da Wolfgang Petersen avrebbe raggiunto i 100 milioni di dollari di incassi: La storia infinita, il film tedesco più costoso del dopoguerra (60 milioni di marchi).

Sul set di U-Boot 96 (da destra a sinistra): l’attore Jürgen Prochnow, il regista Wolfgang Petersen, l’autore del romanzo Lothar-Günther Buchheim e il direttore della fotografia Jost Vacano

Un mercoledì da leoni (John Milius, 1978)

Un mercoledì da leoni (Big Wednesday) è un film del 1978 diretto da John Milius e interpretato da Jan-Michael Vincent, William Katt e Gary Busey.

Tre amici virtuosi del surf furoreggiano sulle spiagge della California degli Anni ’60: Matt Johnson (Vincent) vive con inquietudine il passaggio dalla spensieratezza alla maturità e la sua fragile natura lo spinge a cercare rifugio nell’alcol; Jack Barlow (Katt) è riflessivo, pacato e responsabile; Leroy Spaccatutto Smith (Busey) è uno scatenato pazzoide con un profondo senso dell’amicizia.

Leroy (Busey), Matt (Vincent) e Jack (Katt) in Un mercoledì da leoni

Il punto di riferimento del trio è Bear (Sam Melville), un esperto surfista che costruisce artigianalmente tavole da surf sul suo pontile, verso il quale i ragazzi provano grande affetto e ammirazione: l’ascesa e il declino della sua attività rispecchiano idealmente la parabola del surf da passione a moda, da novità a consuetudine, da scintilla di amicizia e aggregazione sociale a fenomeno commerciale.

Quattro grandi mareggiate in quattro diverse stagioni (estate ’62, autunno ’65, inverno ’68, primavera ’74) scandiscono le vite dei protagonisti attraverso gli Anni ’60 e ’70, profondamente segnati dalla guerra del Vietnam: Matt e Leroy riescono a sottrarsi alla chiamata alle armi, utilizzando diversi stratagemmi per farsi riformare alla visita medica, mentre Jack accetta quello che lui considera un dovere.

Il tempo passa e li divide, ma le grandi ondate ritornano e i tre si ritroveranno insieme per l’ultima cavalcata in occasione della gigantesca mareggiata del ’74, Il Grande Mercoledì che dà il titolo originale al film (Big Wednesday).

Una scena di Un mercoledì da leoni

Secondo il Morandini:
“Non è soltanto un film sul surf e la sua mistica eroica, ma anche una malinconica saga sull’amicizia virile, su una generazione americana segnata dal malessere esistenziale e dalla guerra del Vietnam. Uno dei più misconosciuti film dei ’70. Eppure la sua importanza – non soltanto sociologica – è pari a quella de Il cacciatore di Michael Cimino, uscito nello stesso anno.”

Ad accompagnare le vicende dei protagonisti la splendida colonna sonora di Basil Poledouris, compositore statunitense di origini greche dallo stile epico e imponente, che ha collaborato in diverse altre occasioni con il regista John Milius (Conan il barbaro, Alba rossa, Addio al re) e ha composto le musiche di film quali RoboCop, Caccia a Ottobre Rosso e Free Willy – Un amico da salvare. Nel 1996, il suo brano The Tradition of the Games ha aperto i Giochi Olimpici di Atlanta.

Il compositore Basil Puledouris

Il regista di Un mercoledì da leoni, John Milius, è una figura di spicco del cinema hollywoodiano: sceneggiatore di pellicole che hanno fatto epoca quali Apocalypse Now di Francis Ford Coppola e i primi due film della serie dell’ispettore Callaghan (Ispettore Callaghan: il caso “Scorpio” è tuo! e Una 44 Magnum per l’ispettore Callaghan), Milius ha scritto e diretto celebri film degli Anni ’70 e ’80 come Dillinger, Il vento e il leone, Conan il barbaro e Addio al re.

Il regista John Milius

Personaggio chiave della cosiddetta New Hollywood, il gruppo di cineasti comprendente Steven Spielberg, George Lucas e Francis Ford Coppola che dagli Anni ’70 scrivono, dirigono e producono da soli i propri film, Milius è protagonista di un curioso aneddoto riguardante proprio Un mercoledì da leoni e la sua amicizia con Spielberg e Lucas.

I tre registi si accordarono per dividere in parti uguali i profitti dei propri film che sarebbero usciti nella stagione 1977-78: Guerre stellari di George Lucas (1977), Incontri ravvicinati del terzo tipo di Steven Spielberg (1977) e, appunto, Un mercoledì da leoni di John Milius (1978). Spielberg, in particolare, era certo che Un mercoledì da leoni sarebbe stato un trionfo al botteghino, “il perfetto trait d’union tra American Graffiti e Lo squalo” (due dei film di maggior successo del decennio). Tuttavia, mentre i primi due film ebbero uno straordinario successo di pubblico (Guerre stellari è ancora oggi uno dei film con maggiori incassi nella storia del cinema), Un mercoledì da leoni fu un clamoroso flop commerciale e fu stroncato da gran parte della critica, che sottolineò l’inconsistenza delle scene d’azione rispetto alla pubblicizzata epicità e le prestazioni poco convincenti degli attori.

Steven Spielberg, John Milius e George Lucas

Tempo dopo, però, un cinefilo del calibro di Quentin Tarantino scrisse:
“Anche se preferisco Dillinger, il debutto alla regia di Milius, è molto difficile sostenere che Un mercoledì da leoni non sia il suo classico per eccellenza. La resa dei conti finale tra l’eroico trio e le onde gigantesche è così splendida da compensare tutto il resto e la camminata dei tre verso il destino ispirata a Il mucchio selvaggio è di gran lunga l’apice cinematografico di Milius.”

Camminate a confronto: Un mercoledì da leoni (in alto) e Il mucchio selvaggio (in basso)

Le origini di un cult

Un mercoledì da leoni (1978) è l’opera più intima e autobiografica di Milius: trasferitosi in California all’età di 7 anni, il futuro regista sviluppò da subito una grande passione per il surf, che continuò a praticare fino ai 50 anni.

La mia religione è il surf.

(John Milius)
L’ultimo fotogramma dei titoli di testa di Un mercoledì da leoni: l’immagine di un giovanissimo Milius surfista

Il film è un nostalgico omaggio del regista alla propria gioventù trascorsa sulle spiagge di Malibu, in California.

Avendo praticato il surf, sono l’unico regista al mondo che avrebbe potuto girare questo film.

(John Milius)

Milius scrisse la sceneggiatura a quattro mani con il giornalista Dennis Aaberg, suo amico e compagno di surf: il soggetto si ispirava a una storia breve pubblicata da Aaberg nel 1974 su una rivista di surf, intitolata No Pants Mance e basata sulle vite della comunità di surfisti comprendente Milius e lo stesso Aaberg negli Anni ’60.

In quegli anni il surf era uno sport totalmente nuovo, con una propria aristocrazia.
Ci volle circa un anno per scrivere la sceneggiatura: essendo due veri surfisti, ci tenevamo che fosse autentica.

(Dennis Aaberg)
Il giornalista Dennis Aaberg

Milius così descrisse il proprio film:
“È un Com’era verde la mia valle a tema surf: la fine di un’aristocrazia e di un’era, il passaggio a un’epoca più corrotta e complessa, la crescita e la perdita dell’innocenza. È basato sulle vite di tre amici dieci anni fa, sulla loro amicizia e sul valore dell’amicizia. Riguarda l’amore per un luogo, l’amore per un tempo, l’amore per i tuoi contatti umani e la perdita di tutto questo. Il surf è solo lo sfondo esotico: sapevamo tutti che era speciale, sapevamo che non sarebbe durato e sapevamo quanto eravamo stati bene. Il surf è strano: molte persone non lo lasciano mai, senti sempre di dovergli qualcosa. È stata un’esperienza centrale nella nostra vita. È il film più personale che potrò mai fare e ho pensato che avrei dovuto farlo ora, prima di andare troppo lontano.”

Proprio come dice il protagonista Matt Johnson in una scena del film:
“Io ho fatto lo sport perché è bello stare con gli amici”

Da sinistra: Leroy, Sally (Patti D’Arbanville), Jack, Peggy (Lee Purcell) e Matt in una scena del film

Un’ondata di curiosità

Gli attori William Katt e Jan-Michael Vincent erano già esperti surfisti, mentre Gary Busey dovette imparare a surfare prima che iniziassero le riprese.

William Katt (a destra) e Jan-Michael Vincent (a sinistra) in una scena di Un mercoledì da leoni

Katt, in particolare, affermò che Un mercoledì da leoni:
“È stato il film più personale in cui ho recitato: ho vissuto quella vita da quando avevo dieci anni.”

In alcune scene, tuttavia, Katt fu sostituito da una controfigura d’eccezione: il surfista australiano Peter Townend, primo campione del mondo di surf professionistico.

Il surfista australiano Peter Townend in Un mercoledì da leoni

Barbara Hale (interprete di Mrs. Barlow, madre di Jack) e William Katt (Jack Barlow) erano madre e figlio anche nella realtà: Hale è conosciuta soprattutto per il ruolo di Della Street, la discreta e indispensabile segretaria tuttofare dell’avvocato Perry Mason nell’omonima serie di telefilm (1957–1966) e film TV (1985–1995), grazie al quale ha raggiunto il successo internazionale e conquistato un Emmy Award come miglior attrice non protagonista in una serie drammatica (1959).

Barbara Hale e William Katt (a sinistra) con Raymond Burr (a destra), il celebre Perry Mason

La narrazione del film è affidata alla voce di un personaggio minore, Fly, un surfista amico dei tre protagonisti interpretato da un giovane Robert Englund, che pochi anni dopo avrebbe ottenuto la consacrazione nel suo ruolo più celebre: il mostruoso serial killer Freddy Krueger nella fortunata saga horror Nightmare.

Robert Englund (in alto a destra in Un mercoledì da leoni, in basso a destra dietro le quinte di Nightmare)

Il surfista hawaiano Gerry Lopez, riconosciuto come il miglior tuberider del mondo, compare nel film nel ruolo di sé stesso e reciterà poi in altri due film di Milius: Conan il barbaro e Addio al re.

Gerry Lopez in Un mercoledì da leoni

Il film è stato girato prevalentemente nel sud della California, presso Surfrider Beach, Gaviota Beach e Cojo Point, mentre per la scena finale è stata utilizzata la Sunset Beach di Pupukea, nelle Isole Hawaii.

La figura di Leroy Spaccatutto (The Masochist nell’originale), interpretato da Gary Busey, è ispirata a un certo Mitch, un eccentrico personaggio appartenente al mondo hippie se possibile ancora più folle della sua trasposizione cinematografica. All’epoca in cui è ambientato il film, questi aveva acquistato grazie a un lascito ereditario numerosi appartamenti in forte stato di degrado nella zona di Venice Beach, i quali col tempo erano aumentati progressivamente di valore, rendendolo miliardario. In seguito si era trasferito nella zona di Santa Cruz, località celebre per le sue altissime onde. Noto per i numerosi stratagemmi volti a evitare il servizio di leva, la sua specialità era fingersi pazzo e fu pertanto costretto a entrare e uscire da strutture psichiatriche per diversi anni.

Il personaggio di Bear, interpretato da Sam Melville, riunisce alcuni celebri costruttori di tavole conosciuti da Milius all’epoca, come Dale Velzy, Hap Jacobs e Bob Bolen.

Leroy Spaccatutto (Gary Busey) e Bear (Sam Melville)

Il protagonista Matt Johnson (interpretato da Jan-Michael Vincent) è ispirato a Lance Carson, il più noto surfista dell’epoca tra i frequentatori delle spiagge di Malibu: famoso per le sue evoluzioni sulle onde medio-piccole, Carson ebbe problemi di alcolismo fin dai 19 anni, dai quali uscì con le proprie forze. Rimasto in ottimi rapporti d’amicizia con Milius, in tempi recenti è divenuto un abile costruttore di tavole da surf.

Lance Carson

Ma se il destino è stato magnanimo con l’uomo che ha ispirato il protagonista del film, non lo è stato affatto con l’attore che lo ha interpretato, Jan-Michael Vincent: Un mercoledì da leoni sarebbe diventato l’inquietante specchio della sua vita.

Grande promessa del cinema negli Anni ’70, Vincent raggiunse l’apice del successo con la serie TV Airwolf (1984-1987), ma la sua carriera non decollò mai a causa dei suoi problemi con alcol e droga che gli costarono due divorzi, numerosi arresti per possesso di cocaina, rissa, aggressione, ubriachezza molesta, guida in stato di ebbrezza e un’ingiunzione restrittiva per violenza domestica. L’attore rimase inoltre coinvolto in diversi incidenti d’auto, che gli provocarono gravi infortuni al collo e danni permanenti alle corde vocali e alle gambe.

Jan-Michael Vincent

In Un mercoledì da leoni, il suo personaggio rifiuta di accettare i cambiamenti imposti dalla vita e dai passaggi d’età annegando le proprie sofferenze nell’alcol e arrivando a provocare un serio incidente.

Della vita reale di Jan-Michael Vincent sappiamo quanto poco sostegno abbia ricevuto in giovane età. Suo nonno e i suoi zii, rapinatori di banche e falsari, finirono tutti arrestati o uccisi, lasciando suo padre solo fin dall’età di 12 anni: arruolatosi nell’esercito, questi divenne ben presto un alcolista. Osservando la rigida disciplina militare cui il padre era sottoposto, Vincent iniziò probabilmente a sviluppare quel disprezzo nei confronti dell’autorità che in seguito avrebbe contribuito a condurlo verso l’autodistruzione.

Jan-Michael Vincent in Un mercoledì da leoni

Concorrenza sleale (Ettore Scola, 2001)

Concorrenza sleale è un film del 2001 diretto da Ettore Scola e interpretato da Diego Abatantuono, Sergio Castellitto, Gérard Depardieu, Elio Germano, Sabrina Impacciatore, Jean-Claude Brialy e Claudio Bigagli.

A Roma, nel 1938, due commercianti di stoffa si fanno una concorrenza agguerrita: l’elegante boutique di Umberto Melchiorri (Diego Abatantuono), originario di Milano, realizza abiti su misura; il vivace negozio di Leone Della Rocca (Sergio Castellitto), ebreo romano, vende capi confezionati. I due cercano continuamente nuove strategie per attrarre i clienti, non sempre corrette, e spesso si azzuffano per futili motivi.

All’astio tra i capifamiglia fanno da contraltare la grande amicizia dei figli più piccoli, Pietro e Lele, e la storia d’amore tra i figli maggiori, Paolo (Elio Germano) e Susanna.

Il rapporto tra Umberto e Leone, giunto ormai ai limiti dell’odio personale, cambia radicalmente con la proclamazione delle leggi razziali: Umberto, non condividendone i principi e vedendo Leone ingiustamente maltrattato, inizia a guardare il rivale sotto una luce diversa.

Diego Abatantuono, Sergio Castellitto e Jean-Claude Brialy in Concorrenza sleale

Il cinema ha spesso fornito un contributo divulgativo essenziale sull’Olocausto, producendo capolavori senza tempo entrati ormai nell’immaginario collettivo. In Concorrenza sleale, Ettore Scola riesce a esprimere un punto di vista originale e sincero sull’argomento, senza mai ricadere nel lacrimevole: proprio laddove l’antipatia e il disprezzo personale sono più tangibili, non c’è nessun odio razziale. Anzi, dal nulla affiorano solidarietà, comprensione, rispetto, perché nemmeno l’odio pregresso può giustificare quello razziale.

La narrazione seguita da prospettive diverse (i bambini, i ragazzi, gli adulti) e la lente d’ingrandimento sui singoli rapporti umani generano nello spettatore una straordinaria empatia, una profonda condivisione dei sentimenti vissuti dai protagonisti. Il tono del film cambia all’improvviso da commedia a dramma, una sensazione spiazzante che rispecchia con accuratezza la triste realtà dei fatti: di fronte alla disumanità delle persecuzioni razziali, preoccupazioni e decisioni della vita di ogni giorno perdono di significato in un attimo.

Non può mancare il fiero e irriducibile antifascismo di Scola, affidato con un geniale tocco di classe ai personaggi secondari: il professor Angelo Melchiorri (Gérard Depardieu), fratello di Umberto, l’orologiaio, la moglie e il cognato di Umberto, la commessa della boutique (Sabrina Impacciatore), l’ispettore di polizia (Claudio Bigagli). Ognuno di loro rappresenta una diversa sfumatura della stigmatizzazione del fascismo, messo più volte alla berlina con quella sublime punta di comicità amara tipica di uno dei maestri della commedia all’italiana.

Ettore Scola

La scelta degli attori è perfetta, i ruoli estremamente calzanti: Diego Abatantuono torna a indossare i panni dell’altero ma bonario uomo del nord, ruolo in cui si è più volte esaltato sotto la direzione di Gabriele Salvatores e Pupi Avati, mentre la parte del simpatico e ingegnoso trafficone è scritta su misura per Sergio Castellitto; da segnalare una delle prime interpretazioni di rilievo di un giovanissimo Elio Germano.

La fotografia e la scenografia (premiata con il David di Donatello) ricreano in maniera fedele e suggestiva la realtà dell’epoca, tanto che alcune inquadrature sembrano dei dipinti. Alcuni set del film, girato interamente negli studi di Cinecittà, verranno poi riutilizzati l’anno successivo da Martin Scorsese per il suo Gangs of New York (2002).

Daniel Day-Lewis in Gangs of New York

Il cinema e le leggi razziali

L’ambientazione storica nell’Italia del biennio 1938-39 lega indissolubilmente Concorrenza sleale a capolavori del cinema italiano come Una giornata particolare, Il giardino dei Finzi Contini e La vita è bella, fervide e lucide testimonianze cinematografiche di uno dei capitoli più bui e infamanti della storia italiana: la proclamazione delle leggi razziali fasciste poco dopo la visita di Hitler in Italia, in un clima di esaltazione rasente la follia.

Una giornata particolare è un film del 1977 diretto dallo stesso Ettore Scola: il 6 maggio 1938, giorno in cui Adolf Hitler è in visita a Roma, in un casermone popolare della Capitale si intrecciano per qualche ora le vite di Antonietta (Sofia Loren), casalinga ignorante e madre di sei figli sposata con un fervente fascista, e Gabriele (Marcello Mastroianni), intellettuale ex radiocronista dell’EIAR (Ente Italiano per le Audizioni Radiofoniche), omosessuale e destinato al confino.

Dall’incontro di due anime infelici in quella giornata particolare emerge il dramma celato dalla normalità: l’amarezza di una donna esclusa da tutto ciò che la circonda, relegata alla servile routine giornaliera incoraggiata dal sistema; il tormento di un diverso, perseguito per le proprie opinioni e per il proprio orientamento sessuale non conformi con quanto imposto dall’ottusa ideologia fascista.

Sofia Loren e Marcello Mastroianni in Una giornata particolare

Il giardino dei Finzi Contini (1970), diretto da Vittorio De Sica e tratto dall’omonimo romanzo di Giorgio Bassani, è una delle pellicole più significative del XX secolo, premiata con l’Orso d’oro al Festival di Berlino e con l’Oscar per il miglior film straniero. Nella Ferrara del 1938, i Finzi Contini sono una facoltosa famiglia ebrea appartenente all’alta borghesia: il nucleo familiare è composto dal professor Ermanno, sua moglie Olga, i figli Micòl (Dominique Sanda) e Alberto (Helmut Berger) e la nonna Regina.

La promulgazione delle leggi razziali stravolge la vita della comunità ebraica. Quando Giorgio (Lino Capolicchio), ebreo amico di famiglia da sempre innamorato di Micòl, viene espulso dal circolo del tennis, i Finzi Contini consentono a lui e all’amico Giampiero Malnate (Fabio Testi), milanese comunista, di frequentare il campo da tennis all’interno del maestoso giardino della propria villa. Le frustrazioni e le umiliazioni perpetrate dalla crescente discriminazione razziale, cui fa da sfondo il tormentato rapporto tra Giorgio e Micòl, seguono l’inesorabile precipitare degli eventi, fino al tragico epilogo.

Lino Capolicchio e Dominique Sanda ne Il giardino dei Finzi Contini

La vita è bella (1997), diretto e interpretato da Roberto Benigni e vincitore di tre Premi Oscar (miglior film straniero, miglior attore protagonista a Benigni e miglior colonna sonora a Nicola Piovani), è diventato una vera e propria icona del cinema italiano nel mondo. Nel 1939 Guido Orefice (Benigni), ebreo di indole allegra e giocosa, giunge ad Arezzo per lavorare come cameriere nell’hotel in cui suo zio è maître e si innamora, ricambiato, di Dora (Nicoletta Braschi), una maestra elementare. Guido e Dora si sposano e dal loro amore nasce Giosuè.

Nel 1944 l’antisemitismo, cresciuto a dismisura negli anni, è ormai diventato persecuzione: gli ebrei sono trattati come appestati, le loro attività vengono boicottate, la libreria che ha aperto Guido è quasi sempre deserta. In questo contesto, Guido cerca di proteggere il figlio (Giorgio Cantarini) dalla crudeltà che lo circonda, trovando sempre un modo nuovo di scherzarci su (celeberrimo il dialogo tra i due originato dal cartello Vietato l’ingresso agli ebrei e ai cani esposto da un negozio). Poco tempo dopo, l’apice del dramma: Guido e la sua famiglia vengono deportati in un lager, ove Guido cercherà di salvare il figlio dagli orrori dell’Olocausto, facendogli credere che sia tutto parte di un gioco basato su prove durissime in vista di uno straordinario premio finale.

Roberto Benigni, Nicoletta Braschi e Giorgio Cantarini ne La vita è bella

La visione sequenziale delle quattro pellicole rispecchia idealmente il reale ordine cronologico degli eventi: se Una giornata particolare fa da preludio alla surreale tragedia che sta per consumarsi nella quotidianità del miope popolo italiano, Concorrenza sleale e Il giardino dei Finzi Contini descrivono accuratamente l’evoluzione e gli effetti della discriminazione razziale conseguente alla proclamazione delle leggi fasciste, mentre La vita è bella chiude il capitolo raggiungendo il proprio culmine nelle atrocità dei campi di concentramento.

Un particolare e potentissimo filo conduttore unisce i film: il risentimento improvviso e ingiustificato verso il proprio simile, la crudele e grottesca atmosfera di impotenza e vessazione che inizia a pervadere la vita delle persone di diversa razza, religione o orientamento sessuale.

Un contesto reso immortale da un noto componimento spesso erroneamente attribuito a Bertolt Brecht, un sermone del pastore Martin Niemöller contro l’apatia degli intellettuali tedeschi in seguito all’ascesa del nazismo e all’epurazione dei suoi obiettivi gruppo dopo gruppo: Prima vennero…

Prima di tutto vennero a prendere gli zingari, e fui contento, perché rubacchiavano.
Poi vennero a prendere gli ebrei, e stetti zitto, perché mi stavano antipatici.
Poi vennero a prendere gli omosessuali, e fui sollevato, perché mi erano fastidiosi.
Poi vennero a prendere i comunisti, e io non dissi niente, perché non ero comunista.
Un giorno vennero a prendere me, e non c’era rimasto nessuno a protestare.

(Martin Niemöller)

“Nata libera”: quando il cinema iniziò a parlare dei diritti degli animali

A volte un film aiuta ad aprire una finestra su vicende sconosciute, a volte fa scoccare una scintilla in chi non aspettava altro, innescando meccanismi imprevedibili: la magia del cinema è che può accadere anche con un basso budget e poche pretese di celebrità. Nata libera (Born Free), film del 1966 diretto da James Hill e interpretato da Virginia McKenna e Bill Travers, è riuscito a riunire da solo tutto questo in nome di un principio sacro: l’amore per la natura.

Il soggetto di Nata libera è tratto dal romanzo autobiografico Born Free (1960) di Joy Adamson, edito in Italia come Nata libera: la straordinaria avventura della leonessa Elsa e best seller internazionale negli Anni ’60.

Nel 1956, i coniugi Joy e George Adamson vivono in Kenya, a quel tempo colonia britannica: Joy è una pittrice, George lavora come guardacaccia nel Northern Frontier District. Un giorno, George è inviato a sopprimere un leone che ha aggredito e ucciso una donna nei pressi di un villaggio. Dopo aver eliminato il leone, il guardacaccia è costretto a uccidere anche una leonessa che l’aveva improvvisamente assalito nell’estremo tentativo di difendere i propri cuccioli: quando George si accorge dei tre leoncini, nati solo da poche settimane, decide di adottarli e di allevarli insieme alla moglie.

Virginia McKenna e Bill Travers in Nata libera

Joy si affeziona particolarmente a Elsa, la più piccola della cucciolata. I piccoli crescono rapidamente e diventano presto ingestibili, tanto che i primi due (Lustica e Big One) vengono inviati allo zoo di Rotterdam: Joy, però, non vuole separarsi da Elsa e, d’accordo con George, decide di tenerla come un animale domestico. Col sopraggiungere dell’età adulta, per la leonessa iniziano i problemi: prima rischia di essere uccisa per sbaglio da un cacciatore durante un safari, poi provoca la fuga disordinata di un branco di elefanti che distrugge alcune coltivazioni suscitando l’ira dei locali.

Una scena di Nata libera

Il superiore di George impone ai coniugi di inviare Elsa presso uno zoo, ma Joy si oppone con forza, sostenendo che la leonessa debba vivere libera, essendo nata libera: nonostante Elsa sia ormai addomesticata e non più in grado di vivere nella natura selvaggia, Joy decide caparbiamente di tentare in pochi mesi un graduale reinserimento del felino nel suo habitat naturale.

«È nata libera e ha il diritto di vivere libera.»

(Joy Adamson)
Una scena di Nata libera

La sceneggiatura del film è opera di Lester Cole, scrittore statunitense inserito nella lista nera di Hollywood durante il maccartismo, la caccia alle streghe lanciata nei primi Anni ’50 dal senatore Joseph McCarthy contro persone sospettate di essere filocomuniste e sovversive. Accuse infondate e attacchi personali coinvolsero molte personalità di spicco della politica, della cultura e del mondo dello spettacolo. Cole e altri nove colleghi (i cosiddetti Hollywood Ten) si rifiutarono di testimoniare davanti alla Commissione per le attività antiamericane e furono pertanto ostracizzati dall’industria cinematografica.

Solo tre delle sue sceneggiature sono divenute film, ognuna firmata con un diverso pseudonimo: Nata libera è accreditato a Gerald L. C. Copley. Come in molti dei film sceneggiati dal più celebre collega Dalton Trumbo (Vacanze romane, Spartacus e Papillon, solo per citarne alcuni), nel soggetto su cui ha lavorato Cole alberga un ardente desiderio di libertà: quella stessa libertà che era stata loro ingiustamente preclusa.

Lester Cole (a destra) con il collega Ring Lardner Jr.

Nata libera conquistò i premi Oscar per la miglior colonna sonora (John Barry) e per la miglior canzone (Born Free, di John Barry e Don Black, cantata da Matt Monro). Quasi vent’anni dopo, il maestro John Barry avrebbe vinto la sua quarta statuetta per la struggente colonna sonora di un altro film legato all’Africa e al Kenya, ben più celebre del precedente: La mia Africa (Out of Africa, 1985), di Sydney Pollack, ispirato all’omonimo romanzo autobiografico di Karen Blixen e interpretato da Meryl Streep e Robert Redford, vincitore di 7 premi Oscar (miglior film, miglior regia, miglior sceneggiatura non originale, miglior fotografia, miglior scenografia, miglior sonoro e, appunto, miglior colonna sonora).

Meryl Streep (Karen Blixen) e Robert Redford (Denys Finch-Hatton) ne La mia Africa

Gli attori Bill Travers e Virginia McKenna, protagonisti del film Nata libera e coniugi anche nella vita, divennero intimi amici dei veri George e Joy Adamson. La realizzazione del film cambiò per sempre la vita dei due attori, che divennero attivisti per i diritti degli animali e continuarono nei decenni successivi a battersi per la protezione degli animali selvatici africani e per la salvaguardia del loro habitat naturale.

Bill Travers e Virginia McKenna in una scena di Nata libera

Travers e McKenna recitarono in un’altra pellicola per famiglie a sfondo animalista, An Elephant Called Slowly (1969), basato stavolta sulle reali avventure della coppia con tre giovani elefanti africani, in Kenya. Nel film compaiono il vero George Adamson e l’elefantina Pole Pole (Piano piano in swahili), donata allo zoo di Londra alla fine delle riprese. Quando nel 1982 la coppia andò a trovare l’elefantessa e vide in che condizioni viveva, iniziò una campagna per spostarla in un luogo più adatto, ma durante il trasferimento Pole Pole morì: la disgrazia spinse i coniugi a fondare nel 1984 l’organizzazione Zoo Check. Nello stesso anno, McKenna fu coinvolta nella protesta contro le cattive condizioni dello zoo di Southampton, che fu chiuso un anno dopo.

Nel 1991, la Zoo Check divenne la Born Free Foundation, un ente di beneficenza internazionale per la salvaguardia della fauna selvatica il cui attuale presidente esecutivo è Will Travers, figlio maggiore della coppia. Per i meriti artistici e l’impegno profuso nella salvaguardia degli animali e della natura, nel 2004 Virginia McKenna è stata nominata Ufficiale dell’Ordine dell’Impero Britannico.

Bill Travers e Virginia McKenna visitano l’elefantessa Pole Pole allo zoo di Londra (1982)

«Non torno a Londra se non ho abbattuto un elefante!»

Nata libera rappresenta una delle prime opere cinematografiche che affrontano il tema della salvaguardia della natura e, in uno stile ancora grezzo ma genuino, si rivolge a un pubblico di tutte le età.

Sono gli anni in cui viene fondato il WWF (1961), ancora oggi la più grande organizzazione internazionale non governativa per la protezione ambientale, e in cui si registrano decisivi passi in avanti nell’etologia, grazie alla diffusione degli studi di Konrad Lorenz sul comportamento animale: tutto ciò produce finalmente interesse e sensibilizzazione a livello globale, soprattutto riguardo a preservazione della biodiversità, sostenibilità nell’utilizzo delle risorse naturali e riduzione dell’inquinamento.

Jane Goodall

Nel 1960, in Tanzania, l’etologa inglese Jane Goodall inizia le sue ricerche sulla vita sociale e familiare degli scimpanzé. Tempo dopo, in Ruanda, la zoologa statunitense Dian Fossey avrebbe seguito il suo esempio dedicandosi all’osservazione e allo studio dei gorilla: la sua vita è immortalata in Gorilla nella nebbia (Gorillas in the Mist, 1988) di Michael Apted, in cui la Fossey è interpretata da una straordinaria Sigourney Weaver.

Dian Fossey

Nata libera è allo stesso tempo una testimonianza intatta di quanto l’essere umano stesse iniziando solo allora a sviluppare una reale consapevolezza riguardo a determinati concetti etici: un leone considerato pericoloso per una comunità che viene abbattuto senza remore, un turista che durante un safari afferma che “non tornerà a Londra se non avrà abbattuto un elefante”.

A conferma di ciò, solo pochi anni prima era stato prodotto Hatari!, avventuroso film del grande Howard Hawks interpretato tra gli altri da John Wayne, Elsa Martinelli, Hardy Krüger e Bruce Cabot: i protagonisti sono una squadra di cacciatori professionisti che, in Tanzania, si occupa della cattura di animali esotici della savana, destinati alla vendita all’estero presso zoo e riserve naturali.

Elsa Martinelli in una scena di Hatari!

Il film, ritenuto da molti un capolavoro, è conosciuto anche per la celebre scena del bagno degli elefantini sulle note di Baby Elephant Walk, uno dei motivi composti da Henry Mancini per la colonna sonora.

«Era la storia di un gruppo di persone che catturavano animali, e non avevo intenzione di metterci altro.»

(Howard Hawks)

Molto popolare soprattutto tra i più piccoli, grazie alla presenza di molti animali esotici, la pellicola aveva avuto un ottimo riscontro dalla critica internazionale, affascinata dal suo carattere utopico e dall’armonia tra le sensazionali scene di cattura degli animali e le sequenze ambientate al campo, in cui le vicende personali dei protagonisti vengono narrate con garbo e ironia. Il film ha un tono quasi fiabesco: un mondo fuori dal tempo in cui i protagonisti vivono in armonia e complicità con tanti animali selvaggi.

John Wayne in Hatari!

Secondo Todd McCarthy, biografo di Howard Hawks, Hatari! è addirittura il più geniale film del mondo: inizia come film d’avventura, si trasforma in film d’amore, termina come film per bambini.

Visto oggi, Hatari! non può non risultare eticamente ambiguo. Nelle riprese di caccia furono utilizzati sempre animali vivi, liberi e selvaggi: inseguirli e catturarli, anche per poi liberarli, sarebbe oggi assolutamente vietato e severamente punito, per lo stress causato e le possibili conseguenze sulla salute degli animali, in particolare per le specie protette o in via di estinzione.

John Wayne in Hatari!

Tale leggerezza su una questione così delicata non può tuttavia sorprendere: il safari a scopo venatorio, infatti, è attualmente consentito in quasi tutti i Paesi sub-sahariani tranne che in Kenya, nel cui territorio la caccia è vietata fin dal 1977. In molte riserve di caccia statali e terreni privati è ancora legale abbattere animali protetti come leoni, elefanti e rinoceronti previo pagamento, nella maggior parte dei casi appannaggio di personaggi facoltosi senza scrupoli.

Eppure, oggi sappiamo che perfino un affascinante safari fotografico in riserve e parchi nazionali, all’apparenza innocuo, può avere un impatto negativo sull’ambiente: la presenza di turisti può infatti disturbare le attività da cui dipende la sopravvivenza degli animali (l’efficienza di caccia dei leoni nelle aree più frequentate da turisti è molto inferiore, spesso appena sufficiente al sostentamento; ancora maggiore è il danno ai predatori prevalentemente diurni come il ghepardo). L’unico contributo positivo del turismo all’ambiente è di tipo indiretto: spesso i governi locali hanno difficoltà a sorvegliare territori così vasti e la presenza di turisti può aiutare a controllare e, in certi casi, a scoraggiare il bracconaggio.

La cattura di una giraffa in una scena di Hatari!

Elsa, George e Joy Adamson

Il successo del romanzo Born Free convinse Joy Adamson a pubblicare due sequel: Living Free (1961) e Forever Free (1963). Prima dell’uscita del film Nata libera, il naturalista Sir David Attenborough aveva già realizzato per la BBC un documentario sulla leonessa Elsa: Elsa the Lioness (1961). La storia di Elsa e degli Adamson ha ispirato numerosi altri documentari, un sequel (Living Free, 1972), una serie televisiva (Nata libera, 1974), un film TV (Born Free: A New Adventure, 1996) e il film To Walk with Lions di Carl Schultz (1999) con Richard Harris, Honor Blackman, Ian Bannen e Geraldine Chaplin, sugli ultimi anni di vita di George Adamson.

La leonessa Elsa con Joy Adamson

Elsa fu la prima leonessa a essere rimessa con successo in libertà, la prima a stabilire un contatto e ad avere una cucciolata dopo essere stata messa in libertà. Morì nel 1961 di babesiosi, una malattia infettiva provocata dal morso di zecca. I suoi cuccioli divennero presto una minaccia per il bestiame dei locali e, per la loro sicurezza, furono trasferiti dagli Adamson nel Parco nazionale del Serengeti, in Tanzania.

Nello stesso anno, George Adamson andò in pensione come guardacaccia per potersi dedicare completamente all’attività di naturalista e agli studi sui leoni: Baba ya Simba (Il padre dei leoni in swahili) fece da capo consulente tecnico per il film Nata libera ed è oggi considerato uno dei padri fondatori della conservazione della fauna selvatica.

George Adamson

«Chi si prenderà cura degli animali, per quelli che non sono autosufficienti?
Ci sono giovani uomini e giovani donne disposti ad assumere questo incarico?
Chi farà sentire la sua voce, quando la mia sarà stata portata via dal vento, chi aiuterà la causa?»

(George Adamson)

In seguito, i diversi interessi portarono George e Joy a separarsi, pur rimanendo in buoni rapporti: George continuò a occuparsi dei leoni, mentre Joy decise di dedicarsi ai ghepardi. Joy passò gli anni successivi a raccogliere fondi per la fauna selvatica, grazie anche al successo del libro e del film, e riuscì a rimettere in libertà un ghepardo e un leopardo.

Joy Adamson

Il leone Christian

Nel 1969, John Rendall e Anthony Bourke, due amici australiani che lavoravano in un negozio di mobili a Londra, acquistarono un cucciolo di leone maschio, Christian, nel reparto animali esotici del grande magazzino londinese Harrods, preoccupati per le sue condizioni e per il suo destino: il cucciolo era stato separato dai suoi genitori a causa della vendita dello zoo di Ilfracombe, in Inghilterra, in cui vivevano. Christian venne allevato nel seminterrato del negozio e il vicario locale permise ai due ragazzi di lasciarlo libero per qualche ora al giorno sul prato del cimitero adiacente. Destino volle che l’anno dopo, quando il cucciolo aveva ormai raggiunto una grande stazza, gli attori Bill Travers e Virginia McKenna si recassero proprio in quel negozio per acquistare una scrivania. McKenna raccontò loro la storia della leonessa Elsa e li mise in contatto con George Adamson, per tentare anche con Christian una reintroduzione alla vita selvaggia in Africa.

Virginia McKenna e Bill Travers con John Rendall, Anthony Bourke e il leone Christian

I due ragazzi accettarono la proposta e nel corso dell’anno organizzarono la spedizione in Kenya per Christian, avvertiti comunque da Adamson che la sua reintroduzione sarebbe stata molto più difficile di quella di Elsa e che probabilmente l’esperimento sarebbe fallito: Elsa, infatti, era nata in Kenya e quindi era sempre vissuta nel suo habitat naturale, anche se domestico, mentre Christian aveva vissuto sempre in città, i suoi stessi genitori erano nati in cattività e non era quindi abituato neanche al clima africano.

John Rendall, Anthony Bourke e il leone Christian

Adamson volle tentare la reintegrazione del leone in una colonia già esistente. Data la difficoltà di integrare un maschio in una comunità con un capobranco già attribuito, decise di aiutarsi con un altro leone maschio addomesticato di nome Boy, che aveva preso parte al film Nata libera. Adamson intendeva stabilire un legame tra i due che li rendesse i leader di un nuovo nucleo. Nonostante gli iniziali screzi, l’esperimento riuscì perfettamente e i due leoni divennero inseparabili. Il secondo passo fu l’affiancamento di una femmina, di nome Katania, per provare a estendere la nuova colonia.

Da questo momento, iniziò una serie di tragedie che misero a serio rischio la riuscita del progetto: Katania venne attaccata da un coccodrillo in prossimità di una pozza d’acqua e un’altra femmina venne uccisa da un altro branco di leoni. Stanley, uno chef della riserva allontanatosi dal campo alla ricerca di miele selvatico senza misure di sicurezza, fu attaccato da Boy, che si trovava libero nelle vicinanze: Adamson, accorso in aiuto, fu costretto a sparare all’amato leone, uccidendolo, ma non fece in tempo a salvare l’uomo, che morì per le ferite riportate.

Il clamore della tragedia sembrò segnare la fine del progetto, ma Adamson non si scoraggiò e, grazie all’aiuto di altri naturalisti riuscì finalmente a raggiungere lo scopo: Christian aveva preso possesso di una colonia di cui era divenuto il leader, aveva avuto dei cuccioli con due femmine e, dopo la sua reintegrazione nella natura, si avvicinava raramente al campo e agli uomini.

Appresa la notizia, Rendall e Bourke decisero di intraprendere un ultimo viaggio in Kenya per poter osservare di persona la reintegrazione del leone e per tentare di salutarlo un’ultima volta. Adamson li avvertì che il loro viaggio sarebbe stato probabilmente inutile, poiché Christian non si faceva vedere da almeno nove mesi, ma i due decisero ugualmente di partire.

Arrivati alla riserva, Adamson andò loro incontro con una novità: la notte prima, Christian era tornato nelle vicinanze del campo con le sue compagne e i suoi cuccioli.

«Christian è arrivato ieri sera.
È qui con le sue leonesse e i loro cuccioli.
È appostato sulla sua roccia preferita al di fuori del campo.
Vi sta aspettando.»

(George Adamson)

George e Joy Adamson avevano spesso parlato nei loro scritti di una sorta di sesto senso dei leoni, soprattutto nei confronti degli esseri umani, definendo ciò come una sorta di capacità telepatica.

Rendall e Bourke furono avvertiti del fatto che il leone avrebbe potuto non riconoscerli e, conseguentemente, attaccarli: i due, però, non si persero d’animo e vollero comunque incontrarlo. Ciò che avvenne fu talmente incredibile da stupire perfino Adamson: a distanza di tanto tempo, Christian non solo riconobbe immediatamente i due ragazzi, ma gli corse incontro come se non si fosse mai allontanato da loro buttandogli le zampe intorno al collo in una sorta di abbraccio. Il commovente filmato dell’incontro, condiviso su internet trent’anni dopo, è diventato virale.

La storia di Christian è stata raccontata in un libro (scritto da Rendall e Bourke) e in un documentario (Christian, The Lion at World’s End), e ha ispirato un libro per bambini (Christian, the Hugging Lion).

Il leone Christian

«L’animale più pericoloso è l’uomo»

Il 3 gennaio 1980, poche settimane prima di compiere 70 anni, Joy Adamson fu trovata morta nella Shaba National Reserve, in Kenya, uccisa da un suo ex dipendente. Nove anni dopo, il 20 agosto 1989, George Adamson fu assassinato nel Parco Nazionale di Kora, in Kenya, nel salvare il suo assistente e un turista europeo da un gruppo di banditi somali: aveva 83 anni.

Sia Joy che George vollero farsi seppellire con i loro adorati leoni, in Kenya: Joy fu sepolta con la leonessa Elsa nel Meru National Park, mentre George coi leoni Boy, Super Cub e Mugie nel Kora National Park.

George Adamson

Nei suoi scritti, George aveva sempre ribadito che l’animale più pericoloso al mondo è l’uomo e che il leone non è solo un predatore, ma un essere vivente capace di sviluppare una varietà di comportamenti.

Le esperienze e gli studi di George e Joy Adamson sono stati fonte di ispirazione per tanti altri naturalisti e hanno dato un contributo essenziale nell’interazione con un mondo fino ad allora quasi sconosciuto e considerato solo selvaggio.

Joy e George Adamson

Premi Oscar 2021

L’atmosfera surreale della 93ª edizione degli Academy Awards in tempi di pandemia sarà impossibile da dimenticare.

Posticipata di due mesi, la notte degli Oscar si è tenuta quasi interamente alla Union Station di Los Angeles e solo in parte al Dolby Theatre (che la ospitava dal 2002), con un ristretto numero di ospiti e molti candidati collegati in diretta dall’estero.

La novità più importante è stata l’inconsueto ordine di consegna delle statuette: per la prima volta, la serata si è conclusa con la premiazione del Miglior attore e non del Miglior film.

Forse l’Academy ha voluto tenere per ultima la sorpresa più grande: Anthony Hopkins ha infatti vinto l’Oscar come Miglior attore protagonista per The Father di Florian Zeller, superando in volata il favoritissimo Chadwick Boseman, candidato per Ma Rainey’s Black Bottom di George C. Wolfe.

The Father: in alto, Anthony Hopkins in una scena del film; in basso, Florian Zeller con l’Oscar per la Miglior sceneggiatura non originale

Un Oscar più che meritato: la performance di Hopkins è straordinaria, mentre quella di Boseman risulta sopra le righe, in un film piuttosto insignificante, e una sua vittoria sarebbe stata facilmente ricondotta alla sua prematura scomparsa. Bravissimi anche Olivia Colman e Rufus Sewell, interpreti rispettivamente della figlia e del genero del protagonista.

Grazie alla potenza dei dialoghi, enfatizzata dagli ambienti chiusi, The Father è stato premiato anche per la Miglior sceneggiatura non originale: una statuetta molto particolare per lo scrittore Florian Zeller, al suo esordio alla regia, autore sia della pièce teatrale che del suo adattamento cinematografico.

The Father tratta con vigore e partecipazione un argomento estremamente delicato, in grado di scuotere l’intima sensibilità di chiunque, portando lo spettatore a immedesimarsi nella confusione di una persona affetta da demenza senile mediante pregevoli espedienti scenici.

Una donna promettente: in alto, Carey Mulligan in una scena del film; in basso, Emerald Fennell con l’Oscar per la Miglior sceneggiatura originale

Il premio per la Miglior sceneggiatura originale è andato a Emerald Fennell per Una donna promettente (Promising Young Woman), da lei scritto e diretto: una scelta coraggiosa motivata anche dall’uso di un linguaggio crudo ed esplicito.

Il film è angosciante, feroce: un macabro thriller nella provocatoria confezione di una commedia con ricorrenti tratti tipici dell’horror. Climax talmente potenti ed efficaci da non rendere quasi mai necessario un colpo di scena: quasi, perché una tale implosione non può che divampare con tutta la sua furia nel caustico finale.

Eccezionale la protagonista Carey Mulligan, che avrebbe probabilmente meritato l’Oscar, senza nulla togliere alla sempre strepitosa Frances McDormand.

Nomadland: in alto, Frances McDormand in una scena del film; in basso, Chloé Zhao con gli Oscar per il Miglior film e la Miglior regia

La statuetta come Miglior attrice protagonista alla McDormand è stata senza dubbio la meno attesa delle tre conquistate da Nomadland, annunciato vincitore degli Oscar per il Miglior film e la Miglior regia: la regista Chloé Zhao è diventata la prima donna asiatica a vincere il prestigioso premio.

Il viaggio e l’isolamento esprimono necessità esistenziali, barlumi di sopravvivenza più che scelte di vita. Il film è un’opera struggente, profondamente umana, ma manca quella scintilla che l’avrebbe liberato dalla gravità del tono semi-documentaristico.

Dall’estrema solitudine di Nomadland alla vita di una famiglia, Minari, di Lee Isaac Chung: due opposti che rientrano nella stessa categoria emotiva, due film drammatici con un messaggio di speranza non scontato, rivolto a chi trova la forza di coglierlo.

Minari: in alto, Steven Yeun e Alan Kim in una scena del film; in basso, Yoon Yeo-jeong con l’Oscar per la Miglior attrice non protagonista

Minari è una storia commovente, notevole lo spunto e bravi gli interpreti, in particolare le donne: Han Ye-ri, nella parte di Monica, avrebbe meritato almeno una nomination come Miglior attrice protagonista, mentre Yoon Yeo-jeong è riuscita ad aggiudicarsi la statuetta come Miglior attrice non protagonista nella parte di sua madre Soon-ja, prima sudcoreana a essere premiata con un Oscar per una prova attoriale.

Verso la fine, però, si avverte qualcosa che interferisce con l’armonia del film: una forzata ricerca del dramma, unita a un’innaturale necessità di far passare il messaggio più corretto.

Sound of Metal: in alto, Riz Ahmed in una scena del film; in basso, Nicolas Becker, Jaime Baksht, Michelle Couttolenc, Carlos Cortés e Philip Bladh con l’Oscar per il Miglior sonoro

Doveroso l’Oscar per il Miglior sonoro a Sound of Metal di Darius Marder, una delle pellicole più originali e significative di questa edizione, vincitrice anche del premio per il Miglior montaggio (Mikkel E. G. Nielsen). Una storia intensa ed emozionante, in cui silenzio e rumore diventano protagonisti assoluti.

Notevoli Olivia Cooke (nel ruolo di Lou) e Paul Raci (candidato all’Oscar come Miglior attore non protagonista per l’interpretazione di Joe), perfetto Riz Ahmed nei panni del protagonista (il batterista Ruben): una splendida performance forse penalizzata agli Oscar dall’innovativa e disorientante struttura del film.

Judas and the Black Messiah: in alto, Daniel Kaluuya in una scena del film; in basso, H.E.R. con l’Oscar per la Miglior canzone originale

Nessuna sorpresa per l’Oscar come Miglior attore non protagonista, conquistato dall’annunciatissimo Daniel Kaluuya per Judas and the Black Messiah di Shaka King, premiato anche per la Miglior canzone originale (Fight For You di H.E.R.).

Judas and the Black Messiah è un film imponente e coraggioso che fa luce su una scomoda vicenda storica, stigmatizzando le efferatezze di cui possono macchiarsi le istituzioni e delineando con perizia i profili di un carismatico leader (Fred Hampton/Daniel Kaluuya) e di un tormentato infiltrato (William O’Neal/Lakeith Stanfield).

Lakeith Stanfield avrebbe meritato l’Oscar come Miglior attore non protagonista, ma la scelta di candidare Daniel Kaluuya nella stessa categoria ha di fatto spianato la strada all’attore britannico.

Mank: in alto, Gary Oldman in una scena del film; in basso, Erik Messerschmidt con l’Oscar per la Miglior fotografia

Delusione annunciata per Mank di David Fincher, vincitore di due soli Oscar a fronte delle dieci candidature: Miglior fotografia allo splendido bianco e nero di Erik Messerschmidt, che ha battuto a sorpresa il favorito Nomadland, e Miglior scenografia a Donald Graham Burt e Jan Pascale per l’ineccepibile ricostruzione scenica di un capitolo fondamentale nella storia del Cinema.

Nonostante un grande Gary Oldman, la staticità dell’azione e la bassa risonanza della vicenda appesantiscono inevitabilmente il film, raggiungendo un pubblico forse troppo di nicchia.

Un altro giro: in alto, Mads Mikkelsen in una scena del film; in basso, Thomas Vinterberg con l’Oscar per il Miglior film internazionale

Un altro giro (Druk) di Thomas Vinterberg, candidato anche per la Miglior regia, è stato premiato con l’Oscar per il Miglior film internazionale.

La pellicola danese, incentrata sui possibili benefici dell’alcol nella vita di una persona, è un pugno nello stomaco al perbenismo condiscendente: un messaggio all’apparenza ambiguo e addirittura nocivo ma, in realtà, di grande potenza.

Bravissimi gli attori, su tutti un impagabile Mads Mikkelsen dallo sguardo vacuo e impenetrabile.

Soul: in alto, una scena del film; in basso, Trent Reznor, Atticus Ross e Jon Batiste con l’Oscar per la Miglior colonna sonora

La Disney-Pixar sbanca di nuovo gli Oscar con Soul di Pete Docter, che si aggiudica le statuette per il Miglior film d’animazione e la Miglior colonna sonora.

Una bella storia con un’idea di base vivace e un finale emozionante, che forse poteva essere curata di più nei dettagli, rendendo davvero protagonista la musica jazz e sviluppando meglio alcune trovate (una su tutte, la famosa scintilla): in certi casi, la confezione vale più del contenuto.

Il mio amico in fondo al mare: in alto, una scena del film; in basso, Pippa Ehrlich e James Reed con l’Oscar per il Miglior documentario

Meritano di essere menzionati anche il coinvolgente documentario Il mio amico in fondo al mare (My Octopus Teacher) di Pippa Ehrlich e James Reed, vincitore dell’Oscar nella sua categoria, e Il Processo ai Chicago 7 (The Trial of the Chicago 7) di Aaron Sorkin, vibrante spaccato di un’epoca che avrebbe meritato almeno una statuetta sulle sei candidature ricevute.