Il grande coltello (Robert Aldrich, 1955)

Il grande coltello (The Big Knife) è un film del 1955 prodotto e diretto da Robert Aldrich e interpretato da Jack Palance, Ida Lupino, Rod Steiger, Shelley Winters, Wendell Corey e Jean Hagen.

Charlie Castle (Palance) è una star di Hollywood all’apice del successo, ma nell’agiatezza della sua lussuosa villa di Bel Air è un’anima tormentata.

Sua moglie Marion (Lupino), stanca dei suoi vizi e della sua vita senza scopo, è andata via di casa con il loro bambino e medita il divorzio: Marion accusa Charlie di essersi venduto allo star system hollywoodiano e di aver rinunciato alle sue idealità in cambio di facili compensi, accettando ruoli scadenti ma di successo.

Il mezzo idealismo, Charlie, è la peritonite dell’anima.
Sono parole che hanno senso tra i vivi…

(Il grande coltello)

La vita di Charlie è a un bivio: il potente e spregevole boss degli Studios, Stanley Hoff (Steiger), gli impone un rinnovo di contratto di sette anni.

Charlie vorrebbe liberarsi da quell’opprimente giogo, ma ha le mani legate: Hoff e il suo scagnozzo Smiley Coy (Corey) sono a conoscenza dei retroscena di un drammatico episodio del suo passato, e sono disposti a ricattarlo pur di ottenere quanto vogliono. Marion, dal canto suo, non accetterà una riconciliazione se Charlie firmerà il contratto.

Charlie è con le spalle al muro: troverà la forza di affrontare Hoff per riscattare se stesso e riconquistare la propria famiglia?

Charlie e Marion

Un film in cui l’azione avanza non per il gioco dei sentimenti, né per quello delle azioni, ma per definizione morale dei personaggi.

(François Truffaut)

Secondo il critico cinematografico Jeff Stafford, “l’uso dei long take da parte del direttore della fotografia Ernest Laszlo accresce notevolmente la tensione claustrofobica del film e la mescolanza di nomi fittizi con quelli reali (Billy Wilder, Elia Kazan, William Wyler) durante i dialoghi conferisce a Il grande coltello un tono realistico, quasi documentaristico.

La potenza de Il grande coltello è evocata fin dai titoli di testa: l’angosciante immagine del protagonista con le mani tra i capelli per la disperazione, che si riduce poi in frantumi, proviene dal genio di uno dei più grandi illustratori nella storia del cinema, Saul Bass.

Un fotogramma dei titoli di testa

A quel tempo i titoli di testa passavano spesso inosservati: Bass fu il primo a individuarne le potenzialità creative e a utilizzarli per introdurre le atmosfere del film, come epilogo per spiegarne il senso, come prologo o per raccontare eventi precedenti alla narrazione. Egli riteneva che il pubblico dovesse essere coinvolto fin dal primo frame.

Tra le sue opere più celebri, i titoli di testa de L’uomo dal braccio d’oro e Anatomia di un omicidio di Otto Preminger, Il giro del mondo in 80 giorni di Michael Anderson, La donna che visse due volte, Intrigo internazionale e Psyco di Alfred Hitchcock, Spartacus di Stanley Kubrick, Alien di Ridley Scott, Quei bravi ragazzi di Martin Scorsese.

Saul Bass

Il grande coltello è tratto dall’omonimo dramma (The Big Knife, 1949) di Clifford Odets: la singola ambientazione (la villa di Charlie Castle), i toni e le gestualità della recitazione ne evidenziano fortemente la derivazione teatrale.

Drammaturgo, sceneggiatore, regista e attore teatrale, Clifford Odets è annoverato tra gli astri della letteratura statunitense del ‘900: le sue opere hanno ispirato autori come Arthur Miller (Death of a Salesman), Paddy Chayefsky (Network), Neil Simon (The Odd Couple) e David Mamet (Glengarry Glen Ross).

Clifford Odets

Considerato l’erede del premio Nobel per la letteratura Eugene O’Neill, Odets fece parte del Group Theatre, la compagnia teatrale diretta da Lee Strasberg celebre per aver introdotto negli Stati Uniti il Metodo Stanislavskij (basato sull’immedesimazione dell’attore nel personaggio da interpretare) e ritenuta una delle più influenti nella storia del teatro americano.

Non c’è nulla di più torturato sulla faccia della Terra, e non esisterà mai, di un uomo che ha venduto i suoi sogni ma non può dimenticarli.

(Il grande coltello)

Il grande coltello è un’allegoria sui devastanti effetti della fama e del denaro sulla personalità di un artista e una durissima critica al patinato mondo di Hollywood scagliata da chi vi ha vissuto gran parte della propria vita: Odets, infatti, ricevette i maggiori compensi scrivendo sceneggiature di film come Il generale morì all’alba, Il ribelle e Piombo rovente; per La ragazza di campagna, adattamento cinematografico di un suo soggetto, Grace Kelly vinse il suo unico Oscar come miglior attrice protagonista.

Sono ingenuo, eh?
Sì, ma è la tua qualità migliore.

(Il grande coltello)

In un film di dichiarato stampo teatrale in cui i personaggi sono molto più importanti della trama (forte è l’influenza di Anton Chekhov sull’autore) a esaltarsi è l’abilità degli attori.

Colpisce in particolare la mirabile interpretazione di Jack Palance nel ruolo del sofferente Charlie Castle: un belloccio che può avere tutto ciò che desidera, ma che ha rinunciato a tutto ciò che amava e che in fondo continua ad amare; un idealista, intellettuale, amante dell’arte e della musica, stritolato da una prigione d’oro che lo ha condotto ai più miseri compromessi, alle più subdole frequentazioni, a sguazzare nel marciume celato dietro l’abbagliante universo dell’industria cinematografica.

Jack Palance e Ida Lupino in una scena del film

La sua performance è resa ancora più straordinaria dall’insolito ruolo da protagonista: Volodymyr Palahniuk, in arte Jack Palance, è infatti ricordato soprattutto per i molti ruoli da cattivo, cui era stato relegato fin dagli inizi della carriera per i suoi lineamenti spigolosi. Nato in Pennsylvania da una famiglia di origine ucraina, dopo aver tentato la carriera da pugile professionista recitò in circa 130 pellicole tra cinema e televisione.

Nel 1992, conquistò il premio Oscar come miglior attore non protagonista per il film Scappo dalla città – La vita, l’amore e le vacche, a più di quarant’anni dal proprio debutto cinematografico: nel ritirare la statuetta, ricevette una standing ovation dal pubblico in sala praticando delle flessioni con un braccio solo alla tenera età di 73 anni.

Jack Palance ne Il grande coltello

A regalare un’altra indimenticabile interpretazione è l’ossigenato Rod Steiger nei panni dell’antagonista principale, il produttore Stanley Hoff: mefistofelico, spietato, patriota fanatico al punto da chiedere al protagonista di firmare il contratto con la penna del generale Douglas MacArthur, comandante dell’esercito statunitense durante la Seconda Guerra Mondiale.

Rod Steiger ne Il grande coltello

Il personaggio si ispira ad alcuni dei più potenti produttori cinematografici hollywoodiani, ancora in auge nel periodo in cui fu realizzato il film. I suoi finti pianti provengono da Louis B. Mayer, dispotico boss della Metro Goldwyn Mayer (esperto nel piangere a comando, secondo le fonti dell’epoca), ma la sua figura è modellata soprattutto sulle fattezze del feroce tycoon della Columbia Pictures, Harry Cohn: il produttore si accorse subito della voluta somiglianza e tentò senza successo di agire per vie legali contro il regista Robert Aldrich, minacciando di rovinargli la carriera.

Harry Cohn

Cohn era noto per i suoi modi autocratici e intimidatori. Quando divenne presidente della Columbia Pictures rimase anche a capo della produzione, acquisendo così un potere incontrastabile. Si diceva che avesse dispositivi di ascolto ovunque e che potesse sintonizzarsi su qualsiasi conversazione, per poi intervenire facendo risuonare la propria voce attraverso un altoparlante in caso non gradisse qualcosa.

Moe Howard, del trio comico The Three Stooges (conosciuto in Italia come I tre marmittoni), lo definiva un tipo alla Dr. Jekyll e Mr. Hyde, capace di urlare e imprecare contro attori e registi nel proprio ufficio tutto il pomeriggio e di salutarli poi cordialmente la stessa sera a cena.

Secondo il biografo Michael Fleming, Cohn obbligò un altro membro degli Stooges, Curly Howard, a continuare a lavorare dopo essere stato colpito da una serie di lievi ictus: poco tempo dopo Howard ne subì uno più grave, che lo costrinse al ritiro e lo portò a prematura morte.

Curly Howard

Cohn aveva anche stretti legami con la criminalità organizzata, in particolare amicizie di lunga data con i gangster John Roselli e Abner Zwillman. Questi rapporti vennero brutalmente alla luce per un abietto episodio di razzismo, intimidazione e violenza.

Nel 1957, l’attore, cantante e ballerino di colore Sammy Davis Jr. frequentava la biondissima attrice Kim Novak, in quel momento sotto contratto con la Columbia Pictures di Harry Cohn.

King Cohn (nomignolo che gli era stato affibbiato per l’assonanza col celebre gorilla) temeva che la relazione interraziale potesse danneggiare gli Studios e ingaggiò Roselli e i suoi uomini per spaventare Davis e imporgli di non vedere più la Novak.

Sammy Davis Jr.

I gangster lo rapirono per alcune ore e lo minacciarono di fargli perdere l’altro occhio (aveva un occhio di vetro avendo perso il sinistro tre anni prima in un grave incidente d’auto) e di fratturargli le gambe se non avesse sposato una donna di colore entro due giorni: Davis sposò la ballerina di colore Loray White nel 1958 e pagò per contrarre il matrimonio a condizione che si potesse sciogliere entro la fine dell’anno, divorziando poi ufficialmente nell’aprile 1959.

Cohn chiedeva rapporti sessuali alle attrici in cambio dei contratti. Due star come Rita Hayworth e Joan Crawford si rifiutarono platealmente, ma Cohn dovette mantenerle sotto contratto in quanto troppo preziose per la casa di produzione. Secondo lo scrittore Joseph McBride, l’attrice Jean Arthur lasciò il mondo del cinema a causa delle avances di Cohn.

Rita Hayworth e Harry Cohn

Oltre allo Stanley Hoff de Il grande coltello, i tratti caratteristici di Harry Cohn hanno ispirato personaggi di diversi film: il Willie Stark di Tutti gli uomini del re e l’Harry Brock di Nata ieri, entrambi interpretati da Broderick Crawford, e soprattutto il viscido produttore Jack Woltz ne Il padrino, interpretato da John Marley ed entrato nell’immaginario collettivo per la celeberrima scena della testa di cavallo mozzata.

Uno dei personaggi secondari che restano maggiormente impressi ne Il grande coltello è la Connie Bliss interpretata da Jean Hagen, moglie del migliore amico di Charlie Castle, Buddy Bliss: seducente, maliziosa, spregiudicata e soprattutto completamente diversa dalla smorfiosa e capricciosa diva del muto Lina Lamont di Cantando sotto la pioggia, ruolo per cui è più nota l’attrice.

Jean Hagen ne Il grande coltello

Non c’è dubbio che la rivelazione di Robert Aldrich sarà l’evento cinematografico del 1955, all’inizio dell’anno non conoscevamo nemmeno il suo nome.

(François Truffaut)

Il cuore pulsante de Il grande coltello è un regista anticonformista e indipendente: Robert Aldrich. Aldrich amava affrontare temi politici e sociali scomodi, sfidando lo strapotere delle grandi case di produzione cinematografica e scagliando espliciti atti d’accusa verso lo stile di vita americano. I suoi personaggi non sono mai eroi tutti d’un pezzo, ma perdenti, cinici e violenti; nei suoi film dominano avidità e sete di potere.

Fu grazie a lui che il pubblico americano degli Anni ’50 e ’60, tradizionalmente abituato a buoni sentimenti e ideali patriottici, venne di colpo riportato alla realtà da immagini e linguaggi del tutto nuovi per il cinema: non sorprende, quindi, che Aldrich sia considerato un punto di riferimento da intere generazioni di registi.

Robert Aldrich

Cresciuto in una famiglia di politici e banchieri imparentata con i Rockfeller, Aldrich approdò a Hollywood come addetto alla produzione per la RKO, diventando quindi assistente di registi del calibro di Charlie Chaplin, Jean Renoir, Joseph Losey, William A. Wellman, Jules Dassin, Edward Dmytryk e Lewis Milestone.

Per nove anni imparò il mestiere da maestri assoluti, acquisendo i fondamenti pratici ed estetici del cinema, dei quali riportò egli stesso alcuni esempi in varie interviste: le ambientazioni e le atmosfere da Jean Renoir, le tecniche per pianificare in anticipo una ripresa da Lewis Milestone, le scene d’azione da William A. Wellman, l’importanza della comunicazione con gli attori da Joseph Losey, l’empatia visiva tra telecamera e pubblico da Charlie Chaplin.

Molti di questi straordinari cineasti erano anche tra i primi sospettati di attività filocomuniste e sovversive durante la caccia alle streghe messa in atto dal senatore Joseph McCarthy, il cosiddetto maccartismo: sotto la loro influenza, Aldrich rifiutò le convenzioni morali e commerciali dell’epoca per intraprendere un percorso personale fuori dal coro.

Robert Aldrich riconoscibile subito dietro Charlie Chaplin sul set di Luci della ribalta

Aldrich iniziò la sua trentennale carriera di regista nel 1954 con due western: L’ultimo Apache, il primo film dichiaratamente dalla parte degli indiani d’America, e Vera Cruz, considerato il vero modello d’ispirazione per il western all’italiana (pare che il grande Sergio Leone lo conoscesse a memoria, al punto da saperlo raccontare inquadratura per inquadratura).

Nel 1955, pochi mesi prima di girare Il grande coltello, Aldrich approdò al noir con Un bacio e una pistola, adattamento di un romanzo di Mickey Spillane con protagonista l’investigatore privato Mike Hammer, definito dal critico Tim Dirks il film noir definitivo, apocalittico e nichilista.

Dopo i celebri Che fine ha fatto Baby Jane? e Piano… piano, dolce Carlotta, Aldrich diresse il memorabile Quella sporca dozzina, una delle sue pellicole di maggior successo e modello per i film d’azione dei decenni successivi, e Quella sporca ultima meta, sferzante denuncia contro il sistema carcerario statunitense.

Robert Aldrich con Lee Marvin e John Cassavetes sul set di Quella sporca dozzina

Oltre a presentare un affresco molto esatto di Hollywood, “Il grande coltello” è il film americano più raffinato e intelligente che abbiamo visto da molti mesi a questa parte.

(François Truffaut)

Con Il grande coltello, Aldrich vinse il Leone d’argento per la miglior regia alla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia e ottenne il plauso della critica europea: i Cahiers du Cinéma inclusero tre dei suoi film (L’ultimo Apache, Vera Cruz e, appunto, Il grande coltello) tra i dieci migliori dell’anno e lo accolsero come protagonista di una nuova rivoluzione autoriale.

Jack Palance e Rod Steiger ne Il grande coltello

“Nata libera”: quando il cinema iniziò a parlare dei diritti degli animali

A volte un film aiuta ad aprire una finestra su vicende sconosciute, a volte fa scoccare una scintilla in chi non aspettava altro, innescando meccanismi imprevedibili: la magia del cinema è che può accadere anche con un basso budget e poche pretese di celebrità. Nata libera (Born Free), film del 1966 diretto da James Hill e interpretato da Virginia McKenna e Bill Travers, è riuscito a riunire da solo tutto questo in nome di un principio sacro: l’amore per la natura.

Il soggetto di Nata libera è tratto dal romanzo autobiografico Born Free (1960) di Joy Adamson, edito in Italia come Nata libera: la straordinaria avventura della leonessa Elsa e best seller internazionale negli Anni ’60.

Nel 1956, i coniugi Joy e George Adamson vivono in Kenya, a quel tempo colonia britannica: Joy è una pittrice, George lavora come guardacaccia nel Northern Frontier District. Un giorno, George è inviato a sopprimere un leone che ha aggredito e ucciso una donna nei pressi di un villaggio. Dopo aver eliminato il leone, il guardacaccia è costretto a uccidere anche una leonessa che l’aveva improvvisamente assalito nell’estremo tentativo di difendere i propri cuccioli: quando George si accorge dei tre leoncini, nati solo da poche settimane, decide di adottarli e di allevarli insieme alla moglie.

Virginia McKenna e Bill Travers in Nata libera

Joy si affeziona particolarmente a Elsa, la più piccola della cucciolata. I piccoli crescono rapidamente e diventano presto ingestibili, tanto che i primi due (Lustica e Big One) vengono inviati allo zoo di Rotterdam: Joy, però, non vuole separarsi da Elsa e, d’accordo con George, decide di tenerla come un animale domestico. Col sopraggiungere dell’età adulta, per la leonessa iniziano i problemi: prima rischia di essere uccisa per sbaglio da un cacciatore durante un safari, poi provoca la fuga disordinata di un branco di elefanti che distrugge alcune coltivazioni suscitando l’ira dei locali.

Una scena di Nata libera

Il superiore di George impone ai coniugi di inviare Elsa presso uno zoo, ma Joy si oppone con forza, sostenendo che la leonessa debba vivere libera, essendo nata libera: nonostante Elsa sia ormai addomesticata e non più in grado di vivere nella natura selvaggia, Joy decide caparbiamente di tentare in pochi mesi un graduale reinserimento del felino nel suo habitat naturale.

«È nata libera e ha il diritto di vivere libera.»

(Joy Adamson)
Una scena di Nata libera

La sceneggiatura del film è opera di Lester Cole, scrittore statunitense inserito nella lista nera di Hollywood durante il maccartismo, la caccia alle streghe lanciata nei primi Anni ’50 dal senatore Joseph McCarthy contro persone sospettate di essere filocomuniste e sovversive. Accuse infondate e attacchi personali coinvolsero molte personalità di spicco della politica, della cultura e del mondo dello spettacolo. Cole e altri nove colleghi (i cosiddetti Hollywood Ten) si rifiutarono di testimoniare davanti alla Commissione per le attività antiamericane e furono pertanto ostracizzati dall’industria cinematografica.

Solo tre delle sue sceneggiature sono divenute film, ognuna firmata con un diverso pseudonimo: Nata libera è accreditato a Gerald L. C. Copley. Come in molti dei film sceneggiati dal più celebre collega Dalton Trumbo (Vacanze romane, Spartacus e Papillon, solo per citarne alcuni), nel soggetto su cui ha lavorato Cole alberga un ardente desiderio di libertà: quella stessa libertà che era stata loro ingiustamente preclusa.

Lester Cole (a destra) con il collega Ring Lardner Jr.

Nata libera conquistò i premi Oscar per la miglior colonna sonora (John Barry) e per la miglior canzone (Born Free, di John Barry e Don Black, cantata da Matt Monro). Quasi vent’anni dopo, il maestro John Barry avrebbe vinto la sua quarta statuetta per la struggente colonna sonora di un altro film legato all’Africa e al Kenya, ben più celebre del precedente: La mia Africa (Out of Africa, 1985), di Sydney Pollack, ispirato all’omonimo romanzo autobiografico di Karen Blixen e interpretato da Meryl Streep e Robert Redford, vincitore di 7 premi Oscar (miglior film, miglior regia, miglior sceneggiatura non originale, miglior fotografia, miglior scenografia, miglior sonoro e, appunto, miglior colonna sonora).

Meryl Streep (Karen Blixen) e Robert Redford (Denys Finch-Hatton) ne La mia Africa

Gli attori Bill Travers e Virginia McKenna, protagonisti del film Nata libera e coniugi anche nella vita, divennero intimi amici dei veri George e Joy Adamson. La realizzazione del film cambiò per sempre la vita dei due attori, che divennero attivisti per i diritti degli animali e continuarono nei decenni successivi a battersi per la protezione degli animali selvatici africani e per la salvaguardia del loro habitat naturale.

Bill Travers e Virginia McKenna in una scena di Nata libera

Travers e McKenna recitarono in un’altra pellicola per famiglie a sfondo animalista, An Elephant Called Slowly (1969), basato stavolta sulle reali avventure della coppia con tre giovani elefanti africani, in Kenya. Nel film compaiono il vero George Adamson e l’elefantina Pole Pole (Piano piano in swahili), donata allo zoo di Londra alla fine delle riprese. Quando nel 1982 la coppia andò a trovare l’elefantessa e vide in che condizioni viveva, iniziò una campagna per spostarla in un luogo più adatto, ma durante il trasferimento Pole Pole morì: la disgrazia spinse i coniugi a fondare nel 1984 l’organizzazione Zoo Check. Nello stesso anno, McKenna fu coinvolta nella protesta contro le cattive condizioni dello zoo di Southampton, che fu chiuso un anno dopo.

Nel 1991, la Zoo Check divenne la Born Free Foundation, un ente di beneficenza internazionale per la salvaguardia della fauna selvatica il cui attuale presidente esecutivo è Will Travers, figlio maggiore della coppia. Per i meriti artistici e l’impegno profuso nella salvaguardia degli animali e della natura, nel 2004 Virginia McKenna è stata nominata Ufficiale dell’Ordine dell’Impero Britannico.

Bill Travers e Virginia McKenna visitano l’elefantessa Pole Pole allo zoo di Londra (1982)

«Non torno a Londra se non ho abbattuto un elefante!»

Nata libera rappresenta una delle prime opere cinematografiche che affrontano il tema della salvaguardia della natura e, in uno stile ancora grezzo ma genuino, si rivolge a un pubblico di tutte le età.

Sono gli anni in cui viene fondato il WWF (1961), ancora oggi la più grande organizzazione internazionale non governativa per la protezione ambientale, e in cui si registrano decisivi passi in avanti nell’etologia, grazie alla diffusione degli studi di Konrad Lorenz sul comportamento animale: tutto ciò produce finalmente interesse e sensibilizzazione a livello globale, soprattutto riguardo a preservazione della biodiversità, sostenibilità nell’utilizzo delle risorse naturali e riduzione dell’inquinamento.

Jane Goodall

Nel 1960, in Tanzania, l’etologa inglese Jane Goodall inizia le sue ricerche sulla vita sociale e familiare degli scimpanzé. Tempo dopo, in Ruanda, la zoologa statunitense Dian Fossey avrebbe seguito il suo esempio dedicandosi all’osservazione e allo studio dei gorilla: la sua vita è immortalata in Gorilla nella nebbia (Gorillas in the Mist, 1988) di Michael Apted, in cui la Fossey è interpretata da una straordinaria Sigourney Weaver.

Dian Fossey

Nata libera è allo stesso tempo una testimonianza intatta di quanto l’essere umano stesse iniziando solo allora a sviluppare una reale consapevolezza riguardo a determinati concetti etici: un leone considerato pericoloso per una comunità che viene abbattuto senza remore, un turista che durante un safari afferma che “non tornerà a Londra se non avrà abbattuto un elefante”.

A conferma di ciò, solo pochi anni prima era stato prodotto Hatari!, avventuroso film del grande Howard Hawks interpretato tra gli altri da John Wayne, Elsa Martinelli, Hardy Krüger e Bruce Cabot: i protagonisti sono una squadra di cacciatori professionisti che, in Tanzania, si occupa della cattura di animali esotici della savana, destinati alla vendita all’estero presso zoo e riserve naturali.

Elsa Martinelli in una scena di Hatari!

Il film, ritenuto da molti un capolavoro, è conosciuto anche per la celebre scena del bagno degli elefantini sulle note di Baby Elephant Walk, uno dei motivi composti da Henry Mancini per la colonna sonora.

«Era la storia di un gruppo di persone che catturavano animali, e non avevo intenzione di metterci altro.»

(Howard Hawks)

Molto popolare soprattutto tra i più piccoli, grazie alla presenza di molti animali esotici, la pellicola aveva avuto un ottimo riscontro dalla critica internazionale, affascinata dal suo carattere utopico e dall’armonia tra le sensazionali scene di cattura degli animali e le sequenze ambientate al campo, in cui le vicende personali dei protagonisti vengono narrate con garbo e ironia. Il film ha un tono quasi fiabesco: un mondo fuori dal tempo in cui i protagonisti vivono in armonia e complicità con tanti animali selvaggi.

John Wayne in Hatari!

Secondo Todd McCarthy, biografo di Howard Hawks, Hatari! è addirittura il più geniale film del mondo: inizia come film d’avventura, si trasforma in film d’amore, termina come film per bambini.

Visto oggi, Hatari! non può non risultare eticamente ambiguo. Nelle riprese di caccia furono utilizzati sempre animali vivi, liberi e selvaggi: inseguirli e catturarli, anche per poi liberarli, sarebbe oggi assolutamente vietato e severamente punito, per lo stress causato e le possibili conseguenze sulla salute degli animali, in particolare per le specie protette o in via di estinzione.

John Wayne in Hatari!

Tale leggerezza su una questione così delicata non può tuttavia sorprendere: il safari a scopo venatorio, infatti, è attualmente consentito in quasi tutti i Paesi sub-sahariani tranne che in Kenya, nel cui territorio la caccia è vietata fin dal 1977. In molte riserve di caccia statali e terreni privati è ancora legale abbattere animali protetti come leoni, elefanti e rinoceronti previo pagamento, nella maggior parte dei casi appannaggio di personaggi facoltosi senza scrupoli.

Eppure, oggi sappiamo che perfino un affascinante safari fotografico in riserve e parchi nazionali, all’apparenza innocuo, può avere un impatto negativo sull’ambiente: la presenza di turisti può infatti disturbare le attività da cui dipende la sopravvivenza degli animali (l’efficienza di caccia dei leoni nelle aree più frequentate da turisti è molto inferiore, spesso appena sufficiente al sostentamento; ancora maggiore è il danno ai predatori prevalentemente diurni come il ghepardo). L’unico contributo positivo del turismo all’ambiente è di tipo indiretto: spesso i governi locali hanno difficoltà a sorvegliare territori così vasti e la presenza di turisti può aiutare a controllare e, in certi casi, a scoraggiare il bracconaggio.

La cattura di una giraffa in una scena di Hatari!

Elsa, George e Joy Adamson

Il successo del romanzo Born Free convinse Joy Adamson a pubblicare due sequel: Living Free (1961) e Forever Free (1963). Prima dell’uscita del film Nata libera, il naturalista Sir David Attenborough aveva già realizzato per la BBC un documentario sulla leonessa Elsa: Elsa the Lioness (1961). La storia di Elsa e degli Adamson ha ispirato numerosi altri documentari, un sequel (Living Free, 1972), una serie televisiva (Nata libera, 1974), un film TV (Born Free: A New Adventure, 1996) e il film To Walk with Lions di Carl Schultz (1999) con Richard Harris, Honor Blackman, Ian Bannen e Geraldine Chaplin, sugli ultimi anni di vita di George Adamson.

La leonessa Elsa con Joy Adamson

Elsa fu la prima leonessa a essere rimessa con successo in libertà, la prima a stabilire un contatto e ad avere una cucciolata dopo essere stata messa in libertà. Morì nel 1961 di babesiosi, una malattia infettiva provocata dal morso di zecca. I suoi cuccioli divennero presto una minaccia per il bestiame dei locali e, per la loro sicurezza, furono trasferiti dagli Adamson nel Parco nazionale del Serengeti, in Tanzania.

Nello stesso anno, George Adamson andò in pensione come guardacaccia per potersi dedicare completamente all’attività di naturalista e agli studi sui leoni: Baba ya Simba (Il padre dei leoni in swahili) fece da capo consulente tecnico per il film Nata libera ed è oggi considerato uno dei padri fondatori della conservazione della fauna selvatica.

George Adamson

«Chi si prenderà cura degli animali, per quelli che non sono autosufficienti?
Ci sono giovani uomini e giovani donne disposti ad assumere questo incarico?
Chi farà sentire la sua voce, quando la mia sarà stata portata via dal vento, chi aiuterà la causa?»

(George Adamson)

In seguito, i diversi interessi portarono George e Joy a separarsi, pur rimanendo in buoni rapporti: George continuò a occuparsi dei leoni, mentre Joy decise di dedicarsi ai ghepardi. Joy passò gli anni successivi a raccogliere fondi per la fauna selvatica, grazie anche al successo del libro e del film, e riuscì a rimettere in libertà un ghepardo e un leopardo.

Joy Adamson

Il leone Christian

Nel 1969, John Rendall e Anthony Bourke, due amici australiani che lavoravano in un negozio di mobili a Londra, acquistarono un cucciolo di leone maschio, Christian, nel reparto animali esotici del grande magazzino londinese Harrods, preoccupati per le sue condizioni e per il suo destino: il cucciolo era stato separato dai suoi genitori a causa della vendita dello zoo di Ilfracombe, in Inghilterra, in cui vivevano. Christian venne allevato nel seminterrato del negozio e il vicario locale permise ai due ragazzi di lasciarlo libero per qualche ora al giorno sul prato del cimitero adiacente. Destino volle che l’anno dopo, quando il cucciolo aveva ormai raggiunto una grande stazza, gli attori Bill Travers e Virginia McKenna si recassero proprio in quel negozio per acquistare una scrivania. McKenna raccontò loro la storia della leonessa Elsa e li mise in contatto con George Adamson, per tentare anche con Christian una reintroduzione alla vita selvaggia in Africa.

Virginia McKenna e Bill Travers con John Rendall, Anthony Bourke e il leone Christian

I due ragazzi accettarono la proposta e nel corso dell’anno organizzarono la spedizione in Kenya per Christian, avvertiti comunque da Adamson che la sua reintroduzione sarebbe stata molto più difficile di quella di Elsa e che probabilmente l’esperimento sarebbe fallito: Elsa, infatti, era nata in Kenya e quindi era sempre vissuta nel suo habitat naturale, anche se domestico, mentre Christian aveva vissuto sempre in città, i suoi stessi genitori erano nati in cattività e non era quindi abituato neanche al clima africano.

John Rendall, Anthony Bourke e il leone Christian

Adamson volle tentare la reintegrazione del leone in una colonia già esistente. Data la difficoltà di integrare un maschio in una comunità con un capobranco già attribuito, decise di aiutarsi con un altro leone maschio addomesticato di nome Boy, che aveva preso parte al film Nata libera. Adamson intendeva stabilire un legame tra i due che li rendesse i leader di un nuovo nucleo. Nonostante gli iniziali screzi, l’esperimento riuscì perfettamente e i due leoni divennero inseparabili. Il secondo passo fu l’affiancamento di una femmina, di nome Katania, per provare a estendere la nuova colonia.

Da questo momento, iniziò una serie di tragedie che misero a serio rischio la riuscita del progetto: Katania venne attaccata da un coccodrillo in prossimità di una pozza d’acqua e un’altra femmina venne uccisa da un altro branco di leoni. Stanley, uno chef della riserva allontanatosi dal campo alla ricerca di miele selvatico senza misure di sicurezza, fu attaccato da Boy, che si trovava libero nelle vicinanze: Adamson, accorso in aiuto, fu costretto a sparare all’amato leone, uccidendolo, ma non fece in tempo a salvare l’uomo, che morì per le ferite riportate.

Il clamore della tragedia sembrò segnare la fine del progetto, ma Adamson non si scoraggiò e, grazie all’aiuto di altri naturalisti riuscì finalmente a raggiungere lo scopo: Christian aveva preso possesso di una colonia di cui era divenuto il leader, aveva avuto dei cuccioli con due femmine e, dopo la sua reintegrazione nella natura, si avvicinava raramente al campo e agli uomini.

Appresa la notizia, Rendall e Bourke decisero di intraprendere un ultimo viaggio in Kenya per poter osservare di persona la reintegrazione del leone e per tentare di salutarlo un’ultima volta. Adamson li avvertì che il loro viaggio sarebbe stato probabilmente inutile, poiché Christian non si faceva vedere da almeno nove mesi, ma i due decisero ugualmente di partire.

Arrivati alla riserva, Adamson andò loro incontro con una novità: la notte prima, Christian era tornato nelle vicinanze del campo con le sue compagne e i suoi cuccioli.

«Christian è arrivato ieri sera.
È qui con le sue leonesse e i loro cuccioli.
È appostato sulla sua roccia preferita al di fuori del campo.
Vi sta aspettando.»

(George Adamson)

George e Joy Adamson avevano spesso parlato nei loro scritti di una sorta di sesto senso dei leoni, soprattutto nei confronti degli esseri umani, definendo ciò come una sorta di capacità telepatica.

Rendall e Bourke furono avvertiti del fatto che il leone avrebbe potuto non riconoscerli e, conseguentemente, attaccarli: i due, però, non si persero d’animo e vollero comunque incontrarlo. Ciò che avvenne fu talmente incredibile da stupire perfino Adamson: a distanza di tanto tempo, Christian non solo riconobbe immediatamente i due ragazzi, ma gli corse incontro come se non si fosse mai allontanato da loro buttandogli le zampe intorno al collo in una sorta di abbraccio. Il commovente filmato dell’incontro, condiviso su internet trent’anni dopo, è diventato virale.

La storia di Christian è stata raccontata in un libro (scritto da Rendall e Bourke) e in un documentario (Christian, The Lion at World’s End), e ha ispirato un libro per bambini (Christian, the Hugging Lion).

Il leone Christian

«L’animale più pericoloso è l’uomo»

Il 3 gennaio 1980, poche settimane prima di compiere 70 anni, Joy Adamson fu trovata morta nella Shaba National Reserve, in Kenya, uccisa da un suo ex dipendente. Nove anni dopo, il 20 agosto 1989, George Adamson fu assassinato nel Parco Nazionale di Kora, in Kenya, nel salvare il suo assistente e un turista europeo da un gruppo di banditi somali: aveva 83 anni.

Sia Joy che George vollero farsi seppellire con i loro adorati leoni, in Kenya: Joy fu sepolta con la leonessa Elsa nel Meru National Park, mentre George coi leoni Boy, Super Cub e Mugie nel Kora National Park.

George Adamson

Nei suoi scritti, George aveva sempre ribadito che l’animale più pericoloso al mondo è l’uomo e che il leone non è solo un predatore, ma un essere vivente capace di sviluppare una varietà di comportamenti.

Le esperienze e gli studi di George e Joy Adamson sono stati fonte di ispirazione per tanti altri naturalisti e hanno dato un contributo essenziale nell’interazione con un mondo fino ad allora quasi sconosciuto e considerato solo selvaggio.

Joy e George Adamson