Premi Oscar 2022

La 94ª edizione degli Academy Awards sarà purtroppo ricordata per quello che molti hanno definito il momento più brutto nella storia degli Oscar. Durante la presentazione del premio per il miglior documentario, il comico Chris Rock si è rivolto alla moglie di Will Smith, Jada Pinkett Smith, paragonandola alla Demi Moore del film Soldato Jane per la sua testa rasata. Pinkett Smith soffre di alopecia e il suo disappunto per la pessima battuta, all’insegna del body shaming, ha innescato la violenta e ingiustificabile reazione del marito Will Smith, che è salito sul palco e ha schiaffeggiato il presentatore.

Poco dopo, Smith ha ricevuto il suo primo Oscar in carriera come miglior attore protagonista: in lacrime durante il discorso di accettazione, l’attore si è scusato con l’Academy e con gli altri candidati per il proprio gesto sconsiderato, motivandolo con l’amore verso i propri cari e ricevendo dal pubblico una standing ovation decisamente fuori luogo.

Una famiglia vincente – King Richard

L’Oscar a Will Smith era il più scontato della serata: per il ruolo di Richard Williams nel biopic Una famiglia vincente – King Richard, storia del padre e allenatore delle sorelle campionesse di tennis Venus e Serena Williams, l’attore aveva già vinto i maggiori premi internazionali (Golden Globe, Screen Actors Guild Award, Critics Choice Award e BAFTA). Una lodevole interpretazione in un film godibile e ben costruito, seppur leggermente sminuito dall’etichetta di ennesimo stereotipo del sogno americano.

Nettamente sfavoriti alla vigilia gli altri candidati, nonostante l’eccellente performance di Benedict Cumberbatch (Il potere del cane) il momento d’oro di Andrew Garfield (Tick, Tick… Boom!) e il solito intramontabile Denzel Washington (Macbeth).

Il potere del cane

Il potere del cane ha conquistato l’altra statuetta ampiamente annunciata, la sua unica a fronte di 12 nomination (il numero più alto in questa edizione): l’Oscar al miglior regista è andato infatti alla neozelandese Jane Campion, prima donna a essere candidata più di una volta per il premio e già vincitrice del Leone d’argento alla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia. Dopo la vittoria dello scorso anno di Chloé Zhao con Nomadland, è la prima volta che l’Oscar viene assegnato a una donna per due edizioni consecutive.

Suggestive inquadrature e notevoli riprese dall’alto in un film solo all’apparenza definibile western: Il potere del cane è un dramma cupo e inquietante, con personaggi ambigui e un’atmosfera intrisa di perversione. Bravi gli attori (Kirsten Dunst, Jesse Plemons e il luciferino Kodi Smit-McPhee, oltre a Cumberbatch), tutti e quattro candidati all’Oscar.

CODA – I segni del cuore

Decisamente troppe le 10 pellicole candidate all’Oscar per il miglior film, la metà delle quali non aveva alcuna possibilità di vittoria. Il premio è infine andato con merito a un outsider: CODA – I segni del cuore. Remake de La famiglia Bélier (2014) di Éric Lartigau, CODA è l’acronimo di Child Of Deaf Adult, ossia persona udente cresciuta da genitore sordo: la protagonista Ruby Rossi (Emilia Jones) è l’unico membro udente della propria famiglia, avendo padre, madre e fratello sordi, e ha una grande passione per la musica.

La pellicola affronta una tematica delicata da un punto di vista originale e coinvolgente: la disabilità non è rappresentata come un dramma, ma come qualcosa di speciale come il legame che crea tra le persone. CODA pone luce con leggerezza e semplicità sulla difficoltà di comunicare in contesti ancora impreparati alla diversità e sulla caparbietà nel superarla. Un film allegro e allo stesso tempo emozionante, dal messaggio fortemente positivo, diverso da tutti gli altri in gara.

Marlee Matlin, la madre di Ruby nel film, è stata la prima interprete sorda a conquistare un Oscar e la donna più giovane a vincere la statuetta come miglior attrice protagonista per Figli di un dio minore (1986), debuttando all’età di 21 anni: lei e Troy Kotsur, premiato come miglior attore non protagonista per la magnifica interpretazione del padre di Ruby, sono quindi gli unici due attori sordi ad aver vinto un Oscar. Grande soddisfazione anche per la regista e sceneggiatrice Siân Heder, che si aggiudica il premio per la miglior sceneggiatura non originale. Un vero e proprio trionfo per CODA, che conquista tutti e tre gli Oscar per cui era candidato.

Gli occhi di Tammy Faye

Se l’Oscar al miglior attore era praticamente già assegnato, molto più tirata è stata la sfida per l’Oscar alla miglior attrice, dove il testa a testa tra Nicole Kidman e Jessica Chastain si è concluso con la vittoria di quest’ultima per Gli occhi di Tammy Faye, film biografico incentrato sulla vita della famosa telepredicatrice: una statuetta meritata in un film piuttosto lento e fiacco, trascinato quasi unicamente dalla sua performance; premiati con l’Oscar anche i trucchi e le acconciature, impeccabili al punto da rendere l’attrice irriconoscibile.

Nicole Kidman, già vincitrice del Golden Globe per A proposito dei Ricardo, è stata poco aiutata da un film abbastanza piatto e da un’interpretazione un po’ troppo asettica di quella Lucille Ball resa celebre dalla sensazionale mimica facciale e dalla strepitosa verve comica. Davvero difficile la scelta finale, considerato anche il livello delle altre tre candidate: la sorprendente Kristen Stewart nel ruolo di Lady Diana in Spencer, la splendida Penelope Cruz in Madres paralelas di Pedro Almodóvar e la sempre bravissima Olivia Colman ne La figlia oscura di Maggie Gyllenhaal, quest’ultima penalizzata forse dall’aver condiviso la scena con la stella emergente Jessie Buckley, a sua volta candidata come miglior attrice non protagonista.

West Side Story

Era davvero impossibile per West Side Story replicare il successo dell’omonimo capolavoro girato 60 anni prima (1961), vincitore di 10 Oscar e considerato uno dei migliori musical di tutti i tempi. La pellicola, diretta da Steven Spielberg, è riuscita però a ritagliarsi uno spazio importante in questa rassegna degli Academy Awards grazie alla statuetta conquistata da Ariana DeBose come miglior attrice non protagonista nel ruolo di Anita, entrando di diritto nella storia del cinema: l’attrice interprete di Anita nel film del 1961, Rita Moreno, aveva infatti vinto a sua volta l’Oscar come miglior attrice non protagonista.

Anita raggiunge quindi Don Corleone e Joker tra i personaggi le cui interpretazioni hanno guadagnato più di un Oscar, ma la sua doppietta è, se vogliamo, ancora più speciale: mentre gli altri compaiono in due distinte narrazioni (Il padrino e Il padrino – Parte II, Il cavaliere oscuro e Joker), in questo caso l’interpretazione dello stesso personaggio in entrambi gli adattamenti cinematografici della stessa opera viene premiata con lo stesso Oscar.

Belfast

Kenneth Branagh ha finalmente conquistato il suo primo Oscar in carriera per la sceneggiatura originale del semi-autobiografico Belfast: un degno riconoscimento per uno degli artisti più poliedrici del panorama cinematografico mondiale, come testimoniato dallo straordinario dettaglio delle 7 diverse nomination su 8 totali (film, regista, attore protagonista, attore non protagonista, sceneggiatura non originale, sceneggiatura originale, cortometraggio) in oltre 30 anni (la prima nel 1990).

Il suo Belfast è un film intenso e coraggioso sul conflitto nordirlandese tra cattolici e protestanti visto dalla prospettiva di un bambino, con un’iconica fotografia in bianco e nero e ottimi interpreti, piccoli e grandi, tra i quali spicca la performance di Ciarán Hinds nel ruolo del nonno.

Drive My Car

Quasi scontato l’Oscar come miglior film internazionale a Drive My Car di Ryūsuke Hamaguchi (Giappone), candidato anche nelle categorie Miglior film, Miglior regista e Miglior sceneggiatura non originale e dato per favorito rispetto a Flee (Danimarca), La persona peggiore del mondo (Norvegia) e al nostro È stata la mano di Dio di Paolo Sorrentino.

Già vincitore del Golden Globe per il miglior film in lingua straniera e del Prix du scénario (premio alla migliore sceneggiatura) al Festival di Cannes, Drive My Car è un dramma introspettivo sul rimpianto e l’accettazione di sé stessi, ma anche un omaggio al teatro, alla sua capacità di unire personalità e linguaggi diversi, al potere che esercita su chi vi si dedica. Un film impegnativo, ancora di più per la durata di quasi tre ore, ma senza dubbio da vedere.

Dune

A sorpresa, il film più premiato in questa edizione degli Academy Awards è stato Dune di Denis Villeneuve, prima parte dell’adattamento cinematografico dell’omonimo romanzo di Frank Herbert già portato sullo schermo nel 1984 da David Lynch, vincitore di 6 Oscar su 10 nomination: fotografia, montaggio, sonoro, scenografia, effetti speciali e colonna sonora al leggendario Hans Zimmer, alla seconda statuetta in carriera dopo quella per Il re leone (1995).

Un avvincente film di fantascienza supportato da un pregevole cast corale comprendente Timothée Chalamet, Rebecca Ferguson, Oscar Isaac, Zendaya, Jason Momoa, Josh Brolin, Stellan Skarsgård, Javier Bardem e Charlotte Rampling.

Il remake vince facilmente il confronto con il film originale, sommerso a suo tempo da critiche ben poco lusinghiere:

Molti dei personaggi di Dune sono sensitivi, il che li mette nella posizione unica di essere in grado di capire ciò che accade nel film.

Janet Maslin

Ci sono voluti a Dune circa nove minuti per spogliarmi completamente di ogni aspettativa.
Questo film è un vero casino, un’incomprensibile, brutta, non strutturata, inutile escursione nei reami più oscuri di una delle sceneggiature più confuse di tutti i tempi.

Roger Ebert

L’Oscar onorario è stato assegnato agli attori Samuel L. Jackson, Elaine May e Liv Ullmann, mentre Danny Glover ha ricevuto il Premio umanitario Jean Hersholt per il suo decennale impegno nella difesa della giustizia e dei diritti umani. Crudelia, reboot e prequel de La carica dei 101, premiato con l’Oscar per i migliori costumi. Miglior film d’animazione Encanto, 60° classico Disney, miglior canzone No Time To Die di Billie Eilish e Finneas O’Connell per l’omonimo film, 25° capitolo della saga di James Bond.

Zero Oscar!

Grande delusione, infine, per tante pellicole pluricandidate, alcune delle quali annunciate come possibili outsider: La figlia oscura, Licorice Pizza, La persona peggiore del mondo, A proposito dei Ricardo, Macbeth, Tick, Tick… Boom!, Madres paralelas, Don’t Look Up e La fiera delle illusioni – Nightmare Alley tornano a casa senza nemmeno una statuetta.

U-Boot 96 (Wolfgang Petersen, 1981)

Eine Reise ans Ende des Verstandes”
“Un viaggio ai limiti della mente umana”

(Tagline del film)

U-Boot 96 (Das Boot) è un film di guerra tedesco del 1981 scritto e diretto da Wolfgang Petersen e interpretato da Jürgen Prochnow, Herbert Grönemeyer e Klaus Wennemann.

La pellicola è incentrata sull’U-96, un sommergibile della Marina militare tedesca (Kriegsmarine) in servizio durante la Seconda Guerra Mondiale (U-Boot è l’abbreviazione di Unterseeboot, letteralmente battello sottomarino) ed è tratta dall’omonimo romanzo di Lothar-Günther Buchheim Das Boot, pubblicato nel 1973 ed edito in Italia come U-Boot.

L’U-96 in una scena del film

La narrazione è immaginaria, ma si basa su episodi realmente accaduti al vero U-96: Buchheim, autore del romanzo, era salito a bordo del sommergibile nel 1941 come corrispondente di guerra per fotografare e descrivere un U-Boot in azione per scopi di propaganda; Heinrich Lehmann-Willenbrock, comandante dell’U-96 e sesto comandante tedesco per tonnellaggio nemico affondato (179125 tonnellate) nella Battaglia dell’Atlantico contro gli Alleati, fece da consulente alla regia insieme a Hans-Joachim Krug, comandante in seconda dell’U-219.

Il vero U-96 e il comandante Lehmann-Willenbrock

Nell’ottobre 1941, il tenente Werner si imbarca a La Rochelle come corrispondente di guerra a bordo del sommergibile tedesco U-96, in procinto di salpare per l’Atlantico a caccia di navi nemiche. L’U-96 ha come ufficiali più alti in grado l’autorevole comandante, soprannominato Der Alte (Il vecchio), e il valente direttore di macchina.

Werner entra rapidamente a contatto con le dure condizioni di vita all’interno del sommergibile, segnate da snervanti attese, sporcizia e promiscuità, che minano costantemente il morale dell’equipaggio.

Il comandante e il tenente Werner in una scena del film

Dopo giorni di navigazione viene segnalata la presenza di un convoglio Alleato e il comandante si lancia all’attacco, ma una fitta nebbia ribalta inaspettatamente lo scenario: l’U-96 viene individuato e bombardato da un cacciatorpediniere (una nave da guerra progettata appositamente per attaccare i sommergibili, equipaggiata con sonar e cariche di profondità) e da cacciatore diventa preda, riuscendo comunque ad allontanarsi.

La disillusione del comandante, diffidente riguardo all’attendibilità degli ordini ricevuti, trova conferma quando l’U-96 si imbatte in un’unità amica: un incontro così improbabile nell’immensità dell’oceano induce a sospettare che uno dei due sommergibili sia stato inviato nel posto sbagliato, palese testimonianza della superficialità dell’Alto Comando sui reali obiettivi delle missioni.

Una notte l’U-96 avvista un convoglio nemico e attacca lanciando tre siluri, nonostante il chiarore della Luna lo renda facilmente distinguibile: i siluri raggiungono i bersagli, ma il sommergibile viene individuato da un caccia di scorta alle navi e bombardato per ore, riuscendo miracolosamente a salvarsi.

Una scena del film

Quando il rientro sembra ormai imminente, un inatteso ordine impone al sommergibile un ultimo incarico, che si rivela essere una missione suicida: dirigersi verso la base di La Spezia passando attraverso lo stretto di Gibilterra presidiato dalla flotta britannica.

Durante l’insidiosa traversata, l’U-96 viene centrato da una bomba e tenta la fuga immergendosi rapidamente: il colpo ricevuto ha però danneggiato gli strumenti per regolare l’immersione e l’assetto del sommergibile, che continua a scendere senza più controllo.

Raggiunta la profondità di 270 metri, ben oltre il livello di tenuta del natante, un banco di sabbia arresta la mortale discesa: la pressione dell’acqua, tuttavia, fa cedere rivetti e parte della tubolatura, provocando l’apertura di falle e di vie d’acqua che inondano rapidamente il sommergibile.

Una scena del film

In una corsa contro il tempo, con sempre meno ossigeno e forze residue, l’equipaggio riesce strenuamente a chiudere le falle e, grazie all’ingegno del direttore di macchina, a riparare gli impianti danneggiati, rimettendo il sommergibile in condizione di emergere: dopo oltre 24 ore e senza quasi più ossigeno, l’U-96 riesce a tornare in superficie.

Il comandante rinuncia ad attraversare lo stretto e dà ordine di rientrare alla base, ma il destino sarà implacabile.

Il direttore di macchina (Wennemann), il comandante (Prochnow) e il tenente Werner (Grönemeyer) in una scena del film

Un film di guerra antimilitarista, un film tedesco antinazista

A parte il primo guardiamarina, giovane ufficiale e fervente nazista, l’equipaggio dell’U-96 è apolitico o, come nel caso del comandante, apertamente antinazista. Lo storico Michael Gannon conferma che nel 1941, anno in cui è ambientato il film, gli U-Boot erano uno dei rami meno filo-nazisti nelle forze armate tedesche. Nel suo libro Iron Coffins (Bare di ferro), l’ex comandante di U-Boot Herbert A. Werner sottolinea che la selezione del personale navale in base alla lealtà al partito durante la guerra avvenne solo dal 1943 in poi, quando gli U-Boot stavano subendo ingenti perdite, il morale dei soldati era ai minimi termini e iniziava a serpeggiare un crescente scetticismo verso il Führer e l’Alto Comando.

Una scena del film

L’originalità di U-Boot 96 è spiazzante fin dal soggetto: la vita all’interno di un sommergibile durante la Seconda Guerra Mondiale raccontata dal punto di vista dei soldati tedeschi, mostrati per la prima volta come esseri umani dotati di sentimenti e ingegno e non come fanatici sanguinari. Una prospettiva del tutto nuova per l’epoca: in un’industria cinematografica dominata dal colosso statunitense, la pellicola di produzione tedesca stravolse i canoni del cinema di guerra. Un’impresa titanica ed estremamente rischiosa, che richiese una maniacale attenzione ai particolari: la minima ambiguità avrebbe facilmente attirato accuse di revisionismo.

I protagonisti non vengono dipinti come eroi: sono semplicemente soldati chiamati ad affrontare paure e insidie in un contesto così estremo e claustrofobico, dove all’angosciosa frenesia delle battaglie fanno da contraltare i lunghi periodi di inattività. È questa la vera forza del film: la costante tensione e il notevole realismo catapultano lo spettatore a bordo e generano una potentissima empatia verso i personaggi, arrivando a rendere imprevedibile un epilogo in fondo annunciato.

Una scena del film

Curiosità

La realizzazione del film durò due anni, dal 1979 al 1981. Le scene all’interno del sommergibile furono girate tutte di seguito, per rendere l’aspetto degli attori il più realistico possibile: il caratteristico pallore di chi ha vissuto al chiuso per lunghi periodi, la barba e i capelli incolti, i vestiti sporchi e sdruciti. Agli attori fu inoltre impartita una formazione sul campo per imparare a muoversi rapidamente negli angusti spazi del sommergibile, senza inciampare o scontrarsi con i compagni, così da limitare al massimo incidenti ed eventuali interruzioni.

Gli ufficiali dell’U-Boot 96 in una scena del film

Non disponendo la produzione delle attrezzature all’avanguardia usate dal cinema hollywoodiano, nelle scene in cui i personaggi dovevano essere bagnati l’acqua non era riscaldata e gli attori tremavano realmente per il freddo.

Ogni dettaglio, dalle divise alle apparecchiature, dalle armi alle suppellettili, è storicamente accurato. Per riprodurre l’U-96 furono realizzati due modelli a grandezza naturale di un vero U-Boot Tipo VII-C: un sommergibile motorizzato e vuoto per gli esterni in mare e un tubo provvisto di tutti gli interni; quest’ultimo era montato su un simulatore di navigazione azionato da attuatori idraulici in modo da ricreare rollio e beccheggio, insieme agli scossoni prodotti dalle bombe di profondità.

Interni del modello: tavolo del timoniere (in alto a sinistra), camera di manovra (in alto a destra), sala siluri (in basso a destra), sala macchine (in basso a sinistra)

Il modello usato per le scene in emersione venne prestato a Steven Spielberg per I predatori dell’arca perduta, le cui riprese erano iniziate in quel periodo, e fu restituito in pessime condizioni, tanto da allarmare la produzione sulla sua effettiva capacità di galleggiare nelle ultime scene ancora da girare.

Un modello della torretta del vero U-96 con il celebre logo del pesce sega ghignante fu realizzato per gli esterni che non richiedevano la ripresa dell’intero scafo. La torretta fu posizionata in una piscina nei Bavaria Studios di Monaco: per simulare le onde venivano lanciati getti d’acqua.

In alto, l’U-995 (un U-Boot Tipo VII-C) in esposizione al Memoriale navale di Laboe; in basso il modello della torretta esposto ai Bavaria Studios di Monaco

U-Boot 96 fu la prima parte di rilievo per l’attore Jürgen Prochnow (il comandante), che da quel momento divenne uno dei caratteristi più richiesti a livello internazionale (Dune, Un’arida stagione bianca, Robin Hood – La leggenda, Il paziente inglese), recitando spesso in ruoli di villain autoritari, crudeli e sadici.

Jürgen Prochnow in U-Boot 96

Herbert Grönemeyer (il tenente Werner) è uno dei più popolari cantautori tedeschi: dal 1984 tutti i suoi album si sono posizionati al primo posto nelle classifiche nazionali e i suoi album Mensch e 4630 Bochum sono ancora oggi il primo e il terzo album più venduti di sempre in Germania.

Herbert Grönemeyer in U-Boot 96

Nel 1997 la pellicola è stata distribuita in una versione Director’s cut di 209 minuti che, rispetto alla versione cinematografica del 1981 (149 minuti), risulta essere molto più completa senza appesantire la narrazione. Poiché l’audio originale era andato perduto, furono richiamati gli attori originali che, dopo sedici anni, ridoppiarono l’intera pellicola. In modo simile fu ricreata l’imponente colonna sonora, a partire dalla registrazione originale conservata dal compositore Klaus Doldinger: l’audio su più canali consentì la distribuzione del film in Dolby Digital.

U-Boot 96 è considerato uno dei migliori film di guerra mai realizzati: un thriller mozzafiato dal realismo quasi documentaristico, intelligente e anticonformista. Acclamato dalla critica, ottenne 6 nomination ai premi Oscar (regia, sceneggiatura non originale, fotografia, montaggio, sonoro e montaggio sonoro), attuale record per una pellicola tedesca, ma non riuscì a conquistare neppure una statuetta. Il film ebbe inoltre uno straordinario successo di pubblico, specialmente in Germania e negli Stati Uniti: a fronte di un budget iniziale di 32 milioni di marchi (tuttora una delle produzioni tedesche più costose di sempre), incassò quasi 85 milioni di dollari in tutto il mondo. Due anni dopo, un’altra pellicola diretta da Wolfgang Petersen avrebbe raggiunto i 100 milioni di dollari di incassi: La storia infinita, il film tedesco più costoso del dopoguerra (60 milioni di marchi).

Sul set di U-Boot 96 (da destra a sinistra): l’attore Jürgen Prochnow, il regista Wolfgang Petersen, l’autore del romanzo Lothar-Günther Buchheim e il direttore della fotografia Jost Vacano

Un mercoledì da leoni (John Milius, 1978)

Un mercoledì da leoni (Big Wednesday) è un film del 1978 diretto da John Milius e interpretato da Jan-Michael Vincent, William Katt e Gary Busey.

Tre amici virtuosi del surf furoreggiano sulle spiagge della California degli Anni ’60: Matt Johnson (Vincent) vive con inquietudine il passaggio dalla spensieratezza alla maturità e la sua fragile natura lo spinge a cercare rifugio nell’alcol; Jack Barlow (Katt) è riflessivo, pacato e responsabile; Leroy Spaccatutto Smith (Busey) è uno scatenato pazzoide con un profondo senso dell’amicizia.

Leroy (Busey), Matt (Vincent) e Jack (Katt) in Un mercoledì da leoni

Il punto di riferimento del trio è Bear (Sam Melville), un esperto surfista che costruisce artigianalmente tavole da surf sul suo pontile, verso il quale i ragazzi provano grande affetto e ammirazione: l’ascesa e il declino della sua attività rispecchiano idealmente la parabola del surf da passione a moda, da novità a consuetudine, da scintilla di amicizia e aggregazione sociale a fenomeno commerciale.

Quattro grandi mareggiate in quattro diverse stagioni (estate ’62, autunno ’65, inverno ’68, primavera ’74) scandiscono le vite dei protagonisti attraverso gli Anni ’60 e ’70, profondamente segnati dalla guerra del Vietnam: Matt e Leroy riescono a sottrarsi alla chiamata alle armi, utilizzando diversi stratagemmi per farsi riformare alla visita medica, mentre Jack accetta quello che lui considera un dovere.

Il tempo passa e li divide, ma le grandi ondate ritornano e i tre si ritroveranno insieme per l’ultima cavalcata in occasione della gigantesca mareggiata del ’74, Il Grande Mercoledì che dà il titolo originale al film (Big Wednesday).

Una scena di Un mercoledì da leoni

Secondo il Morandini:
“Non è soltanto un film sul surf e la sua mistica eroica, ma anche una malinconica saga sull’amicizia virile, su una generazione americana segnata dal malessere esistenziale e dalla guerra del Vietnam. Uno dei più misconosciuti film dei ’70. Eppure la sua importanza – non soltanto sociologica – è pari a quella de Il cacciatore di Michael Cimino, uscito nello stesso anno.”

Ad accompagnare le vicende dei protagonisti la splendida colonna sonora di Basil Poledouris, compositore statunitense di origini greche dallo stile epico e imponente, che ha collaborato in diverse altre occasioni con il regista John Milius (Conan il barbaro, Alba rossa, Addio al re) e ha composto le musiche di film quali RoboCop, Caccia a Ottobre Rosso e Free Willy – Un amico da salvare. Nel 1996, il suo brano The Tradition of the Games ha aperto i Giochi Olimpici di Atlanta.

Il compositore Basil Puledouris

Il regista di Un mercoledì da leoni, John Milius, è una figura di spicco del cinema hollywoodiano: sceneggiatore di pellicole che hanno fatto epoca quali Apocalypse Now di Francis Ford Coppola e i primi due film della serie dell’ispettore Callaghan (Ispettore Callaghan: il caso “Scorpio” è tuo! e Una 44 Magnum per l’ispettore Callaghan), Milius ha scritto e diretto celebri film degli Anni ’70 e ’80 come Dillinger, Il vento e il leone, Conan il barbaro e Addio al re.

Il regista John Milius

Personaggio chiave della cosiddetta New Hollywood, il gruppo di cineasti comprendente Steven Spielberg, George Lucas e Francis Ford Coppola che dagli Anni ’70 scrivono, dirigono e producono da soli i propri film, Milius è protagonista di un curioso aneddoto riguardante proprio Un mercoledì da leoni e la sua amicizia con Spielberg e Lucas.

I tre registi si accordarono per dividere in parti uguali i profitti dei propri film che sarebbero usciti nella stagione 1977-78: Guerre stellari di George Lucas (1977), Incontri ravvicinati del terzo tipo di Steven Spielberg (1977) e, appunto, Un mercoledì da leoni di John Milius (1978). Spielberg, in particolare, era certo che Un mercoledì da leoni sarebbe stato un trionfo al botteghino, “il perfetto trait d’union tra American Graffiti e Lo squalo” (due dei film di maggior successo del decennio). Tuttavia, mentre i primi due film ebbero uno straordinario successo di pubblico (Guerre stellari è ancora oggi uno dei film con maggiori incassi nella storia del cinema), Un mercoledì da leoni fu un clamoroso flop commerciale e fu stroncato da gran parte della critica, che sottolineò l’inconsistenza delle scene d’azione rispetto alla pubblicizzata epicità e le prestazioni poco convincenti degli attori.

Steven Spielberg, John Milius e George Lucas

Tempo dopo, però, un cinefilo del calibro di Quentin Tarantino scrisse:
“Anche se preferisco Dillinger, il debutto alla regia di Milius, è molto difficile sostenere che Un mercoledì da leoni non sia il suo classico per eccellenza. La resa dei conti finale tra l’eroico trio e le onde gigantesche è così splendida da compensare tutto il resto e la camminata dei tre verso il destino ispirata a Il mucchio selvaggio è di gran lunga l’apice cinematografico di Milius.”

Camminate a confronto: Un mercoledì da leoni (in alto) e Il mucchio selvaggio (in basso)

Le origini di un cult

Un mercoledì da leoni (1978) è l’opera più intima e autobiografica di Milius: trasferitosi in California all’età di 7 anni, il futuro regista sviluppò da subito una grande passione per il surf, che continuò a praticare fino ai 50 anni.

La mia religione è il surf.

(John Milius)
L’ultimo fotogramma dei titoli di testa di Un mercoledì da leoni: l’immagine di un giovanissimo Milius surfista

Il film è un nostalgico omaggio del regista alla propria gioventù trascorsa sulle spiagge di Malibu, in California.

Avendo praticato il surf, sono l’unico regista al mondo che avrebbe potuto girare questo film.

(John Milius)

Milius scrisse la sceneggiatura a quattro mani con il giornalista Dennis Aaberg, suo amico e compagno di surf: il soggetto si ispirava a una storia breve pubblicata da Aaberg nel 1974 su una rivista di surf, intitolata No Pants Mance e basata sulle vite della comunità di surfisti comprendente Milius e lo stesso Aaberg negli Anni ’60.

In quegli anni il surf era uno sport totalmente nuovo, con una propria aristocrazia.
Ci volle circa un anno per scrivere la sceneggiatura: essendo due veri surfisti, ci tenevamo che fosse autentica.

(Dennis Aaberg)
Il giornalista Dennis Aaberg

Milius così descrisse il proprio film:
“È un Com’era verde la mia valle a tema surf: la fine di un’aristocrazia e di un’era, il passaggio a un’epoca più corrotta e complessa, la crescita e la perdita dell’innocenza. È basato sulle vite di tre amici dieci anni fa, sulla loro amicizia e sul valore dell’amicizia. Riguarda l’amore per un luogo, l’amore per un tempo, l’amore per i tuoi contatti umani e la perdita di tutto questo. Il surf è solo lo sfondo esotico: sapevamo tutti che era speciale, sapevamo che non sarebbe durato e sapevamo quanto eravamo stati bene. Il surf è strano: molte persone non lo lasciano mai, senti sempre di dovergli qualcosa. È stata un’esperienza centrale nella nostra vita. È il film più personale che potrò mai fare e ho pensato che avrei dovuto farlo ora, prima di andare troppo lontano.”

Proprio come dice il protagonista Matt Johnson in una scena del film:
“Io ho fatto lo sport perché è bello stare con gli amici”

Da sinistra: Leroy, Sally (Patti D’Arbanville), Jack, Peggy (Lee Purcell) e Matt in una scena del film

Un’ondata di curiosità

Gli attori William Katt e Jan-Michael Vincent erano già esperti surfisti, mentre Gary Busey dovette imparare a surfare prima che iniziassero le riprese.

William Katt (a destra) e Jan-Michael Vincent (a sinistra) in una scena di Un mercoledì da leoni

Katt, in particolare, affermò che Un mercoledì da leoni:
“È stato il film più personale in cui ho recitato: ho vissuto quella vita da quando avevo dieci anni.”

In alcune scene, tuttavia, Katt fu sostituito da una controfigura d’eccezione: il surfista australiano Peter Townend, primo campione del mondo di surf professionistico.

Il surfista australiano Peter Townend in Un mercoledì da leoni

Barbara Hale (interprete di Mrs. Barlow, madre di Jack) e William Katt (Jack Barlow) erano madre e figlio anche nella realtà: Hale è conosciuta soprattutto per il ruolo di Della Street, la discreta e indispensabile segretaria tuttofare dell’avvocato Perry Mason nell’omonima serie di telefilm (1957–1966) e film TV (1985–1995), grazie al quale ha raggiunto il successo internazionale e conquistato un Emmy Award come miglior attrice non protagonista in una serie drammatica (1959).

Barbara Hale e William Katt (a sinistra) con Raymond Burr (a destra), il celebre Perry Mason

La narrazione del film è affidata alla voce di un personaggio minore, Fly, un surfista amico dei tre protagonisti interpretato da un giovane Robert Englund, che pochi anni dopo avrebbe ottenuto la consacrazione nel suo ruolo più celebre: il mostruoso serial killer Freddy Krueger nella fortunata saga horror Nightmare.

Robert Englund (in alto a destra in Un mercoledì da leoni, in basso a destra dietro le quinte di Nightmare)

Il surfista hawaiano Gerry Lopez, riconosciuto come il miglior tuberider del mondo, compare nel film nel ruolo di sé stesso e reciterà poi in altri due film di Milius: Conan il barbaro e Addio al re.

Gerry Lopez in Un mercoledì da leoni

Il film è stato girato prevalentemente nel sud della California, presso Surfrider Beach, Gaviota Beach e Cojo Point, mentre per la scena finale è stata utilizzata la Sunset Beach di Pupukea, nelle Isole Hawaii.

La figura di Leroy Spaccatutto (The Masochist nell’originale), interpretato da Gary Busey, è ispirata a un certo Mitch, un eccentrico personaggio appartenente al mondo hippie se possibile ancora più folle della sua trasposizione cinematografica. All’epoca in cui è ambientato il film, questi aveva acquistato grazie a un lascito ereditario numerosi appartamenti in forte stato di degrado nella zona di Venice Beach, i quali col tempo erano aumentati progressivamente di valore, rendendolo miliardario. In seguito si era trasferito nella zona di Santa Cruz, località celebre per le sue altissime onde. Noto per i numerosi stratagemmi volti a evitare il servizio di leva, la sua specialità era fingersi pazzo e fu pertanto costretto a entrare e uscire da strutture psichiatriche per diversi anni.

Il personaggio di Bear, interpretato da Sam Melville, riunisce alcuni celebri costruttori di tavole conosciuti da Milius all’epoca, come Dale Velzy, Hap Jacobs e Bob Bolen.

Leroy Spaccatutto (Gary Busey) e Bear (Sam Melville)

Il protagonista Matt Johnson (interpretato da Jan-Michael Vincent) è ispirato a Lance Carson, il più noto surfista dell’epoca tra i frequentatori delle spiagge di Malibu: famoso per le sue evoluzioni sulle onde medio-piccole, Carson ebbe problemi di alcolismo fin dai 19 anni, dai quali uscì con le proprie forze. Rimasto in ottimi rapporti d’amicizia con Milius, in tempi recenti è divenuto un abile costruttore di tavole da surf.

Lance Carson

Ma se il destino è stato magnanimo con l’uomo che ha ispirato il protagonista del film, non lo è stato affatto con l’attore che lo ha interpretato, Jan-Michael Vincent: Un mercoledì da leoni sarebbe diventato l’inquietante specchio della sua vita.

Grande promessa del cinema negli Anni ’70, Vincent raggiunse l’apice del successo con la serie TV Airwolf (1984-1987), ma la sua carriera non decollò mai a causa dei suoi problemi con alcol e droga che gli costarono due divorzi, numerosi arresti per possesso di cocaina, rissa, aggressione, ubriachezza molesta, guida in stato di ebbrezza e un’ingiunzione restrittiva per violenza domestica. L’attore rimase inoltre coinvolto in diversi incidenti d’auto, che gli provocarono gravi infortuni al collo e danni permanenti alle corde vocali e alle gambe.

Jan-Michael Vincent

In Un mercoledì da leoni, il suo personaggio rifiuta di accettare i cambiamenti imposti dalla vita e dai passaggi d’età annegando le proprie sofferenze nell’alcol e arrivando a provocare un serio incidente.

Della vita reale di Jan-Michael Vincent sappiamo quanto poco sostegno abbia ricevuto in giovane età. Suo nonno e i suoi zii, rapinatori di banche e falsari, finirono tutti arrestati o uccisi, lasciando suo padre solo fin dall’età di 12 anni: arruolatosi nell’esercito, questi divenne ben presto un alcolista. Osservando la rigida disciplina militare cui il padre era sottoposto, Vincent iniziò probabilmente a sviluppare quel disprezzo nei confronti dell’autorità che in seguito avrebbe contribuito a condurlo verso l’autodistruzione.

Jan-Michael Vincent in Un mercoledì da leoni

Backbeat – Tutti hanno bisogno di amore (Iain Softley, 1994)

A maggio, un tweet di Paul McCartney ha rievocato profondi ricordi e suscitato grande commozione tra i più accaniti fan dei Beatles: la rockstar ha commemorato la recente scomparsa della fotografa tedesca Astrid Kirchherr, una donna che ha avuto un ruolo fondamentale nella nascita del mito dei Fab Four.

Astrid Kirchherr (autoritratto a sinistra, con Paul McCartney in alto a destra, con Stuart Sutcliffe in basso a destra)

Astrid Kirchherr conobbe i Beatles ad Amburgo nel 1960 durante il loro primo tour, restando affascinata dalla loro incredibile presenza scenica e dalla qualità della musica. Allieva del celebre fotografo tedesco Reinhart Wolf, scattò le prime fotografie di quel giovanissimo gruppo e ne influenzò profondamente il look e lo stile, contribuendo a trasformarlo in un’icona pop senza precedenti. A lei viene attribuita, in particolare, l’introduzione del taglio dei capelli a caschetto, che sarebbe diventato uno dei simboli della rock band.

I Beatles fotografati da Astrid Kirchherr durante il tour di Amburgo (da sinistra: Pete Best, George Harrison, John Lennon, Paul McCartney, Stuart Sutcliffe)

La sua vita è legata indissolubilmente a quella di Stuart “Stu” Sutcliffe, “il quinto Beatle”, la cui storia è raccontata nel film Backbeat – Tutti hanno bisogno di amore (1994) di Iain Softley.

Backbeat – Tutti hanno bisogno di amore (Iain Softley, 1994)

Il film descrive il “periodo tedesco” dei Beatles, un momento fondamentale per la loro formazione umana e artistica, ponendo l’accento sull’enigmatico bassista Stuart Sutcliffe, sulla sua fraterna amicizia con John Lennon e sulla sua storia d’amore con Astrid Kirchherr, ma anche su aspetti meno noti, come l’assunzione di anfetamine da parte del gruppo per sostenere le estenuanti e interminabili esibizioni e le profonde riflessioni di quegli adolescenti divenuti adulti così in fretta.

A sinistra, George Harrison, Stuart Sutcliffe e John Lennon fotografati da Astrid Kirchherr; a destra, Chris O’Neill, Stephen Dorff e Ian Hart in Backbeat (1994)

Stuart Sutcliffe era un pittore dallo straordinario talento, compagno di John Lennon al Liverpool College of Art e suo grande amico. Eclettico ed erudito, affascinato dall’attore Zbigniew Cybulski (“il James Dean polacco”) volle imitarlo indossando un paio di occhiali neri, acquisendo così una fascinosa aria bohémienne. Lennon e McCartney lo convinsero ad imparare a suonare il basso elettrico per entrare a far parte del loro nuovo gruppo: il nome Beatles pare vada accreditato proprio a Sutcliffe. Avendo poca predisposizione per la musica, trovò molto difficile suonare il basso e, per mascherare l’inadeguatezza tecnica, gli fu suggerito di suonare spalle al pubblico. Nonostante le difficoltà, decise di accompagnare il gruppo nella trasferta di Amburgo.

Stuart “Stu” Sutcliffe

La formazione dei Beatles comprendeva allora John Lennon (voce e chitarra), Paul McCartney (voce e chitarra), George Harrison (chitarra), Pete Best (batteria) e, appunto, Stuart Sutcliffe (basso). Durante le esibizioni, i Beatles vennero a contatto con un gruppo di studenti tedeschi seguaci dell’esistenzialismo, fra cui Astrid Kirchherr. Ben presto, Astrid e Stu si innamorarono e iniziarono una relazione.

Stephen Dorff/Stuart Sutcliffe e Sheryl Lee/Astrid Kirchherr in Backbeat (1994)

La mancanza di talento musicale di Stu portò al progressivo deterioramento dei suoi rapporti artistici e umani con Lennon e con gli altri membri del gruppo fino a indurlo alla decisione di abbandonare i Beatles. Quando il gruppo tornò nel Regno Unito, nel 1961, Stu rimase ad Amburgo per amore di Astrid e per dedicarsi finalmente alla pittura. L’anno dopo morì, a soli 22 anni, per un’emorragia cerebrale causata molto probabilmente da una frattura al cranio che aveva riportato tre anni prima in un pestaggio davanti a un locale. La sua morte giunse proprio mentre i Beatles stavano diventando un fenomeno di massa: pochi mesi dopo, il singolo I Want to Hold Your Hand avrebbe venduto 13 milioni di copie in tutto il mondo.

Backbeat – Tutti hanno bisogno di amore potrebbe essere un film scritto da ragazzi per dei ragazzi: all’inizio può sembrare banale, ma lo sguardo dei protagonisti rivela presto la sua intensa e autentica natura.

Backbeat – Tutti hanno bisogno di amore (Iain Softley, 1994)

Il vero punto di forza del film è proprio Stu: la sua sofferenza interiore, l’indecisione tipica della sua età, la sua ansia creativa alimentata da un grande talento, il suo profondo anticonformismo, superiore anche a quello di una band che avrebbe cambiato per sempre la storia della musica. Il tema principale del film è l’imprevedibilità: la fama, che quasi dal nulla fa esplodere uno dei tanti gruppi che si esibivano a quell’epoca; l’amore, che nasce dall’incontro di due personalità tanto affini quanto distanti; la morte, che sopravviene ingiusta e inaspettata quando ogni tassello sembra aver trovato la propria collocazione.

La somiglianza tra attori e personaggi reali è davvero impressionante. L’interpretazione di Stu da parte di Stephen Dorff ha sbalordito lo stesso Paul McCartney, che ha elogiato pubblicamente l’attore. Gary Bakewell avrebbe interpretato nuovamente Paul McCartney nel film TV The Linda McCartney Story (2000), mentre Ian Hart (celebre per il ruolo del professor Raptor in Harry Potter e la pietra filosofale) aveva già impersonato John Lennon in The Hours and Times (1991).

Ian Hart in Harry Potter e la pietra filosofale (2001) e insieme a Stephen Dorff in Backbeat (1994)

Una curiosità: Nowhere Boy, diretto da Sam Taylor-Johnson nel 2009, racconterà l’adolescenza di John Lennon e la nascita dei Fab Four fino alla partenza per il tour di Amburgo, concludendosi proprio dov’era iniziato Backbeat – Tutti hanno bisogno di amore (1994); i due film, nonostante idee e stili molto diversi tra loro, guardati uno dopo l’altro riescono a fornire una descrizione molto realistica delle origini dei Beatles.

Il maledetto United (Tom Hooper, 2009)

La recente promozione del Leeds United in Premier League (la Serie A di calcio inglese) è stata per tifosi e addetti ai lavori la fine di una maledizione: i Whites erano infatti da ben 16 anni nel purgatorio delle serie inferiori dopo la grave crisi societaria dei primi Anni 2000.

Non sono molti i film degni di nota che parlano di calcio, nella storia del cinema: una delle eccezioni più significative è legata proprio ad una “maledizione”: Il maledetto United (Tom Hooper, 2009), tratto dall’omonimo romanzo di David Peace.

Il-maledetto-united
Michael Sheen/Brian Clough ne Il maledetto United

È la storia di Brian Clough, “il più grande allenatore che l’Inghilterra non ha mai avuto”, e dei suoi disastrosi 44 giorni come allenatore del Leeds United. Una squadra che, guidata dal sanguigno Don Revie, stava vivendo la sua epoca d’oro nel decennio tra il 1965 e il 1974, vincendo ogni sorta di trofeo nazionale e facendosi conoscere anche in Europa, consacrandosi come una delle realtà più blasonate d’Inghilterra.

Billy-Bremner-and-Leeds-Manager-Don-Revie_1256693
Revie con il capitano Billy Bremner

Quando nel 1974 Don Revie fu chiamato ad allenare la nazionale inglese, la scelta della società ricadde sull’acerrimo rivale Brian Clough, che in soli due anni era stato capace di condurre la sua piccola squadra, il Derby County, dalla Second Division (la Serie B inglese di allora) alla vittoria del massimo campionato proprio contro il Leeds.

clough
Clough al Derby County

Ma chi era Brian Clough? Un genio, un innovatore.

I suoi metodi e le sue idee sconvolsero il rigido e tradizionalista sistema del calcio britannico su tutti i fronti, dal gioco alla comunicazione, dall’atteggiamento in campo al coinvolgimento dei tifosi. In un contesto dominato da vigore fisico, aggressività, irruenza e scarso fair-play, in cui la tattica e la tecnica contavano poco, Clough predicava un gioco pulito, lasciando spazio alla fantasia e all’entusiasmo. Anche dal punto di vista mediatico Clough era unico nel suo genere: descritto da molti come scostante, permaloso e arrogante, in pubblico si mostrava sfrontato, sicuro di sé e usava un linguaggio diretto e senza giri di parole che arrivava subito al cuore della gente.

damned_united_interview
Michael Sheen/Brian Clough ne Il maledetto United

Come poteva un personaggio del genere sostituire un allenatore all’antica venerato da una squadra famigerata per la scorrettezza in campo, gli interventi duri e gli atteggiamenti al limite dell’intimidazione?
Molti pensarono che Clough avesse accettato la panchina con la precisa intenzione di distruggere il Leeds United. I giocatori lo accusarono di nutrire un odio pregresso nei confronti della loro squadra e che stesse addirittura cercando di farla retrocedere, con allenamenti mediocri e un atteggiamento superficiale.
Dopo 44 giorni di insuccessi, Brian Clough fu esonerato.

gfz453
Clough al Leeds, realtà contro finzione

Il presunto odio di Clough per il Leeds United avrebbe avuto inizio nel 1968 durante un match di FA Cup (Coppa d’Inghilterra) tra i Whites, in testa al massimo campionato, e il suo Derby County, in bassa classifica nella serie minore. L’usanza tra allenatori voleva che l’ospite salutasse il padrone di casa. Don Revie non solo non avrebbe stretto la mano a Clough, ma non l’avrebbe nemmeno riconosciuto tra i presenti: l’atteggiamento fu visto come un’inaccettabile mancanza di rispetto tra colleghi.

Subito dopo la “sfortunata” parentesi al Leeds, Clough si trasferì al Nottingham Forest, dove restò per 18 anni vincendo 1 Campionato, 4 Coppe di Lega, 1 Community Shield, 2 Full Members Cup, 1 Supercoppa Europea e, soprattutto, 2 Coppe dei Campioni consecutive, rendendo il Nottingham Forest l’unica squadra della storia ad aver vinto più Coppe dei Campioni che titoli nazionali.

Brian-Clough_Rex_2174070b
Clough campione d’Europa con il Nottingham Forest

In un calcio così legato alla tradizione come quello inglese, Brian Clough introdusse delle assolute novità e riuscì a imporle con risultati considerati ancora oggi un “miracolo sportivo“.

Il focus del film è sull’uomo, sull’allenatore e sulla sua idea di calcio: sarebbe stato bello anche approfondire i dettagli del suo gioco, così diverso da tutti gli altri a quel tempo, e in cosa le sue squadre erano davvero speciali. Ma forse scendere troppo nel tecnico lo avrebbe reso ancor di più un film di nicchia per appassionati di calcio.

La figura di Clough, interpretato da un magnifico Michael Sheen, è rappresentata in maniera realistica e convincente, rendendo il biopic molto coinvolgente anche per i profani.

sheen-the-damned-united_6rN2We8
Michael Sheen/Brian Clough

Il calcio inglese è ricco di storie affascinanti: ho scoperto che Storie di Premier le racconta davvero bene.

Non, je ne regrette rien (Édith Piaf)

Non, je ne regrette rien (“No, non rimpiango niente”) è una canzone del 1956 composta da Charles Dumont con parole di Michel Vaucaire e resa immortale dall’indimenticabile interpretazione di Édith Piaf.

La canzone può essere considerata l’emblema della tragica vita della cantautrice francese: dopo i gravi problemi di salute, la Piaf promise al mondo di ricominciare da capo senza più guardare al drammatico passato, ma scomparve prematuramente solo tre anni dopo.

La melodia nostalgica e romantica e il testo così denso di significato, esaltati dalla straordinaria voce di Édith Piaf, hanno reso Non, je ne regrette rien una delle pietre miliari della musica del secolo scorso, che proprio non poteva passare inosservata nel mondo del cinema.

Il brano è parte integrante delle colonne sonore di due film: La Vie en Rose (2007) di Olivier Dahan e Inception (2010) di Christopher Nolan.

dsBuffer.bmp
La Vie en Rose (2007) e Inception (2010)

La Vie en Rose è un film biografico su Édith Piaf, interpretata da una magistrale Marion Cotillard, premiata con l’Oscar come miglior attrice protagonista. La canzone assume il ruolo di un personaggio, con una presenza quasi fisica: è l’ultima tappa nella drammatica vita di una stella del firmamento musicale. Una vita costellata di tragedie e sofferenza da cui è scaturita una musica unica per bellezza, intensità e partecipazione emotiva. Citando il Morandini: “un destino che, se riletto alla luce di un testo come Non, je ne regrette rien diventa un inno tragico alla vita in ogni sua epoca” (C. Pardi Vasic). La canzone, atto conclusivo della vita di Édith Piaf, è presente nei titoli di coda, chiudendo simbolicamente il film.

la mome
Marion Cotillard/Édith Piaf ne La Vie en Rose (2007)

Inception è uno dei capolavori del regista Christopher Nolan, oltre che uno dei migliori film del decennio: un thriller fantascientifico che spiazza grazie allo sconvolgente mix di azione e ingegnosità, scandito da un ritmo che lascia senza fiato e sorretto dalla magnifica interpretazione corale di un cast eccezionale (Leonardo DiCaprio, Joseph Gordon-Levitt, Tom Hardy, Ellen Page, Ken Watanabe, Marion Cotillard, Tom Berenger, Michael Caine, Cillian Murphy, Pete Postlethwaite).

74e0a6a000f2c5f193194f7d0be7c827
Il cast di Inception (2010): Tom Hardy, Ken Watanabe, Ellen Page, Leonardo DiCaprio, Tom Berenger, Marion Cotillard, Joseph Gordon-Levitt, Cillian Murphy

Cobb (DiCaprio) è un esperto di “estrazione”: un apparecchio a orologeria consente a un gruppo di persone di partecipare a un “sogno condiviso” per penetrare nelle menti di dormienti e rubarne i segreti attraverso i loro sogni e ricordi. In un’operazione di spionaggio industriale, Cobb e la sua squadra hanno una missione ancora più ardua: innestare un’idea nella mente del giovane erede di un potente imprenditore ormai prossimo alla morte.

Inception_2
Leonardo DiCaprio in Inception (2010)

La canzone Non, je ne regrette rien ricopre un ruolo fondamentale: viene utilizzata dai protagonisti come segnale di imminente risveglio durante il sogno a cui stanno partecipando. Recuperato da una registrazione risultato di diverse copie dall’originale, con un suono antico e sporcato dai vari passaggi, il brano rappresenta il perfetto collegamento tra realtà e sogno, una nota di romanticismo senza tempo né età.

L’attrice francese Marion Cotillard recita in entrambi i film: chissà se sarà così legata alla canzone anche nella vita reale…

484959_10200138038600336_2020838760_n
Marion Cotillard

Dai Golden Turkey Awards a Tim Burton

Golden Turkey Awards (The Worst Achievements in Hollywood History) è un libro scritto nel 1980 dai fratelli Michael e Harry Medved.
Grandi appassionati di B-movie, i Medved decisero di creare un premio fittizio denominato Golden Turkey sulla falsariga del Premio Oscar, da assegnare ai peggiori film ed attori. A tale scopo, scrissero un saggio elencando quale fosse, secondo loro, il peggio del peggio di Hollywood: nel libro sono presenti liste di vari “riconoscimenti” a film, registi, attori, ecc. ritenuti i peggiori della storia del cinema.
_____

Golden Turkey Awards
Golden Turkey Awards (The Worst Achievements in Hollywood History), Michael e Harry Medved

Nella prefazione del libro, gli autori dichiarano che le loro scelte possono non essere condivise da tutti, e che, esistendo “un numero enorme di brutti film, pessimi registi ed attori tremendi”, le liste sono soggette a continui aggiornamenti. Essendo gli autori anglofoni, la lista è molto sbilanciata sul cinema americano, tralasciando quello europeo e di altri Paesi.
_____
Alcuni vincitori del Golden Turkey sono davvero singolari, come ad esempio il peggior credito nei titoli assegnato alla versione del 1929 de La bisbetica domata di William Shakespeare, dove appare la dicitura “with additional dialogue by Sam Taylor” (“dialoghi supplementari aggiunti da Sam Taylor”, come se Shakespeare avesse bisogno di “dialoghi supplementari”…).
_____

La bisbetica domata (1929)
La bisbetica domata (Sam Taylor, 1929)

Il riconoscimento più controverso, al limite del paradossale, è senza dubbio il Golden Turkey come peggior attore a Richard Burton, attore shakespeariano più volte candidato all’Oscar e considerato tra i più grandi attori della storia del cinema. L’assegnazione del premio, tuttavia, è stata motivata quasi esclusivamente dalle discutibili scelte dei ruoli cinematografici interpretati in carriera e dalla partecipazione ad un elevato numero di film ritenuti scadenti.
_____

Richard Burton
Richard Burton

In ogni caso, come per gli Oscar, a destare maggiore curiosità sono inevitabilmente i premi per il peggior film e il peggior regista.
Le due categorie risaltano ancor di più in quanto intimamente collegate: il peggior film, Plan 9 from Outer Space, è stato diretto dal peggior regista, Edward D. Wood Jr.
_____
Plan 9 from Outer Space è un horror fantascientifico del 1959, ignorato dalla critica fino alla morte del regista Edward D. Wood Jr. nel 1978, quando tornò in auge proprio con la definizione di “peggior film di tutti i tempi”. Ciò ha contribuito a renderlo un film di culto, in cui a risaltare sono soprattutto gli effetti speciali, considerati ridicoli anche per l’epoca: modellini di astronavi sorretti da fili visibili, sfondi finti su cui gli attori proiettano le proprie ombre, e così via. Secondo il Morandini, questo “non gli impedisce di essere assai divertente, almeno per chi sa apprezzarne lo spudorato dilettantismo, le strampalate scenografie, i dialoghi tremendi, l’assurda logica narrativa”.
_____

Plan 9 from outer space_1
Plan 9 from Outer Space (1959)

Edward D. Wood Jr. è stato un uomo di cinema: regista, sceneggiatore, produttore cinematografico, attore, montatore. Emarginato dal mainstream hollywoodiano sia per l’etichetta di “diverso” e “bizzarro” (era un crossdresser con un feticismo per i golfini d’angora da donna), sia per le proprie idee eccentriche, ha avuto a disposizione sempre e solo budget irrisori e tempi di realizzazione ridicoli. La costante mancanza di mezzi, a cui faceva da contraltare solo la grande passione per il cinema, ha inesorabilmente influenzato la sua intera produzione cinematografica: tutti i suoi film sono caratterizzati da una trama estremamente approssimativa e da un’irrealistica rapidità nel girare le scene. Quasi sempre erano sufficienti pochi giorni e singoli ciak per il completamento di un film.
_____

Edward D. Wood Jr.
Edward D. Wood Jr.

A rendere leggendario il nome di Edward D. Wood Jr. ha contribuito il suo più celebre collega Tim Burton, che gli ha reso omaggio con il film biografico Ed Wood (1994), il cui cast comprende un intenso Johnny Depp ed uno straordinario Martin Landau, premiato con l’Oscar.
_____

Depp Landau
Johnny Depp e Martin Landau in Ed Wood (1994)

Burton, da sempre fan di Wood, ebbe modo di leggere alcune sue lettere e fu colpito dalla considerazione che egli aveva dei propri film, come se fossero dei capolavori assoluti, mentre i suoi contemporanei li reputavano i peggiori film di sempre.
_____

Glen or Glenda_Bride of the monster
Glen or Glenda (1953) e La sposa del mostro (1955)

A riprova del grande rispetto di Burton per Wood, il biopic è intriso di ammirazione (in modo partecipato ed esagerato, a detta dello stesso regista), più che finalizzato alla derisione del lavoro del protagonista. Burton riconobbe infatti di aver probabilmente rappresentato Wood ed il suo staff con troppa indulgenza, affermando di “non voler ridicolizzare persone che sono già state ridicolizzate per un considerevole periodo della loro vita”. Il regista ha inoltre affermato che, nel film Edward mani di forbice (1990), il protagonista si chiama Edward in onore di Wood.
_____

053
Edward mani di forbice (1990)

Uno dei punti focali nella vita di Edward D. Wood Jr., così come nel film Ed Wood, è la sua profonda amicizia con Bela Lugosi, attore ungherese sulla via del declino ed un tempo indiscussa star di Hollywood, per il quale Wood aveva una sconfinata ammirazione.
_____

Wood-Lugosi_Depp-Landau
Wood e Lugosi sul set di Glen or Glenda, Depp e Landau in Ed Wood

Il rapporto tra Ed Wood e Bela Lugosi ne ricorda molto un altro: quello tra il regista Tim Burton e il suo idolo di sempre, l’attore Vincent Price. In un’intervista, Burton disse: “incontrare Vincent ebbe un impatto incredibile per me, lo stesso impatto che deve aver avuto su Ed incontrare il suo idolo e lavorare con lui”.
_____

360-Vincent-Price
Tim Burton e Vincent Price

A Vincent Price, eccellente attore dall’aspetto aristocratico, icona del cinema horror degli Anni ’50 e ’60, Tim Burton ha dedicato il film Edward mani di forbice, in cui Price recita per l’ultima volta.
_____

Vincent Price
Vincent Price (in primo piano e insieme a Tim Burton e Johnny Depp sul set di Edward mani di forbice)

The Doors (Oliver Stone, 1991)

Un film di canzoni, ogni canzone un film.
La storia di un gruppo rock, The Doors, e del suo leader, Jim Morrison.
Lo spaccato di un’epoca, di un contesto umano, sociale e artistico irripetibile di cui la loro musica si fa voce e cuore pulsante.
_
“The Doors” è un’opera biografica che ha il merito di sfumare le inevitabili differenze tra la trama di un film e gli eventi realmente accaduti, fin quasi ad annullarne l’orizzonte. Le riflessioni e i commenti sul film, le parole da spendere, diventano tutt’uno con le considerazioni sui Doors, su Morrison, su quella musica, su quegli anni.
_

The Doors (Oliver Stone, 1991)
The Doors (Oliver Stone, 1991)

La prima parte del film vede Jim Morrison alla ricerca di se stesso, sopraffatto dal bisogno di conoscere nel profondo la propria anima e di comprendere davvero quale sia la più pura espressione del proprio talento, della propria creatività e del proprio pensiero, a partire dal fallimentare approccio con il mondo del cinema e con la macchina da presa e dalla frenetica produzione di poesie. Da qui, il fatale incontro col tastierista Ray Manzarek, l’idea di mettere in musica quelle parole, la nascita del gruppo insieme al chitarrista Robby Krieger e al batterista John Densmore. Quindi gli amori di Morrison, primo fra tutti la sua compagna Pamela Courson (interpretata da Meg Ryan), forse il personaggio meno credibile e più decontestualizzato del film: una figura un po’ troppo costruita, che viene percepita dallo spettatore quasi come un corpo estraneo e presentata in certi momenti alla stregua di una donna-oggetto, di cui vengono lasciati colpevolmente in secondo piano sia l’effettivo contributo come musa ispiratrice del cantante/poeta sia l’iconico ruolo di “groupie”, autentico emblema degli anni della contestazione giovanile.
_
Il film si snoda parallelamente tra i concerti del gruppo e la vita privata dei personaggi, ambiti in cui man mano emergono tutte le inquietudini, le esagerazioni e i comportamenti sopra le righe di Morrison, che contribuiscono a portare i Doors prima all’apice del successo e poi ad un rapido declino, fino all’evento che li fa entrare nella leggenda: la morte del loro leader, ancora oggi avvolta nel mistero.
_
L’ultima scena vale da sola la visione del film: esprime tutta l’emozione del regista Oliver Stone nel cercare di far comprendere a tutti ciò che Jim Morrison ha rappresentato per la sua generazione. Una città straniera (Parigi), un cimitero che trasuda arte e intelletto (Père-Lachaise), le tombe di grandi personaggi del passato. Maestose, sì, ma tristi e cupe. E poi, all’improvviso, la sua: un’esplosione di colori, di scritte, di fiori, di oggetti lasciati in dono a un uomo che tanto ha dato a chi ha ascoltato e ancora ascolta la sua musica, e non solo.
_
Le interpretazioni di gran parte degli attori (Kilmer/Morrison e MacLachlan/Manzarek su tutti), la colonna sonora traboccante di canzoni del gruppo (“Light my fire“, “Riders on the storm” e “The End” le pietre miliari), la scelta registica di unire l’atmosfera di un’avventura “on the road” ai generi canonici per questo tipo di film (biografico, musicale) consentono alla trasposizione di fondersi con la realtà e allo spettatore di entrare immediatamente dal vivo nella storia.
_
È una storia che poggia le basi su due temi fondamentali e ricorrenti: la musica e il viaggio. Da essi ne nasce un altro, che pian piano diventa dominante: vivere tanto appieno la vita da desiderare di superarne i confini.
_

The Doors (Oliver Stone, 1991)
The Doors (Oliver Stone, 1991)

Il film è un viaggio nell’autodistruzione, un incessante inseguimento della morte fin quasi a toccarla per riempire di significato l’esistenza, per apprezzarne davvero ogni attimo. Ma è anche un viaggio di vita, di creazione, come se ogni nuova canzone fosse un respiro profondo o un sorso d’acqua e insieme un altro passo verso la libertà, verso l’infinito.
_
Amare la vita esasperandone la visione olistica e usare la musica per tentare di descrivere questo amore: il più forte e umano dei sentimenti diventa una divinità da venerare e a cui consacrarsi, un ideale a cui sacrificare anche la propria esistenza. Ed è qui che vita e morte iniziano il loro connubio, presente e continuo per tutto il film.
_
Attraverso il fascino selvaggio che esercita su Morrison, la morte stessa diventa un personaggio del film: è un’amica, una compagna fedele che dà speranza e serenità, è la promessa della fine delle sofferenze di un animo tormentato ma al tempo stesso è la porta per un nuovo mondo, in cui regnano pace, armonia e amore.
_

The Doors
The Doors

Una porta, il simbolo alla base di tutto, a partire dal nome del gruppo: “The Doors”.
“If the doors of perception were cleansed, everything would appear to man as it is: infinite.” – “Se le porte della percezione fossero purificate, ogni cosa apparirebbe all’uomo com’è: infinita.” Così recita la frase di William Blake riportata nel libro “The Doors of Perception” di Aldous Huxley, che ha ispirato la scelta del nome del gruppo.
_
E cosa c’è di più potente ed efficace della droga per eludere i sensi, il raziocinio, la lucidità? Forse nulla.
Droga per raggiungere e mantenere quello stato di incoscienza pura e primitiva, all’interno del quale l’anima stessa sembra essere diretta creatrice di tutto ciò che è arte. E tra le droghe, la più importante è anche la più inaspettata: la musica. È la musica la vera porta verso l’infinito, il vero mezzo per andare oltre la percezione sensoriale umana. È la musica, ispirata dalla poesia di quei testi, così profondi e spiazzanti, così fuori dall’usuale, quasi mistici, emblematici di quanta infinita disperazione possa celarsi nell’animo umano e di quanta immensa gioia possa risiedervi allo stesso tempo: su questo paradosso si è basata l’intera, breve e intensa esistenza di Jim Morrison.
_

Jim Morrison/Val Kilmer
Jim Morrison/Val Kilmer