“Top Gun”: una saga da record

36 anni di attesa per uno dei sequel più annunciati di sempre: il 2022 è stato finalmente l’anno di Top Gun: Maverick, con Tom Cruise di nuovo nel ruolo del pilota Pete Maverick Mitchell, che aveva lanciato la sua carriera in Top Gun (1986). Uno dei periodi di tempo più lunghi tra un film e il suo sequel, che per di più procede sulla stessa trama dell’originale seguendo gli eventi della vita reale.

La sceneggiatura di un seguito era stata già scritta subito dopo il trionfo del primo film, ma il divieto del Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti di mostrare le più recenti innovazioni nella tecnologia militare impedì la realizzazione del progetto. Nonostante le proposte ricorrenti nei decenni e la strada per il successo praticamente spianata dall’hype sempre più pressante, la produzione di Top Gun: Maverick si è rivelata piuttosto travagliata.

Tom Cruise in Top Gun: Maverick

La Paramount Pictures aveva annunciato un sequel di Top Gun già nel 2010: Tom Cruise e Val Kilmer erano stati contattati per tornare nei rispettivi ruoli, così come il produttore Jerry Bruckheimer e il regista Tony Scott. Una bozza della sceneggiatura era già pronta nel 2012, ma il 19 agosto dello stesso anno Scott si suicidò gettandosi dal Vincent Thomas Bridge di Los Angeles e il progetto venne di nuovo accantonato.

Nel 2017 fu ingaggiato il regista Joseph Kosinski, che scrisse la sceneggiatura definitiva di Top Gun: Maverick. Kosinski aveva già lavorato con Tom Cruise in Oblivion (2013) e non era nuovo a sequel realizzati decenni dopo gli originali, avendo diretto Tron: Legacy (2010), uscito 28 anni dopo Tron (1982), capostipite della saga.

Kosinski sul set di Oblivion

E chissà che rilevanza avrebbe avuto il Tom Iceman Kazansky di Val Kilmer nel progetto originale, ridotto a un cameo nella versione finale, seppur significativo e commovente. Nel 2017 emerse infatti che Kilmer aveva sconfitto dopo due anni un cancro alla gola, sottoponendosi a due tracheotomie che avevano danneggiato le sue corde vocali al punto da non permettergli più di parlare se non per mezzo di un dispositivo elettronico. Nel 2021 la voce di Kilmer venne ricreata da registrazioni d’archivio grazie all’intelligenza artificiale, che consentì di riprodurla in Top Gun: Maverick. E pensare che Kilmer aveva recitato nel primo Top Gun solo perché costretto da obblighi contrattuali, in quello che si sarebbe rivelato uno dei ruoli più iconici della sua carriera…

Val Kilmer e Tom Cruise in Top Gun: Maverick

Capitoli a confronto

In entrambe le pellicole della saga i migliori piloti della Marina Militare statunitense vengono addestrati nella scuola di combattimento Top Gun ma, nonostante i numerosi riferimenti del sequel al suo predecessore, i due film differiscono in modo sostanziale già nella struttura e nell’impronta dei due diversi registi.

Top Gun (1986) è l’esaltazione della sfida per il primato, come la lotta per diventare il maschio dominante in un gruppo: l’azione si basa sugli allenamenti più che su reali imprese belliche, ma il ritmo è mantenuto sapientemente elevato come se i combattimenti aerei (dogfight) fossero vere battaglie per la vita o la morte, grazie anche all’acceso dualismo tra i piloti di punta Maverick (Tom Cruise) e Iceman (Val Kilmer).

Maverick e Iceman in Top Gun

Cercare di dimostrare a ogni costo di essere il miglior pilota ha però un prezzo altissimo e la morte del compagno Goose (Anthony Edwards) segnerà profondamente Maverick, che vivrà per sempre sommerso dai sensi di colpa. Come dichiarato dallo stesso Tom Cruise, Top Gun si discosta dal classico action movie per concentrarsi sul profilo psicologico del protagonista, spaziando nel genere drammatico. In diversi momenti il focus del film si sposta dall’azione alla riflessione, rievocando i fantasmi di Maverick: dalla perdita del padre a quella di Goose, all’incessante bisogno di superare limiti, di infrangere regole, di vivere di solo istinto nell’adrenalina di giocare costantemente con la morte.

Maverick e Goose in Top Gun

Top Gun: Maverick (2022) segue invece più da vicino i canoni del film d’azione. Maverick, ormai divenuto una scomoda leggenda a fine carriera, torna da istruttore alla Top Gun per addestrare dei piloti a una missione quasi suicida: tra questi Rooster (Miles Teller), il figlio di Goose.

Pur mantenendo lo schema del predecessore nelle esercitazioni della parte iniziale, il film è incentrato sull’impresa finale, sulla crescita dei singoli e sulla forza del gruppo. Il turbolento rapporto tra Maverick e Rooster potrebbe sembrare solo un altro modo di rivangare il passato e riallacciarsi al primo film, ma in realtà è il presupposto essenziale per evidenziare l’evoluzione di entrambi i personaggi: i progressi di Rooster nell’acquisire temperamento e sicurezza, la capacità di Maverick di dare fiducia al di là dei tormenti personali.

Rooster (Miles Teller) in Top Gun: Maverick

Come nella maggior parte delle recenti produzioni hollywoodiane, elemento imprescindibile è diventata l’inclusività, spesso forzata al punto da sembrare più una strategia di marketing che la naturale evoluzione nella realizzazione di un film. Considerando che Top Gun: Maverick è il sequel di un film manifesto del machismo patinato di cui inevitabilmente mantiene l’impronta, in questo caso la scelta di introdurre piloti di diverse etnie, tra cui due donne, più che comprensibile è sembrata doverosa.

Phoenix (Monica Barbaro) in Top Gun: Maverick

Non è mai facile per un sequel ripercorrere le orme del predecessore, specialmente di un blockbuster di fama mondiale, ma Top Gun: Maverick ne sfrutta il clamore mediatico senza esserne sommerso, riuscendo a tracciare in autonomia la propria strada.

Entrambi i film fanno parte di una categoria inevitabilmente ritenuta commerciale e spesso snobbata dalla critica, ma la regia di mestiere, l’adeguato mix di azione e introspezione, il ritmo frenetico e la convincente definizione dei personaggi rendono a tutti gli effetti Top Gun una delle saghe più coinvolgenti degli ultimi anni.

Tom Cruise in Top Gun: Maverick

Curiosità sui due film

Top Gun: Maverick è stato presentato nella selezione ufficiale del Festival di Cannes, durante il quale Tom Cruise ha ricevuto a sorpresa la Palma d’oro onoraria.

Tom Cruise premiato a Cannes

Entrambi i capitoli della saga hanno riscosso grandissimo successo al botteghino: Top Gun: Maverick ha già guadagnato oltre 1 miliardo di dollari in tutto il mondo, diventando la pellicola di maggior incasso del 2022 e dell’intera carriera di Tom Cruise (la prima a raggiungere simili cifre), superando proprio il primo Top Gun (già film di maggior incasso del 1986, arrivato a guadagnare 357 milioni di dollari in tutto il mondo).

Tom Cruise in Top Gun

Tom Cruise si dichiarò disponibile a recitare in Top Gun: Maverick a condizione che fossero usati veri velivoli per le riprese aeree e che fosse ridotto al minimo l’utilizzo dei consueti effetti speciali basati su green screen (mediante il quale si può sostituire il colore di uno sfondo con qualsiasi altra immagine) o CGI (Computer-Generated Imagery): perfino i primi piani nella cabina di pilotaggio sono stati realizzati durante reali sequenze di volo e ciò ha costretto gran parte del cast a sottoporsi a lunghe sessioni di allenamento.

Prima di Top Gun (1986), Tom Cruise non aveva mai guidato nemmeno una motocicletta (imparò nel parcheggio della House of Motorcycles a El Cajon, in California): ora, a 60 anni (compiuti oggi), non usa praticamente mai gli stuntman ed esegue da solo anche le scene più estreme.

Tom Cruise in Top Gun

In Top Gun (1986), l’unico attore a non vomitare durante le riprese negli aerei da combattimento fu Anthony Edwards (Goose), il cui personaggio è l’unico a morire.

Anthony Edwards (Goose) in Top Gun

Miles Teller scelse il nome di battaglia Rooster (Gallo) per il proprio personaggio perché apparteneva alla stessa famiglia di quello di suo padre nel primo film, Goose (Oca). Top Gun: Maverick potrebbe aver risollevato la sua carriera, che dopo lo strepitoso successo di Whiplash (2014) sembrava essere già in forte declino, complici ruoli sbagliati e dichiarazioni pubbliche sopra le righe: Teller era infatti reduce da una serie di flop commerciali e di critica e da alcune spiacevoli interviste, in cui si era mostrato come una persona sgradevole e volgare, che avevano fatto crollare la sua popolarità.

Miles Teller in Top Gun: Maverick

La convincente interpretazione e l’incredibile trasformazione fisica per il Rooster di Top Gun: Maverick hanno sorpreso perfino alcuni colleghi: la somiglianza per nulla scontata con Anthony Edwards, suo padre in Top Gun, viene ricreata in modo impressionante nella scena in cui Teller suona al piano e canta Great Balls of Fire di Jerry Lee Lewis, come Edwards nel primo film. Una scena che in Top Gun non era nemmeno prevista: fu il regista Tony Scott ad aggiungerla all’ultimo perché stava ascoltando la canzone quella mattina…

Miles Teller in Top Gun: Maverick

Il personaggio interpretato da Jennifer Connelly in Top Gun: Maverick, Penny Benjamin, non compare nel primo Top Gun, ma viene menzionata più volte come una ragazza (la figlia dell’ammiraglio) con cui Maverick ha avuto una storia e su cui ha effettuato uno dei suoi vietatissimi voli radenti alle torri di controllo. In Top Gun (1986) viene anche riferito che Penny ha 16 anni, quindi in Top Gun: Maverick (2022) dovrebbe averne più o meno 51: Jennifer Connelly ha esattamente 51 anni.

Il titolo della celebre serie di videogiochi motoristici Need for Speed è tratto dalla frase “I feel the need… the need for speed!” detta da Maverick a Goose in una scena di Top Gun (1986), andata persa nel doppiaggio italiano e sostituita con: “Ma noi saremo sempre i più forti!”.

Tom Cruise e Jennifer Connelly in Top Gun: Maverick

La partita di beach football in Top Gun: Maverick è un dichiarato omaggio alla famosissima partita di beach volley di Top Gun, diventata una delle scene più iconiche del film, alla quale il regista Tony Scott aveva inaspettatamente dedicato un’intera giornata di riprese, rischiando di essere licenziato.

Beach football in Top Gun: Maverick

La tensione tra Maverick e Iceman nel primo Top Gun non fu solo recitazione: per restare nei personaggi, Tom Cruise e Val Kilmer si tennero a distanza per l’intera durata delle riprese e non socializzarono mai. Tom Cruise e Anthony Edwards alloggiarono addirittura in una struttura diversa da quella di tutti gli altri attori interpreti dei piloti, per restare separati dal gruppo. Negli anni, comunque, come dichiarato più volte da entrambi, i due sono diventati grandi amici e la serenità del loro attuale rapporto ha senza dubbio contribuito a rendere ancora più emozionanti le scene condivise in Top Gun: Maverick.

Kilmer e Cruise in Top Gun

Anche le riprese del primo film furono funestate da un tragico episodio, e se Top Gun: Maverick è stato dedicato alla memoria del regista Tony Scott, Top Gun fu dedicato ad Art Scholl, famoso pilota acrobatico e stuntman morto il 16 settembre 1985 precipitando nell’Oceano Pacifico al largo della costa meridionale della California nel tentativo di filmare un avvitamento piatto dal suo velivolo: né il corpo né l’aereo vennero mai ritrovati.

Un contributo essenziale al successo mondiale di Top Gun (1986) fu dato dalla strepitosa colonna sonora, comprendente canzoni divenute immortali come Danger Zone di Kenny Loggins e soprattutto Take My Breath Away, scritta da Tom Whitlock e prodotta da Giorgio Moroder per i Berlin, vincitrice dell’Oscar e del Golden Globe per la miglior canzone originale.

BerlinTake My Breath Away

Si trattò della terza statuetta per l’italiano Giorgio Moroder, uno dei musicisti più innovativi e influenti nell’ambito della musica elettronica e della disco music, già premiato nel 1979 per la miglior colonna sonora di Fuga di mezzanotte e nel 1984 ancora per la miglior canzone originale con Flashdance… What a Feeling.

Giorgio Moroder

Per i Berlin, gruppo musicale new wave statunitense, Take My Breath Away rappresentò allo stesso tempo il culmine della fama e l’inizio della fine: la band si sciolse infatti già nel 1987 per divergenze tra la front woman Terri Nunn e il fondatore del gruppo John Crawford, risentito del fatto che i Berlin avessero raggiunto il successo grazie a una canzone che non avevano scritto loro, non avevano mai sentito e non c’entrava niente con loro.

Berlin

U-Boot 96 (Wolfgang Petersen, 1981)

Eine Reise ans Ende des Verstandes”
“Un viaggio ai limiti della mente umana”

(Tagline del film)

U-Boot 96 (Das Boot) è un film di guerra tedesco del 1981 scritto e diretto da Wolfgang Petersen e interpretato da Jürgen Prochnow, Herbert Grönemeyer e Klaus Wennemann.

La pellicola è incentrata sull’U-96, un sommergibile della Marina militare tedesca (Kriegsmarine) in servizio durante la Seconda Guerra Mondiale (U-Boot è l’abbreviazione di Unterseeboot, letteralmente battello sottomarino) ed è tratta dall’omonimo romanzo di Lothar-Günther Buchheim Das Boot, pubblicato nel 1973 ed edito in Italia come U-Boot.

L’U-96 in una scena del film

La narrazione è immaginaria, ma si basa su episodi realmente accaduti al vero U-96: Buchheim, autore del romanzo, era salito a bordo del sommergibile nel 1941 come corrispondente di guerra per fotografare e descrivere un U-Boot in azione per scopi di propaganda; Heinrich Lehmann-Willenbrock, comandante dell’U-96 e sesto comandante tedesco per tonnellaggio nemico affondato (179125 tonnellate) nella Battaglia dell’Atlantico contro gli Alleati, fece da consulente alla regia insieme a Hans-Joachim Krug, comandante in seconda dell’U-219.

Il vero U-96 e il comandante Lehmann-Willenbrock

Nell’ottobre 1941, il tenente Werner si imbarca a La Rochelle come corrispondente di guerra a bordo del sommergibile tedesco U-96, in procinto di salpare per l’Atlantico a caccia di navi nemiche. L’U-96 ha come ufficiali più alti in grado l’autorevole comandante, soprannominato Der Alte (Il vecchio), e il valente direttore di macchina.

Werner entra rapidamente a contatto con le dure condizioni di vita all’interno del sommergibile, segnate da snervanti attese, sporcizia e promiscuità, che minano costantemente il morale dell’equipaggio.

Il comandante e il tenente Werner in una scena del film

Dopo giorni di navigazione viene segnalata la presenza di un convoglio Alleato e il comandante si lancia all’attacco, ma una fitta nebbia ribalta inaspettatamente lo scenario: l’U-96 viene individuato e bombardato da un cacciatorpediniere (una nave da guerra progettata appositamente per attaccare i sommergibili, equipaggiata con sonar e cariche di profondità) e da cacciatore diventa preda, riuscendo comunque ad allontanarsi.

La disillusione del comandante, diffidente riguardo all’attendibilità degli ordini ricevuti, trova conferma quando l’U-96 si imbatte in un’unità amica: un incontro così improbabile nell’immensità dell’oceano induce a sospettare che uno dei due sommergibili sia stato inviato nel posto sbagliato, palese testimonianza della superficialità dell’Alto Comando sui reali obiettivi delle missioni.

Una notte l’U-96 avvista un convoglio nemico e attacca lanciando tre siluri, nonostante il chiarore della Luna lo renda facilmente distinguibile: i siluri raggiungono i bersagli, ma il sommergibile viene individuato da un caccia di scorta alle navi e bombardato per ore, riuscendo miracolosamente a salvarsi.

Una scena del film

Quando il rientro sembra ormai imminente, un inatteso ordine impone al sommergibile un ultimo incarico, che si rivela essere una missione suicida: dirigersi verso la base di La Spezia passando attraverso lo stretto di Gibilterra presidiato dalla flotta britannica.

Durante l’insidiosa traversata, l’U-96 viene centrato da una bomba e tenta la fuga immergendosi rapidamente: il colpo ricevuto ha però danneggiato gli strumenti per regolare l’immersione e l’assetto del sommergibile, che continua a scendere senza più controllo.

Raggiunta la profondità di 270 metri, ben oltre il livello di tenuta del natante, un banco di sabbia arresta la mortale discesa: la pressione dell’acqua, tuttavia, fa cedere rivetti e parte della tubolatura, provocando l’apertura di falle e di vie d’acqua che inondano rapidamente il sommergibile.

Una scena del film

In una corsa contro il tempo, con sempre meno ossigeno e forze residue, l’equipaggio riesce strenuamente a chiudere le falle e, grazie all’ingegno del direttore di macchina, a riparare gli impianti danneggiati, rimettendo il sommergibile in condizione di emergere: dopo oltre 24 ore e senza quasi più ossigeno, l’U-96 riesce a tornare in superficie.

Il comandante rinuncia ad attraversare lo stretto e dà ordine di rientrare alla base, ma il destino sarà implacabile.

Il direttore di macchina (Wennemann), il comandante (Prochnow) e il tenente Werner (Grönemeyer) in una scena del film

Un film di guerra antimilitarista, un film tedesco antinazista

A parte il primo guardiamarina, giovane ufficiale e fervente nazista, l’equipaggio dell’U-96 è apolitico o, come nel caso del comandante, apertamente antinazista. Lo storico Michael Gannon conferma che nel 1941, anno in cui è ambientato il film, gli U-Boot erano uno dei rami meno filo-nazisti nelle forze armate tedesche. Nel suo libro Iron Coffins (Bare di ferro), l’ex comandante di U-Boot Herbert A. Werner sottolinea che la selezione del personale navale in base alla lealtà al partito durante la guerra avvenne solo dal 1943 in poi, quando gli U-Boot stavano subendo ingenti perdite, il morale dei soldati era ai minimi termini e iniziava a serpeggiare un crescente scetticismo verso il Führer e l’Alto Comando.

Una scena del film

L’originalità di U-Boot 96 è spiazzante fin dal soggetto: la vita all’interno di un sommergibile durante la Seconda Guerra Mondiale raccontata dal punto di vista dei soldati tedeschi, mostrati per la prima volta come esseri umani dotati di sentimenti e ingegno e non come fanatici sanguinari. Una prospettiva del tutto nuova per l’epoca: in un’industria cinematografica dominata dal colosso statunitense, la pellicola di produzione tedesca stravolse i canoni del cinema di guerra. Un’impresa titanica ed estremamente rischiosa, che richiese una maniacale attenzione ai particolari: la minima ambiguità avrebbe facilmente attirato accuse di revisionismo.

I protagonisti non vengono dipinti come eroi: sono semplicemente soldati chiamati ad affrontare paure e insidie in un contesto così estremo e claustrofobico, dove all’angosciosa frenesia delle battaglie fanno da contraltare i lunghi periodi di inattività. È questa la vera forza del film: la costante tensione e il notevole realismo catapultano lo spettatore a bordo e generano una potentissima empatia verso i personaggi, arrivando a rendere imprevedibile un epilogo in fondo annunciato.

Una scena del film

Curiosità

La realizzazione del film durò due anni, dal 1979 al 1981. Le scene all’interno del sommergibile furono girate tutte di seguito, per rendere l’aspetto degli attori il più realistico possibile: il caratteristico pallore di chi ha vissuto al chiuso per lunghi periodi, la barba e i capelli incolti, i vestiti sporchi e sdruciti. Agli attori fu inoltre impartita una formazione sul campo per imparare a muoversi rapidamente negli angusti spazi del sommergibile, senza inciampare o scontrarsi con i compagni, così da limitare al massimo incidenti ed eventuali interruzioni.

Gli ufficiali dell’U-Boot 96 in una scena del film

Non disponendo la produzione delle attrezzature all’avanguardia usate dal cinema hollywoodiano, nelle scene in cui i personaggi dovevano essere bagnati l’acqua non era riscaldata e gli attori tremavano realmente per il freddo.

Ogni dettaglio, dalle divise alle apparecchiature, dalle armi alle suppellettili, è storicamente accurato. Per riprodurre l’U-96 furono realizzati due modelli a grandezza naturale di un vero U-Boot Tipo VII-C: un sommergibile motorizzato e vuoto per gli esterni in mare e un tubo provvisto di tutti gli interni; quest’ultimo era montato su un simulatore di navigazione azionato da attuatori idraulici in modo da ricreare rollio e beccheggio, insieme agli scossoni prodotti dalle bombe di profondità.

Interni del modello: tavolo del timoniere (in alto a sinistra), camera di manovra (in alto a destra), sala siluri (in basso a destra), sala macchine (in basso a sinistra)

Il modello usato per le scene in emersione venne prestato a Steven Spielberg per I predatori dell’arca perduta, le cui riprese erano iniziate in quel periodo, e fu restituito in pessime condizioni, tanto da allarmare la produzione sulla sua effettiva capacità di galleggiare nelle ultime scene ancora da girare.

Un modello della torretta del vero U-96 con il celebre logo del pesce sega ghignante fu realizzato per gli esterni che non richiedevano la ripresa dell’intero scafo. La torretta fu posizionata in una piscina nei Bavaria Studios di Monaco: per simulare le onde venivano lanciati getti d’acqua.

In alto, l’U-995 (un U-Boot Tipo VII-C) in esposizione al Memoriale navale di Laboe; in basso il modello della torretta esposto ai Bavaria Studios di Monaco

U-Boot 96 fu la prima parte di rilievo per l’attore Jürgen Prochnow (il comandante), che da quel momento divenne uno dei caratteristi più richiesti a livello internazionale (Dune, Un’arida stagione bianca, Robin Hood – La leggenda, Il paziente inglese), recitando spesso in ruoli di villain autoritari, crudeli e sadici.

Jürgen Prochnow in U-Boot 96

Herbert Grönemeyer (il tenente Werner) è uno dei più popolari cantautori tedeschi: dal 1984 tutti i suoi album si sono posizionati al primo posto nelle classifiche nazionali e i suoi album Mensch e 4630 Bochum sono ancora oggi il primo e il terzo album più venduti di sempre in Germania.

Herbert Grönemeyer in U-Boot 96

Nel 1997 la pellicola è stata distribuita in una versione Director’s cut di 209 minuti che, rispetto alla versione cinematografica del 1981 (149 minuti), risulta essere molto più completa senza appesantire la narrazione. Poiché l’audio originale era andato perduto, furono richiamati gli attori originali che, dopo sedici anni, ridoppiarono l’intera pellicola. In modo simile fu ricreata l’imponente colonna sonora, a partire dalla registrazione originale conservata dal compositore Klaus Doldinger: l’audio su più canali consentì la distribuzione del film in Dolby Digital.

U-Boot 96 è considerato uno dei migliori film di guerra mai realizzati: un thriller mozzafiato dal realismo quasi documentaristico, intelligente e anticonformista. Acclamato dalla critica, ottenne 6 nomination ai premi Oscar (regia, sceneggiatura non originale, fotografia, montaggio, sonoro e montaggio sonoro), attuale record per una pellicola tedesca, ma non riuscì a conquistare neppure una statuetta. Il film ebbe inoltre uno straordinario successo di pubblico, specialmente in Germania e negli Stati Uniti: a fronte di un budget iniziale di 32 milioni di marchi (tuttora una delle produzioni tedesche più costose di sempre), incassò quasi 85 milioni di dollari in tutto il mondo. Due anni dopo, un’altra pellicola diretta da Wolfgang Petersen avrebbe raggiunto i 100 milioni di dollari di incassi: La storia infinita, il film tedesco più costoso del dopoguerra (60 milioni di marchi).

Sul set di U-Boot 96 (da destra a sinistra): l’attore Jürgen Prochnow, il regista Wolfgang Petersen, l’autore del romanzo Lothar-Günther Buchheim e il direttore della fotografia Jost Vacano

Adagio per archi (Samuel Barber)

L’Adagio per archi (Adagio for strings) è il brano più famoso del compositore statunitense Samuel Barber, arrangiamento per orchestra d’archi del secondo movimento del suo Quartetto per archi op. 11. Eseguito per la prima volta l’11 maggio 1938 dalla NBC Symphony Orchestra diretta da Arturo Toscanini, l’adagio ha accompagnato i funerali di Albert Einstein, John Fitzgerald Kennedy, Grace Kelly e Ranieri III di Monaco. Nel 2004 è stato votato dagli ascoltatori del programma della BBC Today Programme come brano di musica classica più triste mai realizzato.

Non sorprende, quindi, che l’Adagio per archi sia stato spesso utilizzato in film, documentari e programmi televisivi per enfatizzare scene di grande commozione, momenti tragici, nostalgici o di disperazione. In particolare, il brano è presente nelle colonne sonore di due pellicole indimenticabili, entrambe realizzate negli Anni ’80: The Elephant Man e Platoon.

Samuel Barber e Arturo Toscanini

The Elephant Man

The Elephant Man è un film del 1980 diretto da David Lynch, prodotto da Mel Brooks e interpretato da John Hurt, Anthony Hopkins, Anne Bancroft, John Gielgud, Freddie Jones e Wendy Hiller. Il soggetto del film è tratto dall’autobiografia del medico e chirurgo Sir Frederick Treves, The Elephant Man and Other Reminiscences, e dal romanzo biografico The Elephant Man: A Study in Human Dignity dell’antropologo e saggista Ashley Montagu.

A sinistra, John Hurt in una scena del film; a destra, l’attore riceve il Premio BAFTA come Miglior attore protagonista per The Elephant Man

Nella Londra dell’epoca vittoriana, lo sfortunato Joseph Merrick (chiamato erroneamente John nelle sue prime biografie, comprese le opere citate) è affetto dalla rarissima sindrome di Proteo (che colpisce meno di 200 individui in tutto il mondo): gran parte del suo corpo presenta deformità, in particolare il capo, tanto da essere soprannominato The Elephant Man (L’Uomo Elefante).

Merrick (Hurt) è succube del malvagio sfruttatore Bytes (Jones), che lo usa come fenomeno da baraccone nei freak show (esibizioni a pagamento di persone bizzarre o ripugnanti), trattandolo al pari di un animale. Durante uno di questi spettacoli di strada viene scoperto dal dottor Frederick Treves (Hopkins), un valido e sensibile medico del London Hospital. Affascinato dalla singolarità del caso, Treves conduce temporaneamente Merrick presso il proprio ospedale per studiarlo e mostrarlo ai colleghi, pagando il suo aguzzino.

Bytes (Freddie Jones) e il dottor Treves (Anthony Hopkins)

Restituito al suo proprietario, Merrick viene da questi brutalmente percosso e le sue condizioni si aggravano: Treves riesce a riportarlo in ospedale per tenerlo in cura e tentare di aiutarlo. È qui che emerge l’uomo dietro la maschera: Merrick non solo è capace di parlare, leggere e scrivere ma, con il passare dei giorni, mostra il suo carattere sensibile e sofisticato, da lui sempre nascosto per non subire ulteriori maltrattamenti. In poco tempo, Merrick diventerà una celebrità presso l’alta società vittoriana e, circondato dall’affetto, troverà finalmente pace nella propria vita, fino al commovente epilogo.

“Un film sulla dignità e il dolore, sull’umanità che si nasconde sotto una maschera mostruosa.”
(Il Morandini)

L’Adagio per archi accompagna la sequenza più struggente del film, l’apice dell’agognata serenità dopo un crescendo di sofferenza: la morte di Merrick. Invitato a teatro dalla grande attrice Madge Kendal (Bancroft), diventata sua cara amica, Merrick viene salutato calorosamente dal pubblico alla fine dello spettacolo. Tornato in ospedale, ringrazia il dottor Treves per tutto ciò che ha fatto per lui, chiamandolo più volte amico, e dichiara di non essersi mai sentito tanto amato. Un’emozione così forte, una giornata così perfetta da convincerlo all’estremo gesto. Merrick toglie tutti i cuscini che fungono da sostegno per l’abnorme massa del suo capo e si sdraia supino sul letto, ben conscio che dormire in tale posizione gli provocherà la morte per soffocamento: la sua vita si concluderà riposando come gli esseri normali, perché finalmente si sente uno di loro.

The Elephant Man non vinse alcun premio Oscar nonostante le 8 candidature, ma il tempo lo ha degnamente ricompensato: oggi è riconosciuto come una delle più significative opere di David Lynch. All’epoca Lynch era semisconosciuto (aveva realizzato solo il surreale Eraserhead), ma Mel Brooks decise comunque di affidargli la regia: una scelta coraggiosa e lungimirante che ha contribuito a regalarci uno dei più apprezzati cineasti dei nostri giorni.

David Lynch sul set di The Elephant Man (in alto a destra), con John Hurt (in alto a sinistra), con Mel Brooks (in basso) all’AFI (American Film Institute)

Platoon

Platoon è un film del 1986, diretto da Oliver Stone e interpretato da Charlie Sheen, Willem Dafoe, Tom Berenger, John C. McGinley, Johnny Depp, Mark Moses, Forest Whitaker e Kevin Dillon.

Chris Taylor (Sheen), un ragazzo statunitense, parte volontario per la guerra in Vietnam per motivi ideologici: non trova giusto che siano solo le classi disagiate e le minoranze etniche a rischiare la vita per la patria. Il plotone a cui viene assegnato è comandato dall’inesperto tenente Wolfe (Moses), ma i veri leader riconosciuti dal gruppo sono il cinico e spietato sergente maggiore Barnes (Berenger) e l’umano e disilluso sergente Elias (Dafoe): questo dualismo divide il plotone in due schieramenti distinti, esacerbando la tensione tra i soldati già provati dalla giungla ostile e dai nemici invisibili.

Taylor (in alto a sinistra), Elias (a destra) e Barnes (in basso a sinistra) in Platoon

In breve tempo, Chris inizia a vivere in prima persona gli orrori della guerra: la morte dei compagni, la violenza su civili inermi, la distruzione di interi villaggi. L’effetto più sconvolgente di tanta disumanità è la radicale trasformazione delle persone: quanto può diventare naturale uccidere, quanto facilmente la brutalità può impossessarsi di un essere umano, quanto aiuto può dare la droga per alienarsi, esorcizzare la paura e dimenticare la nostalgia di casa. L’esperienza in Vietnam cambierà profondamente Chris e alimenterà i suoi peggiori incubi, con i quali dovrà convivere per il resto della vita.

La pellicola è ispirata alle reali esperienze vissute dal regista Oliver Stone come volontario durante la guerra in Vietnam nel 1967-68: Stone iniziò la stesura del copione poco dopo il suo ritorno alla vita da civile.

Platoon vinse 4 premi Oscar (miglior film, miglior regia, miglior montaggio, miglior sonoro) su 8 candidature, Oliver Stone fu premiato anche con l’Orso d’argento come miglior regista al Festival internazionale del cinema di Berlino.

A sinistra, Oliver Stone riceve l’Oscar per Platoon; a destra, insieme al cast (Willem Dafoe, Tom Berenger e Charlie Sheen)

L’Adagio per archi è parte integrante della colonna sonora: oltre a essere usato nei titoli di testa e nella scena finale, il brano sottolinea i momenti più drammatici del film. In particolare, è presente nella tragica sequenza della morte di Elias, la cui immagine con le braccia rivolte al cielo è diventata l’icona stessa di Platoon.

La brutale rappresaglia su un villaggio accusato di spalleggiare i Vietcong viene interrotta da Elias, che aggredisce il sadico Barnes e promette di denunciare ai superiori le atrocità da lui commesse. Durante un’azione successiva, Elias si ritrova isolato nella giungla e Barnes gli spara a sangue freddo per evitare di essere condotto di fronte alla corte marziale. Il primissimo piano del cambiamento nello sguardo di Elias, che dal sollievo di aver incontrato un compagno si trasforma nella terribile consapevolezza dell’imminente tradimento, vale da solo la visione del film.

L’apice della tragedia arriva poco dopo, quando dall’elicottero di soccorso Chris e gli altri notano sconvolti che Elias, dato per morto da Barnes, è ancora vivo e sta cercando disperatamente di fuggire da un manipolo di Vietcong: colpito più volte, il sergente muore in una posa di estrema prostrazione. Un’immagine che non a caso rispecchia una crocifissione: la fine di un uomo giusto, tradito da chi riteneva amico, il cui sacrificio finale è un monito urlato al mondo contro le atrocità della guerra.

La morte del sergente Elias in Platoon

Il confronto

Perché l’Adagio per archi suscita le stesse emozioni in due tragedie umane così agli antipodi?

In entrambi i film, il brano è inevitabilmente associato alla morte, essendo presente sia durante il suicidio di Merrick che durante l’uccisione di Elias. Due morti che, tuttavia, non potrebbero essere più diverse: se Merrick sceglie di morire pregno di un’insperata serenità, Elias lotta fino all’ultimo per scampare al proprio destino, fino a doversi arrendere nella più totale disperazione.

Se Merrick rappresenta la massima deformità del corpo, che nasconde una profonda umanità, il sergente Elias rappresenta la massima prestanza fisica costretta a convivere con gli orrori a cui ha dovuto assistere. Orrori che hanno reso molti suoi compagni delle perfette macchine di morte, incapaci di provare più alcun sentimento umano: macchine che possono uccidere a sangue freddo un commilitone e abbandonarlo al nemico nel cuore della giungla.

Un nemico che per Merrick è all’interno, una malattia logorante e fatale, il cui effetto si ripercuote impietosamente sul suo aspetto esteriore, rendendolo un mostro deforme. Per il sergente Elias, il nemico all’apparenza è solo all’esterno, da individuare davanti a sé, invisibile ma sempre presente, che costringe a stare all’erta in ogni momento. In realtà, come dice Chris alla fine di Platoon, non era quello il nemico peggiore:

“Io ora credo, guardandomi indietro, che non abbiamo combattuto contro il nemico… abbiamo combattuto contro noi stessi. E il nemico era dentro di noi.”
(Chris Taylor in Platoon)