Un mercoledì da leoni (John Milius, 1978)

Un mercoledì da leoni (Big Wednesday) è un film del 1978 diretto da John Milius e interpretato da Jan-Michael Vincent, William Katt e Gary Busey.

Tre amici virtuosi del surf furoreggiano sulle spiagge della California degli Anni ’60: Matt Johnson (Vincent) vive con inquietudine il passaggio dalla spensieratezza alla maturità e la sua fragile natura lo spinge a cercare rifugio nell’alcol; Jack Barlow (Katt) è riflessivo, pacato e responsabile; Leroy Spaccatutto Smith (Busey) è uno scatenato pazzoide con un profondo senso dell’amicizia.

Leroy (Busey), Matt (Vincent) e Jack (Katt) in Un mercoledì da leoni

Il punto di riferimento del trio è Bear (Sam Melville), un esperto surfista che costruisce artigianalmente tavole da surf sul suo pontile, verso il quale i ragazzi provano grande affetto e ammirazione: l’ascesa e il declino della sua attività rispecchiano idealmente la parabola del surf da passione a moda, da novità a consuetudine, da scintilla di amicizia e aggregazione sociale a fenomeno commerciale.

Quattro grandi mareggiate in quattro diverse stagioni (estate ’62, autunno ’65, inverno ’68, primavera ’74) scandiscono le vite dei protagonisti attraverso gli Anni ’60 e ’70, profondamente segnati dalla guerra del Vietnam: Matt e Leroy riescono a sottrarsi alla chiamata alle armi, utilizzando diversi stratagemmi per farsi riformare alla visita medica, mentre Jack accetta quello che lui considera un dovere.

Il tempo passa e li divide, ma le grandi ondate ritornano e i tre si ritroveranno insieme per l’ultima cavalcata in occasione della gigantesca mareggiata del ’74, Il Grande Mercoledì che dà il titolo originale al film (Big Wednesday).

Una scena di Un mercoledì da leoni

Secondo il Morandini:
“Non è soltanto un film sul surf e la sua mistica eroica, ma anche una malinconica saga sull’amicizia virile, su una generazione americana segnata dal malessere esistenziale e dalla guerra del Vietnam. Uno dei più misconosciuti film dei ’70. Eppure la sua importanza – non soltanto sociologica – è pari a quella de Il cacciatore di Michael Cimino, uscito nello stesso anno.”

Ad accompagnare le vicende dei protagonisti la splendida colonna sonora di Basil Poledouris, compositore statunitense di origini greche dallo stile epico e imponente, che ha collaborato in diverse altre occasioni con il regista John Milius (Conan il barbaro, Alba rossa, Addio al re) e ha composto le musiche di film quali RoboCop, Caccia a Ottobre Rosso e Free Willy – Un amico da salvare. Nel 1996, il suo brano The Tradition of the Games ha aperto i Giochi Olimpici di Atlanta.

Il compositore Basil Puledouris

Il regista di Un mercoledì da leoni, John Milius, è una figura di spicco del cinema hollywoodiano: sceneggiatore di pellicole che hanno fatto epoca quali Apocalypse Now di Francis Ford Coppola e i primi due film della serie dell’ispettore Callaghan (Ispettore Callaghan: il caso “Scorpio” è tuo! e Una 44 Magnum per l’ispettore Callaghan), Milius ha scritto e diretto celebri film degli Anni ’70 e ’80 come Dillinger, Il vento e il leone, Conan il barbaro e Addio al re.

Il regista John Milius

Personaggio chiave della cosiddetta New Hollywood, il gruppo di cineasti comprendente Steven Spielberg, George Lucas e Francis Ford Coppola che dagli Anni ’70 scrivono, dirigono e producono da soli i propri film, Milius è protagonista di un curioso aneddoto riguardante proprio Un mercoledì da leoni e la sua amicizia con Spielberg e Lucas.

I tre registi si accordarono per dividere in parti uguali i profitti dei propri film che sarebbero usciti nella stagione 1977-78: Guerre stellari di George Lucas (1977), Incontri ravvicinati del terzo tipo di Steven Spielberg (1977) e, appunto, Un mercoledì da leoni di John Milius (1978). Spielberg, in particolare, era certo che Un mercoledì da leoni sarebbe stato un trionfo al botteghino, “il perfetto trait d’union tra American Graffiti e Lo squalo” (due dei film di maggior successo del decennio). Tuttavia, mentre i primi due film ebbero uno straordinario successo di pubblico (Guerre stellari è ancora oggi uno dei film con maggiori incassi nella storia del cinema), Un mercoledì da leoni fu un clamoroso flop commerciale e fu stroncato da gran parte della critica, che sottolineò l’inconsistenza delle scene d’azione rispetto alla pubblicizzata epicità e le prestazioni poco convincenti degli attori.

Steven Spielberg, John Milius e George Lucas

Tempo dopo, però, un cinefilo del calibro di Quentin Tarantino scrisse:
“Anche se preferisco Dillinger, il debutto alla regia di Milius, è molto difficile sostenere che Un mercoledì da leoni non sia il suo classico per eccellenza. La resa dei conti finale tra l’eroico trio e le onde gigantesche è così splendida da compensare tutto il resto e la camminata dei tre verso il destino ispirata a Il mucchio selvaggio è di gran lunga l’apice cinematografico di Milius.”

Camminate a confronto: Un mercoledì da leoni (in alto) e Il mucchio selvaggio (in basso)

Le origini di un cult

Un mercoledì da leoni (1978) è l’opera più intima e autobiografica di Milius: trasferitosi in California all’età di 7 anni, il futuro regista sviluppò da subito una grande passione per il surf, che continuò a praticare fino ai 50 anni.

La mia religione è il surf.

(John Milius)
L’ultimo fotogramma dei titoli di testa di Un mercoledì da leoni: l’immagine di un giovanissimo Milius surfista

Il film è un nostalgico omaggio del regista alla propria gioventù trascorsa sulle spiagge di Malibu, in California.

Avendo praticato il surf, sono l’unico regista al mondo che avrebbe potuto girare questo film.

(John Milius)

Milius scrisse la sceneggiatura a quattro mani con il giornalista Dennis Aaberg, suo amico e compagno di surf: il soggetto si ispirava a una storia breve pubblicata da Aaberg nel 1974 su una rivista di surf, intitolata No Pants Mance e basata sulle vite della comunità di surfisti comprendente Milius e lo stesso Aaberg negli Anni ’60.

In quegli anni il surf era uno sport totalmente nuovo, con una propria aristocrazia.
Ci volle circa un anno per scrivere la sceneggiatura: essendo due veri surfisti, ci tenevamo che fosse autentica.

(Dennis Aaberg)
Il giornalista Dennis Aaberg

Milius così descrisse il proprio film:
“È un Com’era verde la mia valle a tema surf: la fine di un’aristocrazia e di un’era, il passaggio a un’epoca più corrotta e complessa, la crescita e la perdita dell’innocenza. È basato sulle vite di tre amici dieci anni fa, sulla loro amicizia e sul valore dell’amicizia. Riguarda l’amore per un luogo, l’amore per un tempo, l’amore per i tuoi contatti umani e la perdita di tutto questo. Il surf è solo lo sfondo esotico: sapevamo tutti che era speciale, sapevamo che non sarebbe durato e sapevamo quanto eravamo stati bene. Il surf è strano: molte persone non lo lasciano mai, senti sempre di dovergli qualcosa. È stata un’esperienza centrale nella nostra vita. È il film più personale che potrò mai fare e ho pensato che avrei dovuto farlo ora, prima di andare troppo lontano.”

Proprio come dice il protagonista Matt Johnson in una scena del film:
“Io ho fatto lo sport perché è bello stare con gli amici”

Da sinistra: Leroy, Sally (Patti D’Arbanville), Jack, Peggy (Lee Purcell) e Matt in una scena del film

Un’ondata di curiosità

Gli attori William Katt e Jan-Michael Vincent erano già esperti surfisti, mentre Gary Busey dovette imparare a surfare prima che iniziassero le riprese.

William Katt (a destra) e Jan-Michael Vincent (a sinistra) in una scena di Un mercoledì da leoni

Katt, in particolare, affermò che Un mercoledì da leoni:
“È stato il film più personale in cui ho recitato: ho vissuto quella vita da quando avevo dieci anni.”

In alcune scene, tuttavia, Katt fu sostituito da una controfigura d’eccezione: il surfista australiano Peter Townend, primo campione del mondo di surf professionistico.

Il surfista australiano Peter Townend in Un mercoledì da leoni

Barbara Hale (interprete di Mrs. Barlow, madre di Jack) e William Katt (Jack Barlow) erano madre e figlio anche nella realtà: Hale è conosciuta soprattutto per il ruolo di Della Street, la discreta e indispensabile segretaria tuttofare dell’avvocato Perry Mason nell’omonima serie di telefilm (1957–1966) e film TV (1985–1995), grazie al quale ha raggiunto il successo internazionale e conquistato un Emmy Award come miglior attrice non protagonista in una serie drammatica (1959).

Barbara Hale e William Katt (a sinistra) con Raymond Burr (a destra), il celebre Perry Mason

La narrazione del film è affidata alla voce di un personaggio minore, Fly, un surfista amico dei tre protagonisti interpretato da un giovane Robert Englund, che pochi anni dopo avrebbe ottenuto la consacrazione nel suo ruolo più celebre: il mostruoso serial killer Freddy Krueger nella fortunata saga horror Nightmare.

Robert Englund (in alto a destra in Un mercoledì da leoni, in basso a destra dietro le quinte di Nightmare)

Il surfista hawaiano Gerry Lopez, riconosciuto come il miglior tuberider del mondo, compare nel film nel ruolo di sé stesso e reciterà poi in altri due film di Milius: Conan il barbaro e Addio al re.

Gerry Lopez in Un mercoledì da leoni

Il film è stato girato prevalentemente nel sud della California, presso Surfrider Beach, Gaviota Beach e Cojo Point, mentre per la scena finale è stata utilizzata la Sunset Beach di Pupukea, nelle Isole Hawaii.

La figura di Leroy Spaccatutto (The Masochist nell’originale), interpretato da Gary Busey, è ispirata a un certo Mitch, un eccentrico personaggio appartenente al mondo hippie se possibile ancora più folle della sua trasposizione cinematografica. All’epoca in cui è ambientato il film, questi aveva acquistato grazie a un lascito ereditario numerosi appartamenti in forte stato di degrado nella zona di Venice Beach, i quali col tempo erano aumentati progressivamente di valore, rendendolo miliardario. In seguito si era trasferito nella zona di Santa Cruz, località celebre per le sue altissime onde. Noto per i numerosi stratagemmi volti a evitare il servizio di leva, la sua specialità era fingersi pazzo e fu pertanto costretto a entrare e uscire da strutture psichiatriche per diversi anni.

Il personaggio di Bear, interpretato da Sam Melville, riunisce alcuni celebri costruttori di tavole conosciuti da Milius all’epoca, come Dale Velzy, Hap Jacobs e Bob Bolen.

Leroy Spaccatutto (Gary Busey) e Bear (Sam Melville)

Il protagonista Matt Johnson (interpretato da Jan-Michael Vincent) è ispirato a Lance Carson, il più noto surfista dell’epoca tra i frequentatori delle spiagge di Malibu: famoso per le sue evoluzioni sulle onde medio-piccole, Carson ebbe problemi di alcolismo fin dai 19 anni, dai quali uscì con le proprie forze. Rimasto in ottimi rapporti d’amicizia con Milius, in tempi recenti è divenuto un abile costruttore di tavole da surf.

Lance Carson

Ma se il destino è stato magnanimo con l’uomo che ha ispirato il protagonista del film, non lo è stato affatto con l’attore che lo ha interpretato, Jan-Michael Vincent: Un mercoledì da leoni sarebbe diventato l’inquietante specchio della sua vita.

Grande promessa del cinema negli Anni ’70, Vincent raggiunse l’apice del successo con la serie TV Airwolf (1984-1987), ma la sua carriera non decollò mai a causa dei suoi problemi con alcol e droga che gli costarono due divorzi, numerosi arresti per possesso di cocaina, rissa, aggressione, ubriachezza molesta, guida in stato di ebbrezza e un’ingiunzione restrittiva per violenza domestica. L’attore rimase inoltre coinvolto in diversi incidenti d’auto, che gli provocarono gravi infortuni al collo e danni permanenti alle corde vocali e alle gambe.

Jan-Michael Vincent

In Un mercoledì da leoni, il suo personaggio rifiuta di accettare i cambiamenti imposti dalla vita e dai passaggi d’età annegando le proprie sofferenze nell’alcol e arrivando a provocare un serio incidente.

Della vita reale di Jan-Michael Vincent sappiamo quanto poco sostegno abbia ricevuto in giovane età. Suo nonno e i suoi zii, rapinatori di banche e falsari, finirono tutti arrestati o uccisi, lasciando suo padre solo fin dall’età di 12 anni: arruolatosi nell’esercito, questi divenne ben presto un alcolista. Osservando la rigida disciplina militare cui il padre era sottoposto, Vincent iniziò probabilmente a sviluppare quel disprezzo nei confronti dell’autorità che in seguito avrebbe contribuito a condurlo verso l’autodistruzione.

Jan-Michael Vincent in Un mercoledì da leoni

Perché la versione cinematografica di “Nuovo Cinema Paradiso” è il capolavoro che il “Director’s Cut” non può essere

Nella storia del cinema, molti film sono stati realizzati in più di una versione: stabilire quale sia la migliore è da sempre oggetto di discussione tra gli appassionati.

Le versioni Director’s Cut (“versioni rimontate dai registi”) consistono di solito in edizioni estese del film, contenenti scene inedite tagliate nella fase di montaggio della pellicola poi distribuita nelle sale (“versione cinematografica”). Spesso si tratta di versioni più complete, che consentono di comprendere meglio alcune scelte del regista senza sminuirne l’effetto. A volte, però, tali versioni rischiano di intaccare il reale valore del film, come quando le scene inedite vengono ridoppiate (per il tempo trascorso tra le due versioni) o quando le aggiunte rendono la pellicola inutilmente prolissa.

È il caso di Nuovo Cinema Paradiso, film del 1988 scritto e diretto da Giuseppe Tornatore e interpretato da Philippe Noiret, Salvatore Cascio, Marco Leonardi, Jacques Perrin, Agnese Nano, Enzo Cannavale, Isa Danieli, Leo Gullotta, Pupella Maggio e Leopoldo Trieste. Nuovo Cinema Paradiso è uno dei capolavori del regista originario di Bagheria: una toccante ode al Cinema e all’amata Sicilia che vanta una delle più belle colonne sonore di Ennio Morricone (il cui Tema d’amore è stato composto dal figlio Andrea).

Giuseppe Tornatore ed Ennio Morricone

Gli esterni del film sono stati girati tutti in Sicilia: Palazzo Adriano (il set principale), Bagheria, Cefalù, Castelbuono, Lascari (la stazione), Chiusa Sclafani, Santa Flavia, San Nicola l’Arena, Termini Imerese e Oriolo Romano. L’edificio del Cinema Paradiso non esiste: è stato costruito per il film, collocato a Palazzo Adriano e smontato al termine delle riprese. L’interno del cinema è la Chiesa di Maria Santissima del Carmelo a Palazzo Adriano.

Palazzo Adriano (PA)

Salvatore Di Vita è un affermato regista cinematografico: siciliano di nascita, vive da trent’anni a Roma. Una sera, rientrando a casa apprende della morte di un certo Alfredo: profondamente rattristato dalla notizia, inizia a rivivere i ricordi della propria infanzia. A Giancaldo, immaginario paesino nella Sicilia del secondo dopoguerra, Alfredo è il proiezionista dell’unica sala cinematografica, il Cinema Paradiso, il solo vero svago per la povera gente del paese. Il piccolo Salvatore, chiamato affettuosamente Totò, attende invano con la madre e la sorellina il ritorno del padre, disperso in Russia. Totò è profondamente incuriosito dalla figura di Alfredo e dal suo lavoro, che accendono in lui una straordinaria passione per il cinema. Nonostante un’iniziale ritrosia, Alfredo insegna a Totò i trucchi del mestiere, diventando per lui il riferimento paterno: grazie ad Alfredo, Totò riesce a coronare il proprio sogno di diventare un proiezionista.

Totò (Salvatore Cascio) e Alfredo (Philippe Noiret)

Gli anni passano e Salvatore, ormai adolescente, si innamora di Elena, figlia del direttore della banca locale. Elena ricambia l’amore per Salvatore, ma i suoi genitori sono contrari alla relazione e, dopo poco, decidono di trasferirsi. Nel frattempo, Salvatore viene richiamato a Roma per il servizio militare. I due innamorati decidono di incontrarsi un’ultima volta per salutarsi prima della partenza, ma Elena non si presenta all’appuntamento. Salvatore la cerca dappertutto, anche durante il periodo di leva, ma ne perde completamente le tracce. Tornato a casa, Alfredo gli consiglia di abbandonare per sempre la sua terra per riuscire a realizzarsi.

Totò (Marco Leonardi) ed Elena (Agnese Nano)

Dopo trent’anni, Salvatore decide di tornare in Sicilia per il funerale di Alfredo, che diventa l’occasione per confrontarsi con il passato e riflettere sul presente: nonostante sia un ricco e famoso regista, la sua vita è triste e senza affetti, e rimpiange la felicità che gli dava il cinema quando era bambino. Rientrato a Roma, Salvatore si fa proiettare una bobina di pellicola lasciatagli da Alfredo, in uno dei finali più commoventi di sempre.

Salvatore (Jacques Perrin)

La potenza della versione cinematografica è nell’emozione del ricordo: l’intero film è un flashback del protagonista, che diventa l’omaggio di Tornatore alla propria terra, povera ma allo stesso tempo gioiosa, e insieme l’esaltazione del suo amore per il cinema, mostrato con gli occhi di un bambino.

La prima edizione, recuperata poi come Director’s Cut, includeva però qualcosa di totalmente avulso dalla magica atmosfera creata dal film: l’incontro di Salvatore ed Elena da adulti. Salvatore le rivela di non aver amato mai nessun’altra e di averla cercata in ogni donna che ha incontrato, ma Elena è ormai sposata con un suo vecchio compagno di scuola: i due vivono una notte di passione, destinata a rimanere unica.

Viene inoltre svelato il motivo per cui non si erano incontrati l’ultima volta: Elena era arrivata tardi all’appuntamento dopo aver litigato con i suoi e non aveva trovato Salvatore, che era andato a cercarla a casa. Al cinema aveva parlato con Alfredo, che le aveva consigliato di lasciar perdere la storia d’amore per il bene di Salvatore e del suo futuro.

Salvatore (Jacques Perrin) ed Elena (Brigitte Fossey)

Il film venne proiettato in anteprima al Festival Europa Cinema di Bari il 29 settembre 1988 nella sua prima edizione di 173 minuti, che fu accolta da pareri contrastanti: pur riscuotendo grandi apprezzamenti per la prima parte, la critica sottolineava l’eccessiva prolissità della seconda parte, in particolare proprio la ridondanza dell’incontro di Salvatore ed Elena adulti. Nel novembre dello stesso anno il film uscì in Italia in un’edizione di 157 minuti, ma la bassissima affluenza di pubblico convinse molte sale a cancellarlo dalla programmazione dopo poche settimane. In seguito, il film venne scartato alla selezione ufficiale del Festival di Berlino.

Dopo altre proiezioni fallimentari, il produttore Franco Cristaldi convinse Tornatore ad accorciare il film di oltre 30 minuti ed eliminare l’incontro finale tra Salvatore ed Elena (tagliando quindi l’intera parte dell’attrice Brigitte Fossey, che interpreta Elena adulta). La nuova versione di 123 minuti, conosciuta come edizione cinematografica, edizione internazionale o Theatrical Cut, si aggiudicò il Grand Prix Speciale della Giuria al Festival di Cannes e fu ridistribuita nelle sale italiane in più occasioni fino al settembre 1989, riscuotendo stavolta uno straordinario successo di pubblico e critica: il film venne candidato ai premi Oscar 1990 e vinse la statuetta come miglior film in lingua straniera, consacrandosi da quel momento in tutto il mondo come una delle pellicole italiane più significative degli Anni ’80.

Ma come può un film passare dall’anonimato alla conquista del premio più prestigioso per 30 minuti?
Perché quei 30 minuti fanno la differenza tra un ottimo film e un capolavoro.
Non è stata solo la prolissità a determinare l’iniziale insuccesso della versione estesa: quei 30 minuti alterano il significato più intimo del film.

Elena e Totò

Nella versione cinematografica, la storia d’amore tra Salvatore ed Elena viene affidata totalmente alla rievocazione del passato nella mente del protagonista, e l’emozione che ne scaturisce è irraggiungibile: il rimpianto di non aver vissuto qualcosa di così importante che ancora manca nella propria vita è sopportabile solo perché legato a quel contesto sociale, segnato dall’impossibilità di comunicare a distanza per l’isolamento, l’arretratezza e l’assenza di tecnologia. Rivedersi dopo tanti anni per scoprire di essersi persi per caso, ingabbiati in un’irreversibile infelicità, non è sopportabile e soprattutto non rispecchia il sublime obiettivo del film: descrivere lo spaccato di un’epoca con profonda umanità e commovente genuinità.

Inoltre, far ricadere su Alfredo la fine della storia d’amore tra Salvatore ed Elena conferisce gratuitamente un’aura negativa ad un personaggio altrimenti fino in fondo positivo: perfino quando consiglia a Totò di andar via senza mai fare ritorno avvertiamo in lui solo l’affetto che prova per il ragazzo, che per lui è sempre stato come un figlio. Alfredo può essere indirettamente responsabile dell’infelicità di Totò, che nel concentrarsi sulla propria carriera non è riuscito a ritrovare l’amore, ma non possiamo perdonargli di esserlo direttamente: non al punto da distruggere i suoi sentimenti.

Alfredo e Totò

Ormai in televisione e nel circuito home video viene riproposta quasi solo l’edizione Director’s Cut, come fosse diventata la versione ufficiale del film, ma la versione cinematografica è ancora disponibile e in una collezione non può mancare.

Il Nuovo Cinema Paradiso

Backbeat – Tutti hanno bisogno di amore (Iain Softley, 1994)

A maggio, un tweet di Paul McCartney ha rievocato profondi ricordi e suscitato grande commozione tra i più accaniti fan dei Beatles: la rockstar ha commemorato la recente scomparsa della fotografa tedesca Astrid Kirchherr, una donna che ha avuto un ruolo fondamentale nella nascita del mito dei Fab Four.

Astrid Kirchherr (autoritratto a sinistra, con Paul McCartney in alto a destra, con Stuart Sutcliffe in basso a destra)

Astrid Kirchherr conobbe i Beatles ad Amburgo nel 1960 durante il loro primo tour, restando affascinata dalla loro incredibile presenza scenica e dalla qualità della musica. Allieva del celebre fotografo tedesco Reinhart Wolf, scattò le prime fotografie di quel giovanissimo gruppo e ne influenzò profondamente il look e lo stile, contribuendo a trasformarlo in un’icona pop senza precedenti. A lei viene attribuita, in particolare, l’introduzione del taglio dei capelli a caschetto, che sarebbe diventato uno dei simboli della rock band.

I Beatles fotografati da Astrid Kirchherr durante il tour di Amburgo (da sinistra: Pete Best, George Harrison, John Lennon, Paul McCartney, Stuart Sutcliffe)

La sua vita è legata indissolubilmente a quella di Stuart “Stu” Sutcliffe, “il quinto Beatle”, la cui storia è raccontata nel film Backbeat – Tutti hanno bisogno di amore (1994) di Iain Softley.

Backbeat – Tutti hanno bisogno di amore (Iain Softley, 1994)

Il film descrive il “periodo tedesco” dei Beatles, un momento fondamentale per la loro formazione umana e artistica, ponendo l’accento sull’enigmatico bassista Stuart Sutcliffe, sulla sua fraterna amicizia con John Lennon e sulla sua storia d’amore con Astrid Kirchherr, ma anche su aspetti meno noti, come l’assunzione di anfetamine da parte del gruppo per sostenere le estenuanti e interminabili esibizioni e le profonde riflessioni di quegli adolescenti divenuti adulti così in fretta.

A sinistra, George Harrison, Stuart Sutcliffe e John Lennon fotografati da Astrid Kirchherr; a destra, Chris O’Neill, Stephen Dorff e Ian Hart in Backbeat (1994)

Stuart Sutcliffe era un pittore dallo straordinario talento, compagno di John Lennon al Liverpool College of Art e suo grande amico. Eclettico ed erudito, affascinato dall’attore Zbigniew Cybulski (“il James Dean polacco”) volle imitarlo indossando un paio di occhiali neri, acquisendo così una fascinosa aria bohémienne. Lennon e McCartney lo convinsero ad imparare a suonare il basso elettrico per entrare a far parte del loro nuovo gruppo: il nome Beatles pare vada accreditato proprio a Sutcliffe. Avendo poca predisposizione per la musica, trovò molto difficile suonare il basso e, per mascherare l’inadeguatezza tecnica, gli fu suggerito di suonare spalle al pubblico. Nonostante le difficoltà, decise di accompagnare il gruppo nella trasferta di Amburgo.

Stuart “Stu” Sutcliffe

La formazione dei Beatles comprendeva allora John Lennon (voce e chitarra), Paul McCartney (voce e chitarra), George Harrison (chitarra), Pete Best (batteria) e, appunto, Stuart Sutcliffe (basso). Durante le esibizioni, i Beatles vennero a contatto con un gruppo di studenti tedeschi seguaci dell’esistenzialismo, fra cui Astrid Kirchherr. Ben presto, Astrid e Stu si innamorarono e iniziarono una relazione.

Stephen Dorff/Stuart Sutcliffe e Sheryl Lee/Astrid Kirchherr in Backbeat (1994)

La mancanza di talento musicale di Stu portò al progressivo deterioramento dei suoi rapporti artistici e umani con Lennon e con gli altri membri del gruppo fino a indurlo alla decisione di abbandonare i Beatles. Quando il gruppo tornò nel Regno Unito, nel 1961, Stu rimase ad Amburgo per amore di Astrid e per dedicarsi finalmente alla pittura. L’anno dopo morì, a soli 22 anni, per un’emorragia cerebrale causata molto probabilmente da una frattura al cranio che aveva riportato tre anni prima in un pestaggio davanti a un locale. La sua morte giunse proprio mentre i Beatles stavano diventando un fenomeno di massa: pochi mesi dopo, il singolo I Want to Hold Your Hand avrebbe venduto 13 milioni di copie in tutto il mondo.

Backbeat – Tutti hanno bisogno di amore potrebbe essere un film scritto da ragazzi per dei ragazzi: all’inizio può sembrare banale, ma lo sguardo dei protagonisti rivela presto la sua intensa e autentica natura.

Backbeat – Tutti hanno bisogno di amore (Iain Softley, 1994)

Il vero punto di forza del film è proprio Stu: la sua sofferenza interiore, l’indecisione tipica della sua età, la sua ansia creativa alimentata da un grande talento, il suo profondo anticonformismo, superiore anche a quello di una band che avrebbe cambiato per sempre la storia della musica. Il tema principale del film è l’imprevedibilità: la fama, che quasi dal nulla fa esplodere uno dei tanti gruppi che si esibivano a quell’epoca; l’amore, che nasce dall’incontro di due personalità tanto affini quanto distanti; la morte, che sopravviene ingiusta e inaspettata quando ogni tassello sembra aver trovato la propria collocazione.

La somiglianza tra attori e personaggi reali è davvero impressionante. L’interpretazione di Stu da parte di Stephen Dorff ha sbalordito lo stesso Paul McCartney, che ha elogiato pubblicamente l’attore. Gary Bakewell avrebbe interpretato nuovamente Paul McCartney nel film TV The Linda McCartney Story (2000), mentre Ian Hart (celebre per il ruolo del professor Raptor in Harry Potter e la pietra filosofale) aveva già impersonato John Lennon in The Hours and Times (1991).

Ian Hart in Harry Potter e la pietra filosofale (2001) e insieme a Stephen Dorff in Backbeat (1994)

Una curiosità: Nowhere Boy, diretto da Sam Taylor-Johnson nel 2009, racconterà l’adolescenza di John Lennon e la nascita dei Fab Four fino alla partenza per il tour di Amburgo, concludendosi proprio dov’era iniziato Backbeat – Tutti hanno bisogno di amore (1994); i due film, nonostante idee e stili molto diversi tra loro, guardati uno dopo l’altro riescono a fornire una descrizione molto realistica delle origini dei Beatles.

Il maledetto United (Tom Hooper, 2009)

La recente promozione del Leeds United in Premier League (la Serie A di calcio inglese) è stata per tifosi e addetti ai lavori la fine di una maledizione: i Whites erano infatti da ben 16 anni nel purgatorio delle serie inferiori dopo la grave crisi societaria dei primi Anni 2000.

Non sono molti i film degni di nota che parlano di calcio, nella storia del cinema: una delle eccezioni più significative è legata proprio ad una “maledizione”: Il maledetto United (Tom Hooper, 2009), tratto dall’omonimo romanzo di David Peace.

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Michael Sheen/Brian Clough ne Il maledetto United

È la storia di Brian Clough, “il più grande allenatore che l’Inghilterra non ha mai avuto”, e dei suoi disastrosi 44 giorni come allenatore del Leeds United. Una squadra che, guidata dal sanguigno Don Revie, stava vivendo la sua epoca d’oro nel decennio tra il 1965 e il 1974, vincendo ogni sorta di trofeo nazionale e facendosi conoscere anche in Europa, consacrandosi come una delle realtà più blasonate d’Inghilterra.

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Revie con il capitano Billy Bremner

Quando nel 1974 Don Revie fu chiamato ad allenare la nazionale inglese, la scelta della società ricadde sull’acerrimo rivale Brian Clough, che in soli due anni era stato capace di condurre la sua piccola squadra, il Derby County, dalla Second Division (la Serie B inglese di allora) alla vittoria del massimo campionato proprio contro il Leeds.

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Clough al Derby County

Ma chi era Brian Clough? Un genio, un innovatore.

I suoi metodi e le sue idee sconvolsero il rigido e tradizionalista sistema del calcio britannico su tutti i fronti, dal gioco alla comunicazione, dall’atteggiamento in campo al coinvolgimento dei tifosi. In un contesto dominato da vigore fisico, aggressività, irruenza e scarso fair-play, in cui la tattica e la tecnica contavano poco, Clough predicava un gioco pulito, lasciando spazio alla fantasia e all’entusiasmo. Anche dal punto di vista mediatico Clough era unico nel suo genere: descritto da molti come scostante, permaloso e arrogante, in pubblico si mostrava sfrontato, sicuro di sé e usava un linguaggio diretto e senza giri di parole che arrivava subito al cuore della gente.

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Michael Sheen/Brian Clough ne Il maledetto United

Come poteva un personaggio del genere sostituire un allenatore all’antica venerato da una squadra famigerata per la scorrettezza in campo, gli interventi duri e gli atteggiamenti al limite dell’intimidazione?
Molti pensarono che Clough avesse accettato la panchina con la precisa intenzione di distruggere il Leeds United. I giocatori lo accusarono di nutrire un odio pregresso nei confronti della loro squadra e che stesse addirittura cercando di farla retrocedere, con allenamenti mediocri e un atteggiamento superficiale.
Dopo 44 giorni di insuccessi, Brian Clough fu esonerato.

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Clough al Leeds, realtà contro finzione

Il presunto odio di Clough per il Leeds United avrebbe avuto inizio nel 1968 durante un match di FA Cup (Coppa d’Inghilterra) tra i Whites, in testa al massimo campionato, e il suo Derby County, in bassa classifica nella serie minore. L’usanza tra allenatori voleva che l’ospite salutasse il padrone di casa. Don Revie non solo non avrebbe stretto la mano a Clough, ma non l’avrebbe nemmeno riconosciuto tra i presenti: l’atteggiamento fu visto come un’inaccettabile mancanza di rispetto tra colleghi.

Subito dopo la “sfortunata” parentesi al Leeds, Clough si trasferì al Nottingham Forest, dove restò per 18 anni vincendo 1 Campionato, 4 Coppe di Lega, 1 Community Shield, 2 Full Members Cup, 1 Supercoppa Europea e, soprattutto, 2 Coppe dei Campioni consecutive, rendendo il Nottingham Forest l’unica squadra della storia ad aver vinto più Coppe dei Campioni che titoli nazionali.

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Clough campione d’Europa con il Nottingham Forest

In un calcio così legato alla tradizione come quello inglese, Brian Clough introdusse delle assolute novità e riuscì a imporle con risultati considerati ancora oggi un “miracolo sportivo“.

Il focus del film è sull’uomo, sull’allenatore e sulla sua idea di calcio: sarebbe stato bello anche approfondire i dettagli del suo gioco, così diverso da tutti gli altri a quel tempo, e in cosa le sue squadre erano davvero speciali. Ma forse scendere troppo nel tecnico lo avrebbe reso ancor di più un film di nicchia per appassionati di calcio.

La figura di Clough, interpretato da un magnifico Michael Sheen, è rappresentata in maniera realistica e convincente, rendendo il biopic molto coinvolgente anche per i profani.

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Michael Sheen/Brian Clough

Il calcio inglese è ricco di storie affascinanti: ho scoperto che Storie di Premier le racconta davvero bene.