L’ultima Marilyn

Nella storia del cinema esiste un prima e dopo Marilyn Monroe: l’attrice è stata una delle icone del XX secolo che più hanno influenzato l’immaginario collettivo rivoluzionando i canoni di moda e bellezza. Approfondendo la sua vita, non siamo sopraffatti solo dal suo fascino senza tempo e dalla sua sensualità, ma percepiamo la sua intima fragilità: quel barlume di umanità con il quale, a 60 anni dalla sua tragica scomparsa, è ancora in grado di instillare in noi ammiratori un profondo e irrazionale senso di colpa e rabbia per non essere riusciti a salvarla.

Marilyn Monroe fotografata da Alfred Eisenstaedt nel 1953

Se le circostanze della sua morte non sono mai state del tutto chiarite, il clamore e l’aura di mistero che hanno circondato l’evento hanno contribuito a diffondere speculazioni di ogni genere sulla sua tormentata esistenza: una polveriera di denaro, sesso e politica che ha coinvolto la famiglia Kennedy e che in tanti hanno cercato di insabbiare.

Non esiste ammiratore di Marilyn Monroe che non abbia sentito almeno una volta la necessità di ricostruire i suoi ultimi mesi di vita, non riuscendo ad accettare il suo destino né le controverse versioni delle autorità sulla sua fine senza darsi una personale e plausibile spiegazione: forse un ultimo tentativo di capire chi fosse e cosa provasse Marilyn in quel periodo per restituirne il ritratto più autentico possibile, come se ci sentissimo in debito con lei almeno della verità.

Testimonianze imprescindibili, così profondamente connesse alla sua sfera privata, le riprese degli ultimi due film in cui Marilyn ha recitato: Gli spostati (1961) e Something’s Got to Give (1962), rimasto incompiuto.

Marilyn Monroe fotografata da Baron nel 1954

Da Norma Jeane a Marilyn Monroe

Marilyn Monroe nacque come Norma Jeane Mortenson l’1 giugno 1926. Il cinema era già nel suo destino: sua madre, Gladys Pearl Monroe, lavorava come impiegata alla Consolidated Film Industries e aveva voluto darle i nomi delle attrici Norma Shearer e Jean Harlow.

Alla nascita di Norma Jeane, Gladys aveva già avuto due figli dal matrimonio con John Newton Baker, dal quale aveva poi divorziato, e si era separata dal secondo marito Martin Edward Mortenson, da cui Norma Jeane aveva preso il cognome. Norma Jeane non conobbe mai il proprio padre. Solo pochi mesi fa un test del DNA ne ha confermato l’identità in Charles Stanley Gifford, collega della madre che l’aveva lasciata non appena informato della gravidanza.

Gladys era mentalmente instabile e non in grado di prendersi cura finanziariamente di Norma Jeane: ricoverata in preda a esaurimento nervoso, le venne diagnosticata una schizofrenia paranoide e fu dichiarata incapace di intendere e di volere. Per tutta la vita, non seppe mai che la sua Norma Jeane era diventata Marilyn Monroe.

Gladys e Norma Jeane

Fin dall’infanzia, Norma Jeane fu mandata in orfanotrofio e data in affido a diverse famiglie, dove spesso subì abusi e molestie. Grace McKee, archivista di pellicole alla Columbia Pictures e migliore amica di sua madre, divenne la sua tutrice, avvicinandola al mondo del cinema e di Hollywood. Compiuti 16 anni, il 19 giugno 1942 Norma Jeane sposò James Dougherty, il figlio di un vicino: un matrimonio organizzato dalla sua tutrice per non farla tornare in orfanotrofio.

Nel 1944, in piena Seconda Guerra Mondiale, Dougherty si arruolò nella marina mercantile e Norma Jeane iniziò a lavorare da operaia alla Radioplane Company, inizialmente come impacchettatrice di paracadute e poi come addetta alla verniciatura delle fusoliere degli aerei. Nel 1945, il fotografo David Conover si recò presso lo stabilimento in cerca di ragazze che tenessero su il morale delle truppe al fronte per un servizio sulla rivista Yank e le scattò alcune foto, che riscossero un immediato successo, esortandola a intraprendere la carriera di modella.

Norma Jeane fotografata da David Conover nel 1945

Norma Jeane lasciò quindi la fabbrica e divenne una pin-up, comparendo in servizi fotografici su varie riviste. Le sue foto furono notate da Emmeline Snively, direttrice della Blu Book School of Charm and Modeling, una delle più importanti agenzie pubblicitarie di Hollywood. Snively cambiò per sempre il suo look: da allora, la rossa e riccia Norma Jeane avrebbe avuto capelli biondi e lisci.

Grazie ai servizi fotografici, nell’agosto 1946 Norma Jeane firmò con la 20th Century Fox il suo primo contratto cinematografico, della durata di sei mesi e con un compenso di 125 dollari a settimana. Nel settembre 1946 divorziò da Dougherty, contrario alla sua carriera. Ben Lyon, l’attore e dirigente della Fox che aveva organizzato il suo provino, le consigliò di cambiare nome: furono scelti il cognome da nubile di sua madre, Monroe, e il nome della stella di Broadway Marilyn Miller. Da quel momento Norma Jeane Mortenson divenne per tutti Marilyn Monroe.

Marilyn Monroe fotografata da Frank Powolny nel 1952

Come nasce una stella

Marilyn dedicò da subito il massimo impegno alle lezioni di recitazione, canto e danza, ma per più di tre anni rimbalzò tra la 20th Century Fox e la Columbia Pictures (dove i suoi capelli furono definitivamente tinti in biondo platino), accettando ruoli insignificanti e miseri contratti. La svolta arrivò solo nel 1950, quando riuscì a catturare l’attenzione di pubblico e critica con la sua interpretazione in Giungla d’asfalto (The Asphalt Jungle) di John Huston che lanciò, di fatto, la sua carriera cinematografica.

Marilyn in Giungla d’asfalto

Il 1953 proiettò Marilyn tra le star di Hollywood: le interpretazioni in Niagara, Gli uomini preferiscono le bionde (Gentlemen Prefer Blondes) e Come sposare un milionario (How to Marry a Millionaire) riscossero uno straordinario successo e consacrarono l’attrice come assoluto sex symbol. A dicembre comparve sulla copertina e nel paginone centrale del primo numero della rivista Playboy.

Marilyn sul set di Niagara

L’anno successivo, Marilyn raggiunse l’apice della popolarità. Il 14 gennaio 1954 sposò il campione di baseball Joe DiMaggio, ma il chiacchieratissimo matrimonio ebbe vita breve: la scena della gonna di Marilyn sollevata dallo spostamento d’aria della metropolitana in Quando la moglie è in vacanza (The Seven Year Itch) di Billy Wilder, che sarebbe divenuto uno dei maggiori successi della diva, inflisse il colpo di grazia a un’unione già scricchiolante per la feroce gelosia dello sportivo italoamericano. Marilyn e DiMaggio divorziarono il 27 ottobre dello stesso anno.

Un fotogramma della celebre scena di Quando la moglie è in vacanza

Il 29 giugno 1956 Marilyn sposò il drammaturgo Arthur Miller, celebre autore di opere come Il crogiuolo, Erano tutti miei figli e Morte di un commesso viaggiatore. I media non furono teneri con la coppia, sottolineando in ogni modo l’antitesi tra la sex symbol e il letterato. La rivista Variety titolò Egghead Weds Hourglass: nello slang statunitense, letteralmente, Testa d’uovo (intellettuale) sposa clessidra (donna tutte curve).

Marilyn e Arthur Miller

Marilyn aveva appena compiuto 30 anni e già affermava di odiare Hollywood e di desiderare una famiglia e una vita normale, lontana dai riflettori. La sua carriera iniziava a mostrare i segni di un precoce declino. Voleva un figlio, ma in diverse occasioni non riuscì a portare a termine la gravidanza, in parte a causa dell’endometriosi di cui soffriva. Rientrata dall’Inghilterra dopo aver girato Il principe e la ballerina (The Prince and the Showgirl, 1957), che fu un totale insuccesso, ebbe una gravidanza ectopica; l’anno successivo, poco dopo aver concluso le riprese di A qualcuno piace caldo (Some Like It Hot, 1958) ebbe un aborto spontaneo. Nella sua vita, Marilyn ebbe in totale almeno 12 aborti.

Marilyn e Laurence Olivier ne Il principe e la ballerina

A qualcuno piace caldo, diretto da Billy Wilder e co-interpretato da Jack Lemmon e Tony Curtis, ebbe un successo straordinario e fu acclamato da pubblico e critica: sembrava la scintilla ideale per rilanciare la carriera di Marilyn, che vinse il Golden Globe come miglior attrice in un film commedia o musicale. La produzione del film, però, fu estremamente travagliata: Marilyn dimenticava spesso il copione, non seguiva le direttive del regista e chiedeva di rigirare le scene dozzine di volte, al punto che Tony Curtis dichiarò che baciarla era come baciare Hitler. Il regista Billy Wilder, nonostante i leggendari litigi sul set, in seguito descrisse il film come il suo più grande successo e dichiarò che lavorare con Marilyn era così difficile perché era del tutto imprevedibile, definendola un genio assoluto come attrice comica.

Marilyn in A qualcuno piace caldo

Marilyn si prese una pausa fino alla fine del 1959, quando accettò di recitare in Facciamo l’amore (Let’s Make Love) di George Cukor per rispettare il contratto con la 20th Century Fox. Durante le riprese ebbe una breve relazione col co-protagonista Yves Montand, marito dell’attrice Simone Signoret. Marilyn smentì pubblicamente il flirt, ma la stampa lo reclamizzò al punto da renderlo parte della campagna pubblicitaria del film, che si rivelò comunque un flop.

In quel periodo Marilyn iniziò a vedere uno psichiatra, il dottor Ralph Greenson: soffriva di insonnia e ingeriva eccessive dosi di farmaci, dai quali stava sviluppando una forte dipendenza. Secondo Greenson, il suo stato era dovuto al deteriorarsi del rapporto con il marito, verso il quale era sempre più insofferente.

Marilyn e Yves Montand in Facciamo l’amore

Gli spostati

Gli spostati (The Misfits, 1961) di John Huston, sceneggiato da Arthur Miller e co-interpretato da Clark Gable, Eli Wallach e Montgomery Clift, è un’analisi del malessere nella società statunitense attraverso la storia di una piccola comunità di sbandati che si illudono di essere dei ribelli senza padrone.

A Reno (Nevada) per divorziare dal marito assente, la bella e vulnerabile Roslyn (Marilyn) stringe amicizia con Gay (Gable), cowboy di mezza età, Guido (Wallach), meccanico e aviatore, e Perce (Clift), cowboy da rodeo. I tre, turbando la sensibilità di Roslyn, vanno a caccia di cavalli selvaggi da vendere a peso per farne cibo per cani. Roslyn si innamora, ricambiata, di Gay, che libera in suo omaggio lo splendido stallone catturato e domato a prezzo di una lotta furiosa.

Marilyn tra Montgomery Clift e Clark Gable sul set de Gli spostati

Arthur Miller aveva scritto la sceneggiatura del film come regalo di San Valentino per Marilyn, con un ruolo creato appositamente per lei, ma pochi mesi dopo il loro matrimonio era già naufragato: Marilyn odiava il fatto che il marito avesse basato sulla sua vita il personaggio di Roslyn, considerandolo inoltre inferiore alle parti maschili, e non sopportava la sua abitudine di riscrivere le scene la notte prima di girarle. In questa sorta di ritratto indiretto, tuttavia, Marilyn diede finalmente prova del proprio talento drammatico.

Marilyn con Clift, Gable, Wallach, Huston e Miller sul set de Gli spostati

Il rapporto con Miller si era comunque già da tempo incrinato per l’incompatibilità di carattere tra i due, che sarebbe poi diventata la motivazione ufficiale del loro divorzio. Marilyn, sul set come nella vita privata, era in quel periodo particolarmente instabile per l’abuso di alcool e farmaci, tra i problemi di salute cronici e le continue interruzioni di gravidanza.

Lo scrittore Truman Capote avrebbe voluto lei per interpretare Holly Golightly nell’adattamento cinematografico del suo Colazione da Tiffany (Breakfast at Tiffany’s), le cui riprese sarebbero iniziate nell’ottobre 1960, ma i produttori temevano che Marilyn avrebbe creato complicazioni e il ruolo andò ad Audrey Hepburn.

Le riprese de Gli spostati ebbero il via nel luglio 1960, nel torrido deserto del Nevada. Marilyn soffriva di calcoli biliari e assumeva farmaci sia per riposare che per svegliarsi, al punto che di solito veniva truccata mentre dormiva sotto l’effetto dei barbiturici. La sua dipendenza era talmente grave che nell’agosto 1960 il regista John Huston interruppe le riprese per due settimane per permetterle di disintossicarsi in ospedale.

Marilyn e il regista John Huston

Nel 1950 Huston aveva lanciato Marilyn nel suo primo ruolo di rilievo in Giungla d’asfalto e ne aveva visto poi crescere il mito: per un amaro scherzo del destino, diresse anche il suo ultimo film. Anni dopo, dichiarò di essere assolutamente certo che Marilyn fosse condannata: C’erano prove davanti a me quasi ogni giorno. Non poteva salvarsi o essere salvata da qualcun altro. I suoi dannati dottori l’avevano resa dipendente dai sonniferi.

Marilyn aveva problemi a ricordare le battute e non arrivava mai sul set prima delle 11:30, oltre due ore di ritardo rispetto a quanto stabilito; regista e attori, spazientiti, decisero di posticipare a quell’orario l’inizio delle riprese. Il più insofferente era Clark Gable, che per contratto lavorava solo dalle 9:00 alle 17:00 per poi tornare a casa dalla moglie incinta.

Marilyn e Gable ne Gli spostati

Benché da tempo malato di cuore e accanito fumatore, Gable rifiutò la controfigura in quasi tutte le scene più pericolose, in quella che sarebbe stata considerata una delle sue migliori interpretazioni. Le riprese terminarono il 4 novembre 1960; Gable ebbe un infarto due giorni dopo e morì il 16 novembre a soli 59 anni. La vedova dichiarò aspramente che lo stato di eterna attesa di Marilyn aveva contribuito alla prematura morte del marito.

Gli spostati fu quindi sia l’ultimo film completo di Marilyn che l’ultimo film di Gable, idolo d’infanzia della diva: in una delle sue ultime interviste, Marilyn confessò di aver fantasticato spesso che Gable fosse il padre che non aveva mai conosciuto.

Marilyn e Gable ne Gli spostati

L’11 novembre Marilyn e Arthur Miller si separarono ufficialmente, per poi divorziare il 24 gennaio 1961 a Ciudad Juárez, in Messico, dopo cinque anni di matrimonio. Gli spostati venne distribuito l’1 febbraio 1961 e fu un disastro al botteghino, ma la critica elogiò la sceneggiatura e le interpretazioni del quartetto di attori principali; la pellicola è stata recentemente rivalutata, tanto da essere considerata un cult degli Anni ’60.

Marilyn era ormai al limite: il 7 febbraio 1961, sempre più spesso preda di turbe psichiche, si recò volontariamente al Payne Whitney Psychiatric Clinic, l’ospedale psichiatrico di New York, sotto il falso nome di Faye Miller. Ben presto la casa di cura divenne per lei una prigione: chiese aiuto all’ex marito Joe DiMaggio, con cui aveva ristabilito un rapporto di amicizia, che riuscì a farla uscire e trasferire al Columbian Presbyterian, da cui venne dimessa poco dopo.

Marilyn e Joe DiMaggio all’epoca del loro matrimonio

A maggio subì un intervento chirurgico per l’endometriosi, a giugno una colecistectomia: dimessa l’11 luglio, fu colpita da un microfono durante l’assalto dei giornalisti. Non girò alcun film per tutto il 1961. Nel frattempo aveva iniziato una relazione con l’amico di lunga data Frank Sinatra, che durò diversi mesi: Sinatra aveva promesso di sposarla, ma nel gennaio 1962 la lasciò definitivamente annunciando il proprio matrimonio con l’attrice e ballerina Juliet Prowse, che poi non avvenne.

Marilyn e Frank Sinatra

Something’s Got to Give, i Kennedy e la morte

Something’s Got to Give (1962), diretto da George Cukor per la 20th Century Fox, doveva essere il remake della screwball comedy Le mie due mogli (My Favorite Wife, 1940) di Garson Kanin, con Cary Grant e Irene Dunne: oltre a Marilyn, il cast comprendeva Dean Martin e Cyd Charisse.

La fotografa Ellen Arden (Marilyn), moglie di Nick (Martin) e madre di due bambini, è dispersa in mare da cinque anni. Nick la fa dichiarare legalmente morta e si risposa con Bianca Russell (Charisse), ma proprio allora Ellen viene ritrovata su un’isola deserta e torna a casa. I figli non la riconoscono, ma la prendono in simpatia e la invitano a restare. Venuta a conoscenza del matrimonio di Nick e decisa a riconquistare la propria famiglia, Ellen decide di rivelarsi facendosi passare per la nuova tata svedese Ingrid Tic, catapultando Nick in un delicatissimo triangolo amoroso.

Marilyn sul set di Something’s Got to Give

Assente dallo schermo da oltre un anno, da tempo in precarie condizioni di salute e reduce dall’intervento alla cistifellea, Marilyn aveva perso più di 11 kg, raggiungendo il peso più basso della sua vita adulta. L’inizio delle riprese di Something’s Got to Give, previsto per gennaio 1962, era stato quindi posticipato a fine aprile per permetterle un pieno recupero.

Il 9 aprile 1962 Marilyn informò il produttore di Something’s Got to Give, Henry T. Weinstein, che la Casa Bianca le aveva chiesto di esibirsi in occasione del compleanno del Presidente John Fitzgerald Kennedy, a maggio: Weinstein l’aveva autorizzata, credendo che non ci sarebbero stati problemi sul set. Marilyn e JFK erano amanti probabilmente fin dal 1957, quando lui era ancora senatore del Massachusetts. Intermediari per i loro incontri erano stati Frank Sinatra e l’attore Peter Lawford, cognato del Presidente: Lawford aveva messo più volte la propria casa a loro disposizione.

Peter Lawford e JFK

Il 23 aprile, primo giorno di riprese, Marilyn telefonò a Weinstein per avvisarlo che non sarebbe stata presente a causa di una sinusite, contratta probabilmente dopo essersi recata all’Actors Studio di New York dall’insegnante di recitazione Lee Strasberg, per rivedere insieme la parte. La diagnosi del medico inviato dallo studio avrebbe posticipato le riprese del film di un altro mese, ma il regista George Cukor si rifiutò di aspettare e riorganizzò il programma in modo da iniziare a girare le scene in cui non compariva Marilyn.

Marilyn e il regista George Cukor sul set di Something’s Got to Give

Nel mese successivo le riprese proseguirono per lo più senza Marilyn, quasi sempre assente a causa di febbre, mal di testa, sinusite cronica e bronchite, e si accumularono altri 10 giorni di ritardo. La produzione era già fuori budget e la sceneggiatura, ancora in divenire, veniva riscritta ogni notte, costringendo una sempre più frustrata Marilyn a dover memorizzare nuove scene ogni giorno. Con l’avvicinarsi del compleanno del Presidente Kennedy (29 maggio), nessuno pensava che Marilyn avrebbe mantenuto il suo impegno con la Casa Bianca.

Il 19 maggio, invece, Marilyn partecipò ai festeggiamenti anticipati per il 45° compleanno del Presidente al Madison Square Garden di New York indossando l’iconico abito attillato in tessuto trasparente color carne con 2.500 strass cuciti all’esterno, che la faceva apparire nuda. Davanti a circa 15.000 persone, rivolgendosi al Presidente con voce intima e sensuale, cantò la celebre Happy Birthday, Mr. President, sostituendo Mr. President al nome di Kennedy nel tradizionale testo di Happy Birthday to You.

Happy Birthday, Mr. President

Il Presidente la ringraziò affermando che dopo aver ascoltato degli auguri di compleanno tanto dolci, poteva anche ritirarsi dalla politica, ma già da tempo aveva preso le distanze dall’attrice: il regalo di compleanno di Marilyn, un Rolex d’oro con incisa la frase Jack, with love as always from Marilyn, May 29th 1962 (Jack, con amore come sempre da Marilyn, 29 maggio 1962), venne donato a un dipendente. La performance di Marilyn fu una delle sue ultime apparizioni pubbliche di rilievo prima della sua morte, avvenuta meno di tre mesi dopo.

Marilyn tra Robert Kennedy e John Fitzgerald Kennedy

Il viaggio a New York aveva ulteriormente inasprito i rapporti con i dirigenti della 20th Century Fox, ma al suo ritorno Marilyn decise di dare a Something’s Got to Give una sensazionale spinta pubblicitaria facendo qualcosa che nessuna grande attrice di Hollywood aveva mai fatto prima.

In una scena del film, Ellen (Marilyn) nuota in piscina di notte, vede Nick (Martin) alla finestra e lo invita a unirsi a lei; Nick le chiede di uscire dalla piscina, quando si rende conto che Ellen è nuda. Marilyn avrebbe dovuto indossare un body, ma lo tolse subito per nuotare solo con lo slip di un bikini color carne. Se Something’s Got to Give fosse stato completato e distribuito come previsto, Marilyn sarebbe stata la prima stella del cinema a comparire in topless in un film di Hollywood nell’era del sonoro; un primato che spetterà invece all’attrice Jayne Mansfield nel misconosciuto Promises! Promises! dell’anno successivo (1963).

Marilyn in Something’s Got to Give

Quel 23 maggio sul set dovevano essere presenti solo i membri della troupe necessari a girare la scena, ma Marilyn aveva fatto entrare diversi fotografi, che l’avevano immortalata con e senza costume da bagno. Volendo spingere Liz Taylor fuori dalle copertine, nei mesi successivi permise a diverse riviste di pubblicare foto di lei parzialmente nuda. La copertina della rivista Life del 22 giugno mostrava Marilyn avvolta in un accappatoio di spugna blu con il titolo: A skinny dip you’ll never see on the screen (Un bagno nudo che non vedrete mai al cinema).

Marilyn sulla copertina di Life

L’1 giugno 1962, giorno del suo 36° compleanno, Marilyn girò una scena in giardino con Dean Martin e Wally Cox: sarà il suo ultimo giorno su un set cinematografico. Il 4 giugno Marilyn telefonò al produttore Weinstein per notificargli la propria assenza quel giorno, lamentando febbre e il riacutizzarsi della sinusite: fino a quel momento, era stata presente solo 12 giorni su 35.

Marilyn festeggia il proprio compleanno sul set col regista George Cukor

L’8 giugno la 20th Century Fox decise di licenziarla, fortemente appoggiata del regista Cukor, intentando contro di lei una causa da oltre mezzo milione di dollari. La decisione di licenziare Marilyn fu senza dubbio influenzata dalla massiccia debacle finanziaria in cui versava in quel periodo la 20th Century Fox per le riprese di Cleopatra (1963) di Joseph L. Mankiewicz, ancora oggi il film più costoso della storia del cinema: a fronte dei 2 milioni di dollari stimati inizialmente per la sua realizzazione, la pellicola ne avrebbe richiesti 44 (corrispondenti a 372 milioni di dollari attuali), rischiando di far fallire la casa di produzione.

Locandina di Cleopatra

I dirigenti della 20th Century Fox avevano pianificato l’uscita di Something’s Got to Give durante le vacanze di Natale di quell’anno proprio per compensare i costi di Cleopatra: alla disperata ricerca di un capro espiatorio per salvare la faccia, iniziarono una campagna denigratoria a mezzo stampa scandalistica contro Marilyn, additando la sua sregolatezza come causa di un millantato sforamento del budget di oltre 1 milione di dollari, accusandola di aver finto di essere malata e diffondendo addirittura la voce che fosse mentalmente disturbata.

Il ruolo di Marilyn fu offerto a Kim Novak e Shirley MacLaine, ma entrambe rifiutarono; trapelò il nome di Lee Remick, che aveva provato gli abiti di scena ed era stata fotografata con il regista, ma la notizia si rivelò una montatura della stampa. Dean Martin si rifiutò di continuare senza Marilyn e minacciò di abbandonare il film.

Marilyn e Martin in Something’s Got to Give

Per riscattare la propria immagine pubblica, Marilyn si lanciò in una serie di iniziative pubblicitarie, tra cui varie interviste per le riviste Life e Cosmopolitan e due servizi fotografici con Bert Stern per Vogue: uno doveva essere un classico editoriale di moda, nell’altro Marilyn posò nuda. Nei tre giorni di lavoro all’Hotel Bel-Air di Hollywood, Stern le scattò in totale 2.571 foto, che pubblicò solo nel 1982 raccogliendole nel libro The Last Sitting.

Marilyn fotografata da Bert Stern

Le riprese di Something’s Got to Give avevano ormai raggiunto una rovinosa fase di stallo. La 20th Century Fox pensò addirittura di utilizzare il materiale già girato con Marilyn aggiungendo solo una controfigura per le scene mancanti, ma presto si pentì di averla licenziata, riaprì le negoziazioni verso fine giugno e dovette sottostare alle sue condizioni: Marilyn avrebbe ricevuto 500.000 dollari per Something’s Got to Give, le cui riprese sarebbero state posticipate a ottobre, e altrettanti per un altro film, più bonus se completati in tempo; George Cukor sarebbe stato sostituito alla regia da Jean Negulesco, che aveva diretto Marilyn in Come sposare un milionario.

Il 13 luglio 1962, Marilyn posò sulla spiaggia di Santa Monica per il fotografo e amico George Barris, con cui aveva lavorato 8 anni prima in Quando la moglie è in vacanza. Le foto, che per anni Barris rifiutò di pubblicare, vedono Marilyn in bikini arancione, avvolta in un telo da mare verde e con indosso un pullover di lana a maglia larga: saranno gli ultimi scatti della diva.

Marilyn fotografata da George Barris

Col passare del tempo, faceva sempre più freddo. Marilyn voleva smettere.
Questa è l’ultima. -le dissi-
Ok, George. -rispose lei- Questa è solo per te.
Si sporse in avanti e mandò un bacio alla telecamera. Era l’ultima foto che le avrei mai scattato.

(George Barris sull’ultima foto di Marilyn)
L’ultima foto di Marilyn

In quel periodo Marilyn viveva nella sua residenza di Brentwood, a Los Angeles, che aveva acquistato a gennaio di quell’anno. Dopo la fine della relazione col Presidente Kennedy era divenuta amante di suo fratello Robert, allora Procuratore generale, e aveva confidato ad amici e perfino giornalisti che presto avrebbe sposato un uomo molto importante, dichiarando inoltre di essere incinta. Non si conosceva l’identità del padre del nascituro, ma si presumeva potesse essere proprio Robert Kennedy.

Nel frattempo, l’attore e cognato di Kennedy Peter Lawford aveva assunto l’investigatore privato Fred Otash per spiarla, registrandone le conversazioni: secondo Otash, Marilyn era davvero incinta e aveva poi abortito in Messico, forse costretta, con l’aiuto di un medico statunitense che l’aveva seguita oltre confine. L’1 agosto Marilyn firmò il nuovo contratto con la 20th Century Fox.

Peter Lawford e Robert Kennedy

La notte del 5 agosto 1962 la domestica Eunice Murray si svegliò verso le 3:00 e vide la luce accesa sotto la porta della camera da letto di Marilyn: provò a chiamarla, ma nessuno rispose; la porta era chiusa a chiave dall’interno. Alle 3:30 la domestica telefonò allo psichiatra di Marilyn, il dottor Greenson, che arrivò poco dopo e riuscì a entrare nella camera da una finestra: Marilyn giaceva morta nel suo letto, nuda e con in mano la cornetta del telefono. Aveva 36 anni. Alle 3:50 circa il suo medico personale, Hyman Engelberg, ne dichiarò la morte. La polizia di Los Angeles fu avvisata alle 4:25.

Il dottor Thomas Noguchi, medico legale della contea di Los Angeles, eseguì l’autopsia sul cadavere: Marilyn era morta tra le 20:30 e le 22:30 del 4 agosto per avvelenamento acuto da barbiturici. Nel sangue aveva 8 mg% (milligrammi per 100 millilitri di soluzione) di idrato di cloralio e 4,5 mg% di pentobarbital, nel fegato 13 mg% di pentobarbital: quantità di gran lunga superiori al dosaggio letale, che esclusero immediatamente l’ipotesi di un’overdose accidentale.

Noguchi fu assistito dal Los Angeles Suicide Prevention Team. I medici di Marilyn affermarono che l’attrice era soggetta a gravi fobie e frequenti depressioni con cambiamenti d’umore improvvisi e imprevedibili e che era andata diverse volte in overdose di farmaci in passato, forse intenzionalmente. Noguchi classificò quindi la sua morte come probabile suicidio.

Thomas Noguchi

L’incerta ricostruzione degli eventi, il tempo trascorso tra la morte e la denuncia alla polizia, le incongruenze nelle dichiarazioni dei testimoni e il frettoloso referto autoptico hanno alimentato nel tempo varie teorie alternative secondo le quali Marilyn non si sarebbe suicidata, ma sarebbe stata assassinata. Tali ipotesi si basano soprattutto sulle possibili rivelazioni di Marilyn sulle sue relazioni coi Kennedy, considerate una seria minaccia per la loro carriera politica, o su una vendetta della mafia statunitense nei confronti della famiglia Kennedy per le promesse fatte in campagna elettorale e non mantenute.

Già all’epoca si diffuse la voce che Robert Kennedy e Peter Lawford fossero nella casa dell’attrice poche ore prima della sua morte, confermata solo 10 anni fa dalla divulgazione degli archivi segreti dell’investigatore Fred Otash. Nei dossier, Otash parla di una violenta discussione tra Marilyn e Robert Kennedy sulla loro relazione, sull’impegno che lui aveva preso con lei, sul fatto che i Kennedy e i loro amici l’avessero resa un oggetto sessuale da passarsi l’un l’altro: Marilyn gridava disperata, mentre Kennedy e Lawford cercavano di calmarla.

Otash avrebbe saputo della morte di Marilyn solo nelle prime ore del giorno successivo, quando Lawford lo avrebbe chiamato chiedendogli di rimuovere qualsiasi elemento incriminante dalla casa: prove di cui da allora non v’è alcuna traccia, compresi i presunti nastri delle conversazioni. Nel 1982 un’indagine formale del procuratore generale della contea di Los Angeles John Van de Kamp si concluse in un nulla di fatto.

Fred Otash

A oggi non esiste alcuna evidenza di omicidio, ma neppure un’inconfutabile prova che Marilyn si sia suicidata: la fragilità psichica, le dipendenze dai farmaci e le relazioni con uomini di potere l’avevano resa un pericolo per sé stessa, ma l’avevano anche esposta alla mercé di persone senza scrupoli.

Il film Something’s Got to Give non fu mai portato a termine. Per anni non si seppe più nulla nemmeno del footage, che raccoglie le ultime scene in cui compare Marilyn: 9 ore di riprese e parti sonore rimasero inutilizzate negli archivi della 20th Century Fox fino al 1989, quando vennero ritrovate dalla Fox Entertainment News e assemblate in un documentario di un’ora intitolato Marilyn: Something’s Got to Give. L’1 giugno 2001, in occasione del 75° compleanno di Marilyn, un segmento di 37 minuti del documentario venne trasmesso dal canale satellitare AMC col titolo Marilyn Monroe: The Final Days ed è attualmente disponibile su YouTube.

Marilyn Monroe: The Final Days

Dopo la morte di Marilyn, la 20th Century Fox riprese immediatamente il progetto di Something’s Got to Give, mantenendo la trama e riutilizzando gran parte dei set, insieme ad acconciature e costumi in precedenza ideati per la diva. Furono invece rinnovati troupe, cast e titolo: Fammi posto tesoro (Move Over, Darling), diretto da Michael Gordon, vide Doris Day e James Garner nei ruoli di Marilyn Monroe e Dean Martin. Garner era stato a suo tempo la scelta iniziale per la parte, ma aveva preferito recitare ne La grande fuga di John Sturges ed era stato sostituito da Dean Martin.

Fammi posto tesoro venne distribuito nel dicembre 1963, esattamente un anno dopo l’uscita prevista per Something’s Got to Give: Marilyn Monroe non c’era più, ma ancora una volta lo spettacolo doveva continuare.

Locandina di Fammi posto tesoro

Premi Oscar 2022

La 94ª edizione degli Academy Awards sarà purtroppo ricordata per quello che molti hanno definito il momento più brutto nella storia degli Oscar. Durante la presentazione del premio per il miglior documentario, il comico Chris Rock si è rivolto alla moglie di Will Smith, Jada Pinkett Smith, paragonandola alla Demi Moore del film Soldato Jane per la sua testa rasata. Pinkett Smith soffre di alopecia e il suo disappunto per la pessima battuta, all’insegna del body shaming, ha innescato la violenta e ingiustificabile reazione del marito Will Smith, che è salito sul palco e ha schiaffeggiato il presentatore.

Poco dopo, Smith ha ricevuto il suo primo Oscar in carriera come miglior attore protagonista: in lacrime durante il discorso di accettazione, l’attore si è scusato con l’Academy e con gli altri candidati per il proprio gesto sconsiderato, motivandolo con l’amore verso i propri cari e ricevendo dal pubblico una standing ovation decisamente fuori luogo.

Una famiglia vincente – King Richard

L’Oscar a Will Smith era il più scontato della serata: per il ruolo di Richard Williams nel biopic Una famiglia vincente – King Richard, storia del padre e allenatore delle sorelle campionesse di tennis Venus e Serena Williams, l’attore aveva già vinto i maggiori premi internazionali (Golden Globe, Screen Actors Guild Award, Critics Choice Award e BAFTA). Una lodevole interpretazione in un film godibile e ben costruito, seppur leggermente sminuito dall’etichetta di ennesimo stereotipo del sogno americano.

Nettamente sfavoriti alla vigilia gli altri candidati, nonostante l’eccellente performance di Benedict Cumberbatch (Il potere del cane) il momento d’oro di Andrew Garfield (Tick, Tick… Boom!) e il solito intramontabile Denzel Washington (Macbeth).

Il potere del cane

Il potere del cane ha conquistato l’altra statuetta ampiamente annunciata, la sua unica a fronte di 12 nomination (il numero più alto in questa edizione): l’Oscar al miglior regista è andato infatti alla neozelandese Jane Campion, prima donna a essere candidata più di una volta per il premio e già vincitrice del Leone d’argento alla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia. Dopo la vittoria dello scorso anno di Chloé Zhao con Nomadland, è la prima volta che l’Oscar viene assegnato a una donna per due edizioni consecutive.

Suggestive inquadrature e notevoli riprese dall’alto in un film solo all’apparenza definibile western: Il potere del cane è un dramma cupo e inquietante, con personaggi ambigui e un’atmosfera intrisa di perversione. Bravi gli attori (Kirsten Dunst, Jesse Plemons e il luciferino Kodi Smit-McPhee, oltre a Cumberbatch), tutti e quattro candidati all’Oscar.

CODA – I segni del cuore

Decisamente troppe le 10 pellicole candidate all’Oscar per il miglior film, la metà delle quali non aveva alcuna possibilità di vittoria. Il premio è infine andato con merito a un outsider: CODA – I segni del cuore. Remake de La famiglia Bélier (2014) di Éric Lartigau, CODA è l’acronimo di Child Of Deaf Adult, ossia persona udente cresciuta da genitore sordo: la protagonista Ruby Rossi (Emilia Jones) è l’unico membro udente della propria famiglia, avendo padre, madre e fratello sordi, e ha una grande passione per la musica.

La pellicola affronta una tematica delicata da un punto di vista originale e coinvolgente: la disabilità non è rappresentata come un dramma, ma come qualcosa di speciale come il legame che crea tra le persone. CODA pone luce con leggerezza e semplicità sulla difficoltà di comunicare in contesti ancora impreparati alla diversità e sulla caparbietà nel superarla. Un film allegro e allo stesso tempo emozionante, dal messaggio fortemente positivo, diverso da tutti gli altri in gara.

Marlee Matlin, la madre di Ruby nel film, è stata la prima interprete sorda a conquistare un Oscar e la donna più giovane a vincere la statuetta come miglior attrice protagonista per Figli di un dio minore (1986), debuttando all’età di 21 anni: lei e Troy Kotsur, premiato come miglior attore non protagonista per la magnifica interpretazione del padre di Ruby, sono quindi gli unici due attori sordi ad aver vinto un Oscar. Grande soddisfazione anche per la regista e sceneggiatrice Siân Heder, che si aggiudica il premio per la miglior sceneggiatura non originale. Un vero e proprio trionfo per CODA, che conquista tutti e tre gli Oscar per cui era candidato.

Gli occhi di Tammy Faye

Se l’Oscar al miglior attore era praticamente già assegnato, molto più tirata è stata la sfida per l’Oscar alla miglior attrice, dove il testa a testa tra Nicole Kidman e Jessica Chastain si è concluso con la vittoria di quest’ultima per Gli occhi di Tammy Faye, film biografico incentrato sulla vita della famosa telepredicatrice: una statuetta meritata in un film piuttosto lento e fiacco, trascinato quasi unicamente dalla sua performance; premiati con l’Oscar anche i trucchi e le acconciature, impeccabili al punto da rendere l’attrice irriconoscibile.

Nicole Kidman, già vincitrice del Golden Globe per A proposito dei Ricardo, è stata poco aiutata da un film abbastanza piatto e da un’interpretazione un po’ troppo asettica di quella Lucille Ball resa celebre dalla sensazionale mimica facciale e dalla strepitosa verve comica. Davvero difficile la scelta finale, considerato anche il livello delle altre tre candidate: la sorprendente Kristen Stewart nel ruolo di Lady Diana in Spencer, la splendida Penelope Cruz in Madres paralelas di Pedro Almodóvar e la sempre bravissima Olivia Colman ne La figlia oscura di Maggie Gyllenhaal, quest’ultima penalizzata forse dall’aver condiviso la scena con la stella emergente Jessie Buckley, a sua volta candidata come miglior attrice non protagonista.

West Side Story

Era davvero impossibile per West Side Story replicare il successo dell’omonimo capolavoro girato 60 anni prima (1961), vincitore di 10 Oscar e considerato uno dei migliori musical di tutti i tempi. La pellicola, diretta da Steven Spielberg, è riuscita però a ritagliarsi uno spazio importante in questa rassegna degli Academy Awards grazie alla statuetta conquistata da Ariana DeBose come miglior attrice non protagonista nel ruolo di Anita, entrando di diritto nella storia del cinema: l’attrice interprete di Anita nel film del 1961, Rita Moreno, aveva infatti vinto a sua volta l’Oscar come miglior attrice non protagonista.

Anita raggiunge quindi Don Corleone e Joker tra i personaggi le cui interpretazioni hanno guadagnato più di un Oscar, ma la sua doppietta è, se vogliamo, ancora più speciale: mentre gli altri compaiono in due distinte narrazioni (Il padrino e Il padrino – Parte II, Il cavaliere oscuro e Joker), in questo caso l’interpretazione dello stesso personaggio in entrambi gli adattamenti cinematografici della stessa opera viene premiata con lo stesso Oscar.

Belfast

Kenneth Branagh ha finalmente conquistato il suo primo Oscar in carriera per la sceneggiatura originale del semi-autobiografico Belfast: un degno riconoscimento per uno degli artisti più poliedrici del panorama cinematografico mondiale, come testimoniato dallo straordinario dettaglio delle 7 diverse nomination su 8 totali (film, regista, attore protagonista, attore non protagonista, sceneggiatura non originale, sceneggiatura originale, cortometraggio) in oltre 30 anni (la prima nel 1990).

Il suo Belfast è un film intenso e coraggioso sul conflitto nordirlandese tra cattolici e protestanti visto dalla prospettiva di un bambino, con un’iconica fotografia in bianco e nero e ottimi interpreti, piccoli e grandi, tra i quali spicca la performance di Ciarán Hinds nel ruolo del nonno.

Drive My Car

Quasi scontato l’Oscar come miglior film internazionale a Drive My Car di Ryūsuke Hamaguchi (Giappone), candidato anche nelle categorie Miglior film, Miglior regista e Miglior sceneggiatura non originale e dato per favorito rispetto a Flee (Danimarca), La persona peggiore del mondo (Norvegia) e al nostro È stata la mano di Dio di Paolo Sorrentino.

Già vincitore del Golden Globe per il miglior film in lingua straniera e del Prix du scénario (premio alla migliore sceneggiatura) al Festival di Cannes, Drive My Car è un dramma introspettivo sul rimpianto e l’accettazione di sé stessi, ma anche un omaggio al teatro, alla sua capacità di unire personalità e linguaggi diversi, al potere che esercita su chi vi si dedica. Un film impegnativo, ancora di più per la durata di quasi tre ore, ma senza dubbio da vedere.

Dune

A sorpresa, il film più premiato in questa edizione degli Academy Awards è stato Dune di Denis Villeneuve, prima parte dell’adattamento cinematografico dell’omonimo romanzo di Frank Herbert già portato sullo schermo nel 1984 da David Lynch, vincitore di 6 Oscar su 10 nomination: fotografia, montaggio, sonoro, scenografia, effetti speciali e colonna sonora al leggendario Hans Zimmer, alla seconda statuetta in carriera dopo quella per Il re leone (1995).

Un avvincente film di fantascienza supportato da un pregevole cast corale comprendente Timothée Chalamet, Rebecca Ferguson, Oscar Isaac, Zendaya, Jason Momoa, Josh Brolin, Stellan Skarsgård, Javier Bardem e Charlotte Rampling.

Il remake vince facilmente il confronto con il film originale, sommerso a suo tempo da critiche ben poco lusinghiere:

Molti dei personaggi di Dune sono sensitivi, il che li mette nella posizione unica di essere in grado di capire ciò che accade nel film.

Janet Maslin

Ci sono voluti a Dune circa nove minuti per spogliarmi completamente di ogni aspettativa.
Questo film è un vero casino, un’incomprensibile, brutta, non strutturata, inutile escursione nei reami più oscuri di una delle sceneggiature più confuse di tutti i tempi.

Roger Ebert

L’Oscar onorario è stato assegnato agli attori Samuel L. Jackson, Elaine May e Liv Ullmann, mentre Danny Glover ha ricevuto il Premio umanitario Jean Hersholt per il suo decennale impegno nella difesa della giustizia e dei diritti umani. Crudelia, reboot e prequel de La carica dei 101, premiato con l’Oscar per i migliori costumi. Miglior film d’animazione Encanto, 60° classico Disney, miglior canzone No Time To Die di Billie Eilish e Finneas O’Connell per l’omonimo film, 25° capitolo della saga di James Bond.

Zero Oscar!

Grande delusione, infine, per tante pellicole pluricandidate, alcune delle quali annunciate come possibili outsider: La figlia oscura, Licorice Pizza, La persona peggiore del mondo, A proposito dei Ricardo, Macbeth, Tick, Tick… Boom!, Madres paralelas, Don’t Look Up e La fiera delle illusioni – Nightmare Alley tornano a casa senza nemmeno una statuetta.

Concorrenza sleale (Ettore Scola, 2001)

Concorrenza sleale è un film del 2001 diretto da Ettore Scola e interpretato da Diego Abatantuono, Sergio Castellitto, Gérard Depardieu, Elio Germano, Sabrina Impacciatore, Jean-Claude Brialy e Claudio Bigagli.

A Roma, nel 1938, due commercianti di stoffa si fanno una concorrenza agguerrita: l’elegante boutique di Umberto Melchiorri (Diego Abatantuono), originario di Milano, realizza abiti su misura; il vivace negozio di Leone Della Rocca (Sergio Castellitto), ebreo romano, vende capi confezionati. I due cercano continuamente nuove strategie per attrarre i clienti, non sempre corrette, e spesso si azzuffano per futili motivi.

All’astio tra i capifamiglia fanno da contraltare la grande amicizia dei figli più piccoli, Pietro e Lele, e la storia d’amore tra i figli maggiori, Paolo (Elio Germano) e Susanna.

Il rapporto tra Umberto e Leone, giunto ormai ai limiti dell’odio personale, cambia radicalmente con la proclamazione delle leggi razziali: Umberto, non condividendone i principi e vedendo Leone ingiustamente maltrattato, inizia a guardare il rivale sotto una luce diversa.

Diego Abatantuono, Sergio Castellitto e Jean-Claude Brialy in Concorrenza sleale

Il cinema ha spesso fornito un contributo divulgativo essenziale sull’Olocausto, producendo capolavori senza tempo entrati ormai nell’immaginario collettivo. In Concorrenza sleale, Ettore Scola riesce a esprimere un punto di vista originale e sincero sull’argomento, senza mai ricadere nel lacrimevole: proprio laddove l’antipatia e il disprezzo personale sono più tangibili, non c’è nessun odio razziale. Anzi, dal nulla affiorano solidarietà, comprensione, rispetto, perché nemmeno l’odio pregresso può giustificare quello razziale.

La narrazione seguita da prospettive diverse (i bambini, i ragazzi, gli adulti) e la lente d’ingrandimento sui singoli rapporti umani generano nello spettatore una straordinaria empatia, una profonda condivisione dei sentimenti vissuti dai protagonisti. Il tono del film cambia all’improvviso da commedia a dramma, una sensazione spiazzante che rispecchia con accuratezza la triste realtà dei fatti: di fronte alla disumanità delle persecuzioni razziali, preoccupazioni e decisioni della vita di ogni giorno perdono di significato in un attimo.

Non può mancare il fiero e irriducibile antifascismo di Scola, affidato con un geniale tocco di classe ai personaggi secondari: il professor Angelo Melchiorri (Gérard Depardieu), fratello di Umberto, l’orologiaio, la moglie e il cognato di Umberto, la commessa della boutique (Sabrina Impacciatore), l’ispettore di polizia (Claudio Bigagli). Ognuno di loro rappresenta una diversa sfumatura della stigmatizzazione del fascismo, messo più volte alla berlina con quella sublime punta di comicità amara tipica di uno dei maestri della commedia all’italiana.

Ettore Scola

La scelta degli attori è perfetta, i ruoli estremamente calzanti: Diego Abatantuono torna a indossare i panni dell’altero ma bonario uomo del nord, ruolo in cui si è più volte esaltato sotto la direzione di Gabriele Salvatores e Pupi Avati, mentre la parte del simpatico e ingegnoso trafficone è scritta su misura per Sergio Castellitto; da segnalare una delle prime interpretazioni di rilievo di un giovanissimo Elio Germano.

La fotografia e la scenografia (premiata con il David di Donatello) ricreano in maniera fedele e suggestiva la realtà dell’epoca, tanto che alcune inquadrature sembrano dei dipinti. Alcuni set del film, girato interamente negli studi di Cinecittà, verranno poi riutilizzati l’anno successivo da Martin Scorsese per il suo Gangs of New York (2002).

Daniel Day-Lewis in Gangs of New York

Il cinema e le leggi razziali

L’ambientazione storica nell’Italia del biennio 1938-39 lega indissolubilmente Concorrenza sleale a capolavori del cinema italiano come Una giornata particolare, Il giardino dei Finzi Contini e La vita è bella, fervide e lucide testimonianze cinematografiche di uno dei capitoli più bui e infamanti della storia italiana: la proclamazione delle leggi razziali fasciste poco dopo la visita di Hitler in Italia, in un clima di esaltazione rasente la follia.

Una giornata particolare è un film del 1977 diretto dallo stesso Ettore Scola: il 6 maggio 1938, giorno in cui Adolf Hitler è in visita a Roma, in un casermone popolare della Capitale si intrecciano per qualche ora le vite di Antonietta (Sofia Loren), casalinga ignorante e madre di sei figli sposata con un fervente fascista, e Gabriele (Marcello Mastroianni), intellettuale ex radiocronista dell’EIAR (Ente Italiano per le Audizioni Radiofoniche), omosessuale e destinato al confino.

Dall’incontro di due anime infelici in quella giornata particolare emerge il dramma celato dalla normalità: l’amarezza di una donna esclusa da tutto ciò che la circonda, relegata alla servile routine giornaliera incoraggiata dal sistema; il tormento di un diverso, perseguito per le proprie opinioni e per il proprio orientamento sessuale non conformi con quanto imposto dall’ottusa ideologia fascista.

Sofia Loren e Marcello Mastroianni in Una giornata particolare

Il giardino dei Finzi Contini (1970), diretto da Vittorio De Sica e tratto dall’omonimo romanzo di Giorgio Bassani, è una delle pellicole più significative del XX secolo, premiata con l’Orso d’oro al Festival di Berlino e con l’Oscar per il miglior film straniero. Nella Ferrara del 1938, i Finzi Contini sono una facoltosa famiglia ebrea appartenente all’alta borghesia: il nucleo familiare è composto dal professor Ermanno, sua moglie Olga, i figli Micòl (Dominique Sanda) e Alberto (Helmut Berger) e la nonna Regina.

La promulgazione delle leggi razziali stravolge la vita della comunità ebraica. Quando Giorgio (Lino Capolicchio), ebreo amico di famiglia da sempre innamorato di Micòl, viene espulso dal circolo del tennis, i Finzi Contini consentono a lui e all’amico Giampiero Malnate (Fabio Testi), milanese comunista, di frequentare il campo da tennis all’interno del maestoso giardino della propria villa. Le frustrazioni e le umiliazioni perpetrate dalla crescente discriminazione razziale, cui fa da sfondo il tormentato rapporto tra Giorgio e Micòl, seguono l’inesorabile precipitare degli eventi, fino al tragico epilogo.

Lino Capolicchio e Dominique Sanda ne Il giardino dei Finzi Contini

La vita è bella (1997), diretto e interpretato da Roberto Benigni e vincitore di tre Premi Oscar (miglior film straniero, miglior attore protagonista a Benigni e miglior colonna sonora a Nicola Piovani), è diventato una vera e propria icona del cinema italiano nel mondo. Nel 1939 Guido Orefice (Benigni), ebreo di indole allegra e giocosa, giunge ad Arezzo per lavorare come cameriere nell’hotel in cui suo zio è maître e si innamora, ricambiato, di Dora (Nicoletta Braschi), una maestra elementare. Guido e Dora si sposano e dal loro amore nasce Giosuè.

Nel 1944 l’antisemitismo, cresciuto a dismisura negli anni, è ormai diventato persecuzione: gli ebrei sono trattati come appestati, le loro attività vengono boicottate, la libreria che ha aperto Guido è quasi sempre deserta. In questo contesto, Guido cerca di proteggere il figlio (Giorgio Cantarini) dalla crudeltà che lo circonda, trovando sempre un modo nuovo di scherzarci su (celeberrimo il dialogo tra i due originato dal cartello Vietato l’ingresso agli ebrei e ai cani esposto da un negozio). Poco tempo dopo, l’apice del dramma: Guido e la sua famiglia vengono deportati in un lager, ove Guido cercherà di salvare il figlio dagli orrori dell’Olocausto, facendogli credere che sia tutto parte di un gioco basato su prove durissime in vista di uno straordinario premio finale.

Roberto Benigni, Nicoletta Braschi e Giorgio Cantarini ne La vita è bella

La visione sequenziale delle quattro pellicole rispecchia idealmente il reale ordine cronologico degli eventi: se Una giornata particolare fa da preludio alla surreale tragedia che sta per consumarsi nella quotidianità del miope popolo italiano, Concorrenza sleale e Il giardino dei Finzi Contini descrivono accuratamente l’evoluzione e gli effetti della discriminazione razziale conseguente alla proclamazione delle leggi fasciste, mentre La vita è bella chiude il capitolo raggiungendo il proprio culmine nelle atrocità dei campi di concentramento.

Un particolare e potentissimo filo conduttore unisce i film: il risentimento improvviso e ingiustificato verso il proprio simile, la crudele e grottesca atmosfera di impotenza e vessazione che inizia a pervadere la vita delle persone di diversa razza, religione o orientamento sessuale.

Un contesto reso immortale da un noto componimento spesso erroneamente attribuito a Bertolt Brecht, un sermone del pastore Martin Niemöller contro l’apatia degli intellettuali tedeschi in seguito all’ascesa del nazismo e all’epurazione dei suoi obiettivi gruppo dopo gruppo: Prima vennero…

Prima di tutto vennero a prendere gli zingari, e fui contento, perché rubacchiavano.
Poi vennero a prendere gli ebrei, e stetti zitto, perché mi stavano antipatici.
Poi vennero a prendere gli omosessuali, e fui sollevato, perché mi erano fastidiosi.
Poi vennero a prendere i comunisti, e io non dissi niente, perché non ero comunista.
Un giorno vennero a prendere me, e non c’era rimasto nessuno a protestare.

(Martin Niemöller)

Backbeat – Tutti hanno bisogno di amore (Iain Softley, 1994)

A maggio, un tweet di Paul McCartney ha rievocato profondi ricordi e suscitato grande commozione tra i più accaniti fan dei Beatles: la rockstar ha commemorato la recente scomparsa della fotografa tedesca Astrid Kirchherr, una donna che ha avuto un ruolo fondamentale nella nascita del mito dei Fab Four.

Astrid Kirchherr (autoritratto a sinistra, con Paul McCartney in alto a destra, con Stuart Sutcliffe in basso a destra)

Astrid Kirchherr conobbe i Beatles ad Amburgo nel 1960 durante il loro primo tour, restando affascinata dalla loro incredibile presenza scenica e dalla qualità della musica. Allieva del celebre fotografo tedesco Reinhart Wolf, scattò le prime fotografie di quel giovanissimo gruppo e ne influenzò profondamente il look e lo stile, contribuendo a trasformarlo in un’icona pop senza precedenti. A lei viene attribuita, in particolare, l’introduzione del taglio dei capelli a caschetto, che sarebbe diventato uno dei simboli della rock band.

I Beatles fotografati da Astrid Kirchherr durante il tour di Amburgo (da sinistra: Pete Best, George Harrison, John Lennon, Paul McCartney, Stuart Sutcliffe)

La sua vita è legata indissolubilmente a quella di Stuart “Stu” Sutcliffe, “il quinto Beatle”, la cui storia è raccontata nel film Backbeat – Tutti hanno bisogno di amore (1994) di Iain Softley.

Backbeat – Tutti hanno bisogno di amore (Iain Softley, 1994)

Il film descrive il “periodo tedesco” dei Beatles, un momento fondamentale per la loro formazione umana e artistica, ponendo l’accento sull’enigmatico bassista Stuart Sutcliffe, sulla sua fraterna amicizia con John Lennon e sulla sua storia d’amore con Astrid Kirchherr, ma anche su aspetti meno noti, come l’assunzione di anfetamine da parte del gruppo per sostenere le estenuanti e interminabili esibizioni e le profonde riflessioni di quegli adolescenti divenuti adulti così in fretta.

A sinistra, George Harrison, Stuart Sutcliffe e John Lennon fotografati da Astrid Kirchherr; a destra, Chris O’Neill, Stephen Dorff e Ian Hart in Backbeat (1994)

Stuart Sutcliffe era un pittore dallo straordinario talento, compagno di John Lennon al Liverpool College of Art e suo grande amico. Eclettico ed erudito, affascinato dall’attore Zbigniew Cybulski (“il James Dean polacco”) volle imitarlo indossando un paio di occhiali neri, acquisendo così una fascinosa aria bohémienne. Lennon e McCartney lo convinsero ad imparare a suonare il basso elettrico per entrare a far parte del loro nuovo gruppo: il nome Beatles pare vada accreditato proprio a Sutcliffe. Avendo poca predisposizione per la musica, trovò molto difficile suonare il basso e, per mascherare l’inadeguatezza tecnica, gli fu suggerito di suonare spalle al pubblico. Nonostante le difficoltà, decise di accompagnare il gruppo nella trasferta di Amburgo.

Stuart “Stu” Sutcliffe

La formazione dei Beatles comprendeva allora John Lennon (voce e chitarra), Paul McCartney (voce e chitarra), George Harrison (chitarra), Pete Best (batteria) e, appunto, Stuart Sutcliffe (basso). Durante le esibizioni, i Beatles vennero a contatto con un gruppo di studenti tedeschi seguaci dell’esistenzialismo, fra cui Astrid Kirchherr. Ben presto, Astrid e Stu si innamorarono e iniziarono una relazione.

Stephen Dorff/Stuart Sutcliffe e Sheryl Lee/Astrid Kirchherr in Backbeat (1994)

La mancanza di talento musicale di Stu portò al progressivo deterioramento dei suoi rapporti artistici e umani con Lennon e con gli altri membri del gruppo fino a indurlo alla decisione di abbandonare i Beatles. Quando il gruppo tornò nel Regno Unito, nel 1961, Stu rimase ad Amburgo per amore di Astrid e per dedicarsi finalmente alla pittura. L’anno dopo morì, a soli 22 anni, per un’emorragia cerebrale causata molto probabilmente da una frattura al cranio che aveva riportato tre anni prima in un pestaggio davanti a un locale. La sua morte giunse proprio mentre i Beatles stavano diventando un fenomeno di massa: pochi mesi dopo, il singolo I Want to Hold Your Hand avrebbe venduto 13 milioni di copie in tutto il mondo.

Backbeat – Tutti hanno bisogno di amore potrebbe essere un film scritto da ragazzi per dei ragazzi: all’inizio può sembrare banale, ma lo sguardo dei protagonisti rivela presto la sua intensa e autentica natura.

Backbeat – Tutti hanno bisogno di amore (Iain Softley, 1994)

Il vero punto di forza del film è proprio Stu: la sua sofferenza interiore, l’indecisione tipica della sua età, la sua ansia creativa alimentata da un grande talento, il suo profondo anticonformismo, superiore anche a quello di una band che avrebbe cambiato per sempre la storia della musica. Il tema principale del film è l’imprevedibilità: la fama, che quasi dal nulla fa esplodere uno dei tanti gruppi che si esibivano a quell’epoca; l’amore, che nasce dall’incontro di due personalità tanto affini quanto distanti; la morte, che sopravviene ingiusta e inaspettata quando ogni tassello sembra aver trovato la propria collocazione.

La somiglianza tra attori e personaggi reali è davvero impressionante. L’interpretazione di Stu da parte di Stephen Dorff ha sbalordito lo stesso Paul McCartney, che ha elogiato pubblicamente l’attore. Gary Bakewell avrebbe interpretato nuovamente Paul McCartney nel film TV The Linda McCartney Story (2000), mentre Ian Hart (celebre per il ruolo del professor Raptor in Harry Potter e la pietra filosofale) aveva già impersonato John Lennon in The Hours and Times (1991).

Ian Hart in Harry Potter e la pietra filosofale (2001) e insieme a Stephen Dorff in Backbeat (1994)

Una curiosità: Nowhere Boy, diretto da Sam Taylor-Johnson nel 2009, racconterà l’adolescenza di John Lennon e la nascita dei Fab Four fino alla partenza per il tour di Amburgo, concludendosi proprio dov’era iniziato Backbeat – Tutti hanno bisogno di amore (1994); i due film, nonostante idee e stili molto diversi tra loro, guardati uno dopo l’altro riescono a fornire una descrizione molto realistica delle origini dei Beatles.

Wiener Riesenrad, Vienna

La Wiener Riesenrad è uno dei simboli della città di Vienna e una delle attrazioni che richiamano più visitatori nella capitale austriaca. Sopravvissuta a incendi e bombardamenti, la gigantesca ruota viennese domina lo skyline della città con i suoi 64,75 metri di altezza. Dopo la demolizione della Grande Roue de Paris nel 1920, la Wiener Riesenrad è diventata la ruota panoramica più alta del mondo, primato che ha mantenuto fino alla costruzione della Technostar di Tsukuba (Giappone) nel 1985.
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Wiener Riesenrad (2018)

La sua posizione all’interno del Prater, un tempo riserva di caccia degli Asburgo e oggi fra i parchi pubblici più grandi e famosi della città, e la sua storia attraverso tre secoli l’hanno resa una delle location ideali per i film ambientati a Vienna. Non c’è da sorprendersi, dunque, nel ritrovarla in numerose pellicole; tra queste: Woman in Gold (2015), 007 – Zona pericolo (1987), Scorpio (1973), Lettera da una sconosciuta (1948).
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C’è però un film che, più di ogni altro, esalta la Wiener Riesenrad: Il terzo uomo (1949) di Carol Reed, votato nel 1999 dal British Film Institute come il miglior film britannico del XX secolo. Un film entrato nell’immaginario collettivo soprattutto per tre aspetti: il personaggio di Harry Lime, le musiche di Anton Karas e la fotografia di Robert Krasker (premiata con l’Oscar).
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Il terzo uomo (1949)
Il terzo uomo (Carol Reed, 1949)

Harry Lime è uno spregevole avventuriero che traffica in penicillina adulterata nella Vienna del dopoguerra suddivisa tra gli Alleati. Il personaggio (interpretato da un indimenticabile Orson Welles) compare nella pellicola per la durata complessiva di appena 5 minuti, ma il fatto che venga nominato continuamente (si contano 57 allusioni verbali prima del suo ingresso in scena) concentra l’attenzione dello spettatore totalmente su di lui.
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Orson Welles - The Third Man
Orson Welles/Harry Lime ne Il terzo uomo (1949)

Il regista Carol Reed, già a Vienna per l’inizio delle riprese, incontrò per caso il musicista Anton Karas nella taverna in cui suonava la cetra (zither) e gli affidò la colonna sonora del film: il Tema di Harry Lime (The Harry Lime Theme) ebbe un successo planetario ed è ancora oggi uno dei brani più famosi e riutilizzati nella storia del cinema.
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Anton Karas
Anton Karas

Tratti distintivi del film sono l’atmosfera spettrale e l’allucinato gioco di luci e ombre (molte scene furono girate con le strade bagnate per sfruttare lo scintillio della luce sulle superfici), ottenuti grazie a una magistrale fotografia in bianco e nero e alla tecnica di ripresa definita angolo olandese (la macchina da presa viene inclinata lateralmente in modo che l’orizzonte risulti in diagonale rispetto al bordo inferiore dell’inquadratura), introdotta a inizio ‘900 dal cinema espressionista tedesco e utilizzata per rappresentare tensione, disagio o squilibrio psichico.
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Dutch angle - Third man
Esempio di angolo olandese ne Il terzo uomo

La Wiener Riesenrad è il luogo in cui lo scrittore Alga Martins (Joseph Cotten) incontra l’enigmatico Harry Lime ed è l’unica scena del film in cui sentiamo parlare Lime, la scena in cui egli pronuncia la celeberrima battuta:
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“In Italia, sotto i Borgia, per trent’anni hanno avuto guerre, terrore, assassinii, massacri, e hanno prodotto Michelangelo, Leonardo da Vinci e il Rinascimento. In Svizzera hanno avuto amore fraterno, cinquecento anni di pace e democrazia, e cos’hanno prodotto? Gli orologi a cucù.”
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Cotten - The third man
Alga Martins/Joseph Cotten

Una volta azionatasi la ruota panoramica, la tensione della scena cresce con l’altezza della vettura entro la quale i due protagonisti discutono e con il cambiamento di tono della conversazione, che da tranquillo diventa pian piano sempre più grave, accompagnata dalla maschera di cordialità sullo sguardo minaccioso e luciferino di Lime.
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Il terzo uomo - Martins e Lime
Cotten/Martins e Welles/Lime ne Il terzo uomo

La ruota può essere vista come una metafora della sorte: l’astuto Lime aveva invitato l’ignaro amico per offrirgli di collaborare ai suoi loschi traffici, ma si ritrova davanti il goffo ficcanaso che lo porterà alla distruzione.
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