Premi Oscar 2022

La 94ª edizione degli Academy Awards sarà purtroppo ricordata per quello che molti hanno definito il momento più brutto nella storia degli Oscar. Durante la presentazione del premio per il miglior documentario, il comico Chris Rock si è rivolto alla moglie di Will Smith, Jada Pinkett Smith, paragonandola alla Demi Moore del film Soldato Jane per la sua testa rasata. Pinkett Smith soffre di alopecia e il suo disappunto per la pessima battuta, all’insegna del body shaming, ha innescato la violenta e ingiustificabile reazione del marito Will Smith, che è salito sul palco e ha schiaffeggiato il presentatore.

Poco dopo, Smith ha ricevuto il suo primo Oscar in carriera come miglior attore protagonista: in lacrime durante il discorso di accettazione, l’attore si è scusato con l’Academy e con gli altri candidati per il proprio gesto sconsiderato, motivandolo con l’amore verso i propri cari e ricevendo dal pubblico una standing ovation decisamente fuori luogo.

Una famiglia vincente – King Richard

L’Oscar a Will Smith era il più scontato della serata: per il ruolo di Richard Williams nel biopic Una famiglia vincente – King Richard, storia del padre e allenatore delle sorelle campionesse di tennis Venus e Serena Williams, l’attore aveva già vinto i maggiori premi internazionali (Golden Globe, Screen Actors Guild Award, Critics Choice Award e BAFTA). Una lodevole interpretazione in un film godibile e ben costruito, seppur leggermente sminuito dall’etichetta di ennesimo stereotipo del sogno americano.

Nettamente sfavoriti alla vigilia gli altri candidati, nonostante l’eccellente performance di Benedict Cumberbatch (Il potere del cane) il momento d’oro di Andrew Garfield (Tick, Tick… Boom!) e il solito intramontabile Denzel Washington (Macbeth).

Il potere del cane

Il potere del cane ha conquistato l’altra statuetta ampiamente annunciata, la sua unica a fronte di 12 nomination (il numero più alto in questa edizione): l’Oscar al miglior regista è andato infatti alla neozelandese Jane Campion, prima donna a essere candidata più di una volta per il premio e già vincitrice del Leone d’argento alla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia. Dopo la vittoria dello scorso anno di Chloé Zhao con Nomadland, è la prima volta che l’Oscar viene assegnato a una donna per due edizioni consecutive.

Suggestive inquadrature e notevoli riprese dall’alto in un film solo all’apparenza definibile western: Il potere del cane è un dramma cupo e inquietante, con personaggi ambigui e un’atmosfera intrisa di perversione. Bravi gli attori (Kirsten Dunst, Jesse Plemons e il luciferino Kodi Smit-McPhee, oltre a Cumberbatch), tutti e quattro candidati all’Oscar.

CODA – I segni del cuore

Decisamente troppe le 10 pellicole candidate all’Oscar per il miglior film, la metà delle quali non aveva alcuna possibilità di vittoria. Il premio è infine andato con merito a un outsider: CODA – I segni del cuore. Remake de La famiglia Bélier (2014) di Éric Lartigau, CODA è l’acronimo di Child Of Deaf Adult, ossia persona udente cresciuta da genitore sordo: la protagonista Ruby Rossi (Emilia Jones) è l’unico membro udente della propria famiglia, avendo padre, madre e fratello sordi, e ha una grande passione per la musica.

La pellicola affronta una tematica delicata da un punto di vista originale e coinvolgente: la disabilità non è rappresentata come un dramma, ma come qualcosa di speciale come il legame che crea tra le persone. CODA pone luce con leggerezza e semplicità sulla difficoltà di comunicare in contesti ancora impreparati alla diversità e sulla caparbietà nel superarla. Un film allegro e allo stesso tempo emozionante, dal messaggio fortemente positivo, diverso da tutti gli altri in gara.

Marlee Matlin, la madre di Ruby nel film, è stata la prima interprete sorda a conquistare un Oscar e la donna più giovane a vincere la statuetta come miglior attrice protagonista per Figli di un dio minore (1986), debuttando all’età di 21 anni: lei e Troy Kotsur, premiato come miglior attore non protagonista per la magnifica interpretazione del padre di Ruby, sono quindi gli unici due attori sordi ad aver vinto un Oscar. Grande soddisfazione anche per la regista e sceneggiatrice Siân Heder, che si aggiudica il premio per la miglior sceneggiatura non originale. Un vero e proprio trionfo per CODA, che conquista tutti e tre gli Oscar per cui era candidato.

Gli occhi di Tammy Faye

Se l’Oscar al miglior attore era praticamente già assegnato, molto più tirata è stata la sfida per l’Oscar alla miglior attrice, dove il testa a testa tra Nicole Kidman e Jessica Chastain si è concluso con la vittoria di quest’ultima per Gli occhi di Tammy Faye, film biografico incentrato sulla vita della famosa telepredicatrice: una statuetta meritata in un film piuttosto lento e fiacco, trascinato quasi unicamente dalla sua performance; premiati con l’Oscar anche i trucchi e le acconciature, impeccabili al punto da rendere l’attrice irriconoscibile.

Nicole Kidman, già vincitrice del Golden Globe per A proposito dei Ricardo, è stata poco aiutata da un film abbastanza piatto e da un’interpretazione un po’ troppo asettica di quella Lucille Ball resa celebre dalla sensazionale mimica facciale e dalla strepitosa verve comica. Davvero difficile la scelta finale, considerato anche il livello delle altre tre candidate: la sorprendente Kristen Stewart nel ruolo di Lady Diana in Spencer, la splendida Penelope Cruz in Madres paralelas di Pedro Almodóvar e la sempre bravissima Olivia Colman ne La figlia oscura di Maggie Gyllenhaal, quest’ultima penalizzata forse dall’aver condiviso la scena con la stella emergente Jessie Buckley, a sua volta candidata come miglior attrice non protagonista.

West Side Story

Era davvero impossibile per West Side Story replicare il successo dell’omonimo capolavoro girato 60 anni prima (1961), vincitore di 10 Oscar e considerato uno dei migliori musical di tutti i tempi. La pellicola, diretta da Steven Spielberg, è riuscita però a ritagliarsi uno spazio importante in questa rassegna degli Academy Awards grazie alla statuetta conquistata da Ariana DeBose come miglior attrice non protagonista nel ruolo di Anita, entrando di diritto nella storia del cinema: l’attrice interprete di Anita nel film del 1961, Rita Moreno, aveva infatti vinto a sua volta l’Oscar come miglior attrice non protagonista.

Anita raggiunge quindi Don Corleone e Joker tra i personaggi le cui interpretazioni hanno guadagnato più di un Oscar, ma la sua doppietta è, se vogliamo, ancora più speciale: mentre gli altri compaiono in due distinte narrazioni (Il padrino e Il padrino – Parte II, Il cavaliere oscuro e Joker), in questo caso l’interpretazione dello stesso personaggio in entrambi gli adattamenti cinematografici della stessa opera viene premiata con lo stesso Oscar.

Belfast

Kenneth Branagh ha finalmente conquistato il suo primo Oscar in carriera per la sceneggiatura originale del semi-autobiografico Belfast: un degno riconoscimento per uno degli artisti più poliedrici del panorama cinematografico mondiale, come testimoniato dallo straordinario dettaglio delle 7 diverse nomination su 8 totali (film, regista, attore protagonista, attore non protagonista, sceneggiatura non originale, sceneggiatura originale, cortometraggio) in oltre 30 anni (la prima nel 1990).

Il suo Belfast è un film intenso e coraggioso sul conflitto nordirlandese tra cattolici e protestanti visto dalla prospettiva di un bambino, con un’iconica fotografia in bianco e nero e ottimi interpreti, piccoli e grandi, tra i quali spicca la performance di Ciarán Hinds nel ruolo del nonno.

Drive My Car

Quasi scontato l’Oscar come miglior film internazionale a Drive My Car di Ryūsuke Hamaguchi (Giappone), candidato anche nelle categorie Miglior film, Miglior regista e Miglior sceneggiatura non originale e dato per favorito rispetto a Flee (Danimarca), La persona peggiore del mondo (Norvegia) e al nostro È stata la mano di Dio di Paolo Sorrentino.

Già vincitore del Golden Globe per il miglior film in lingua straniera e del Prix du scénario (premio alla migliore sceneggiatura) al Festival di Cannes, Drive My Car è un dramma introspettivo sul rimpianto e l’accettazione di sé stessi, ma anche un omaggio al teatro, alla sua capacità di unire personalità e linguaggi diversi, al potere che esercita su chi vi si dedica. Un film impegnativo, ancora di più per la durata di quasi tre ore, ma senza dubbio da vedere.

Dune

A sorpresa, il film più premiato in questa edizione degli Academy Awards è stato Dune di Denis Villeneuve, prima parte dell’adattamento cinematografico dell’omonimo romanzo di Frank Herbert già portato sullo schermo nel 1984 da David Lynch, vincitore di 6 Oscar su 10 nomination: fotografia, montaggio, sonoro, scenografia, effetti speciali e colonna sonora al leggendario Hans Zimmer, alla seconda statuetta in carriera dopo quella per Il re leone (1995).

Un avvincente film di fantascienza supportato da un pregevole cast corale comprendente Timothée Chalamet, Rebecca Ferguson, Oscar Isaac, Zendaya, Jason Momoa, Josh Brolin, Stellan Skarsgård, Javier Bardem e Charlotte Rampling.

Il remake vince facilmente il confronto con il film originale, sommerso a suo tempo da critiche ben poco lusinghiere:

Molti dei personaggi di Dune sono sensitivi, il che li mette nella posizione unica di essere in grado di capire ciò che accade nel film.

Janet Maslin

Ci sono voluti a Dune circa nove minuti per spogliarmi completamente di ogni aspettativa.
Questo film è un vero casino, un’incomprensibile, brutta, non strutturata, inutile escursione nei reami più oscuri di una delle sceneggiature più confuse di tutti i tempi.

Roger Ebert

L’Oscar onorario è stato assegnato agli attori Samuel L. Jackson, Elaine May e Liv Ullmann, mentre Danny Glover ha ricevuto il Premio umanitario Jean Hersholt per il suo decennale impegno nella difesa della giustizia e dei diritti umani. Crudelia, reboot e prequel de La carica dei 101, premiato con l’Oscar per i migliori costumi. Miglior film d’animazione Encanto, 60° classico Disney, miglior canzone No Time To Die di Billie Eilish e Finneas O’Connell per l’omonimo film, 25° capitolo della saga di James Bond.

Zero Oscar!

Grande delusione, infine, per tante pellicole pluricandidate, alcune delle quali annunciate come possibili outsider: La figlia oscura, Licorice Pizza, La persona peggiore del mondo, A proposito dei Ricardo, Macbeth, Tick, Tick… Boom!, Madres paralelas, Don’t Look Up e La fiera delle illusioni – Nightmare Alley tornano a casa senza nemmeno una statuetta.

Concorrenza sleale (Ettore Scola, 2001)

Concorrenza sleale è un film del 2001 diretto da Ettore Scola e interpretato da Diego Abatantuono, Sergio Castellitto, Gérard Depardieu, Elio Germano, Sabrina Impacciatore, Jean-Claude Brialy e Claudio Bigagli.

A Roma, nel 1938, due commercianti di stoffa si fanno una concorrenza agguerrita: l’elegante boutique di Umberto Melchiorri (Diego Abatantuono), originario di Milano, realizza abiti su misura; il vivace negozio di Leone Della Rocca (Sergio Castellitto), ebreo romano, vende capi confezionati. I due cercano continuamente nuove strategie per attrarre i clienti, non sempre corrette, e spesso si azzuffano per futili motivi.

All’astio tra i capifamiglia fanno da contraltare la grande amicizia dei figli più piccoli, Pietro e Lele, e la storia d’amore tra i figli maggiori, Paolo (Elio Germano) e Susanna.

Il rapporto tra Umberto e Leone, giunto ormai ai limiti dell’odio personale, cambia radicalmente con la proclamazione delle leggi razziali: Umberto, non condividendone i principi e vedendo Leone ingiustamente maltrattato, inizia a guardare il rivale sotto una luce diversa.

Diego Abatantuono, Sergio Castellitto e Jean-Claude Brialy in Concorrenza sleale

Il cinema ha spesso fornito un contributo divulgativo essenziale sull’Olocausto, producendo capolavori senza tempo entrati ormai nell’immaginario collettivo. In Concorrenza sleale, Ettore Scola riesce a esprimere un punto di vista originale e sincero sull’argomento, senza mai ricadere nel lacrimevole: proprio laddove l’antipatia e il disprezzo personale sono più tangibili, non c’è nessun odio razziale. Anzi, dal nulla affiorano solidarietà, comprensione, rispetto, perché nemmeno l’odio pregresso può giustificare quello razziale.

La narrazione seguita da prospettive diverse (i bambini, i ragazzi, gli adulti) e la lente d’ingrandimento sui singoli rapporti umani generano nello spettatore una straordinaria empatia, una profonda condivisione dei sentimenti vissuti dai protagonisti. Il tono del film cambia all’improvviso da commedia a dramma, una sensazione spiazzante che rispecchia con accuratezza la triste realtà dei fatti: di fronte alla disumanità delle persecuzioni razziali, preoccupazioni e decisioni della vita di ogni giorno perdono di significato in un attimo.

Non può mancare il fiero e irriducibile antifascismo di Scola, affidato con un geniale tocco di classe ai personaggi secondari: il professor Angelo Melchiorri (Gérard Depardieu), fratello di Umberto, l’orologiaio, la moglie e il cognato di Umberto, la commessa della boutique (Sabrina Impacciatore), l’ispettore di polizia (Claudio Bigagli). Ognuno di loro rappresenta una diversa sfumatura della stigmatizzazione del fascismo, messo più volte alla berlina con quella sublime punta di comicità amara tipica di uno dei maestri della commedia all’italiana.

Ettore Scola

La scelta degli attori è perfetta, i ruoli estremamente calzanti: Diego Abatantuono torna a indossare i panni dell’altero ma bonario uomo del nord, ruolo in cui si è più volte esaltato sotto la direzione di Gabriele Salvatores e Pupi Avati, mentre la parte del simpatico e ingegnoso trafficone è scritta su misura per Sergio Castellitto; da segnalare una delle prime interpretazioni di rilievo di un giovanissimo Elio Germano.

La fotografia e la scenografia (premiata con il David di Donatello) ricreano in maniera fedele e suggestiva la realtà dell’epoca, tanto che alcune inquadrature sembrano dei dipinti. Alcuni set del film, girato interamente negli studi di Cinecittà, verranno poi riutilizzati l’anno successivo da Martin Scorsese per il suo Gangs of New York (2002).

Daniel Day-Lewis in Gangs of New York

Il cinema e le leggi razziali

L’ambientazione storica nell’Italia del biennio 1938-39 lega indissolubilmente Concorrenza sleale a capolavori del cinema italiano come Una giornata particolare, Il giardino dei Finzi Contini e La vita è bella, fervide e lucide testimonianze cinematografiche di uno dei capitoli più bui e infamanti della storia italiana: la proclamazione delle leggi razziali fasciste poco dopo la visita di Hitler in Italia, in un clima di esaltazione rasente la follia.

Una giornata particolare è un film del 1977 diretto dallo stesso Ettore Scola: il 6 maggio 1938, giorno in cui Adolf Hitler è in visita a Roma, in un casermone popolare della Capitale si intrecciano per qualche ora le vite di Antonietta (Sofia Loren), casalinga ignorante e madre di sei figli sposata con un fervente fascista, e Gabriele (Marcello Mastroianni), intellettuale ex radiocronista dell’EIAR (Ente Italiano per le Audizioni Radiofoniche), omosessuale e destinato al confino.

Dall’incontro di due anime infelici in quella giornata particolare emerge il dramma celato dalla normalità: l’amarezza di una donna esclusa da tutto ciò che la circonda, relegata alla servile routine giornaliera incoraggiata dal sistema; il tormento di un diverso, perseguito per le proprie opinioni e per il proprio orientamento sessuale non conformi con quanto imposto dall’ottusa ideologia fascista.

Sofia Loren e Marcello Mastroianni in Una giornata particolare

Il giardino dei Finzi Contini (1970), diretto da Vittorio De Sica e tratto dall’omonimo romanzo di Giorgio Bassani, è una delle pellicole più significative del XX secolo, premiata con l’Orso d’oro al Festival di Berlino e con l’Oscar per il miglior film straniero. Nella Ferrara del 1938, i Finzi Contini sono una facoltosa famiglia ebrea appartenente all’alta borghesia: il nucleo familiare è composto dal professor Ermanno, sua moglie Olga, i figli Micòl (Dominique Sanda) e Alberto (Helmut Berger) e la nonna Regina.

La promulgazione delle leggi razziali stravolge la vita della comunità ebraica. Quando Giorgio (Lino Capolicchio), ebreo amico di famiglia da sempre innamorato di Micòl, viene espulso dal circolo del tennis, i Finzi Contini consentono a lui e all’amico Giampiero Malnate (Fabio Testi), milanese comunista, di frequentare il campo da tennis all’interno del maestoso giardino della propria villa. Le frustrazioni e le umiliazioni perpetrate dalla crescente discriminazione razziale, cui fa da sfondo il tormentato rapporto tra Giorgio e Micòl, seguono l’inesorabile precipitare degli eventi, fino al tragico epilogo.

Lino Capolicchio e Dominique Sanda ne Il giardino dei Finzi Contini

La vita è bella (1997), diretto e interpretato da Roberto Benigni e vincitore di tre Premi Oscar (miglior film straniero, miglior attore protagonista a Benigni e miglior colonna sonora a Nicola Piovani), è diventato una vera e propria icona del cinema italiano nel mondo. Nel 1939 Guido Orefice (Benigni), ebreo di indole allegra e giocosa, giunge ad Arezzo per lavorare come cameriere nell’hotel in cui suo zio è maître e si innamora, ricambiato, di Dora (Nicoletta Braschi), una maestra elementare. Guido e Dora si sposano e dal loro amore nasce Giosuè.

Nel 1944 l’antisemitismo, cresciuto a dismisura negli anni, è ormai diventato persecuzione: gli ebrei sono trattati come appestati, le loro attività vengono boicottate, la libreria che ha aperto Guido è quasi sempre deserta. In questo contesto, Guido cerca di proteggere il figlio (Giorgio Cantarini) dalla crudeltà che lo circonda, trovando sempre un modo nuovo di scherzarci su (celeberrimo il dialogo tra i due originato dal cartello Vietato l’ingresso agli ebrei e ai cani esposto da un negozio). Poco tempo dopo, l’apice del dramma: Guido e la sua famiglia vengono deportati in un lager, ove Guido cercherà di salvare il figlio dagli orrori dell’Olocausto, facendogli credere che sia tutto parte di un gioco basato su prove durissime in vista di uno straordinario premio finale.

Roberto Benigni, Nicoletta Braschi e Giorgio Cantarini ne La vita è bella

La visione sequenziale delle quattro pellicole rispecchia idealmente il reale ordine cronologico degli eventi: se Una giornata particolare fa da preludio alla surreale tragedia che sta per consumarsi nella quotidianità del miope popolo italiano, Concorrenza sleale e Il giardino dei Finzi Contini descrivono accuratamente l’evoluzione e gli effetti della discriminazione razziale conseguente alla proclamazione delle leggi fasciste, mentre La vita è bella chiude il capitolo raggiungendo il proprio culmine nelle atrocità dei campi di concentramento.

Un particolare e potentissimo filo conduttore unisce i film: il risentimento improvviso e ingiustificato verso il proprio simile, la crudele e grottesca atmosfera di impotenza e vessazione che inizia a pervadere la vita delle persone di diversa razza, religione o orientamento sessuale.

Un contesto reso immortale da un noto componimento spesso erroneamente attribuito a Bertolt Brecht, un sermone del pastore Martin Niemöller contro l’apatia degli intellettuali tedeschi in seguito all’ascesa del nazismo e all’epurazione dei suoi obiettivi gruppo dopo gruppo: Prima vennero…

Prima di tutto vennero a prendere gli zingari, e fui contento, perché rubacchiavano.
Poi vennero a prendere gli ebrei, e stetti zitto, perché mi stavano antipatici.
Poi vennero a prendere gli omosessuali, e fui sollevato, perché mi erano fastidiosi.
Poi vennero a prendere i comunisti, e io non dissi niente, perché non ero comunista.
Un giorno vennero a prendere me, e non c’era rimasto nessuno a protestare.

(Martin Niemöller)

Perché la versione cinematografica di “Nuovo Cinema Paradiso” è il capolavoro che il “Director’s Cut” non può essere

Nella storia del cinema, molti film sono stati realizzati in più di una versione: stabilire quale sia la migliore è da sempre oggetto di discussione tra gli appassionati.

Le versioni Director’s Cut (“versioni rimontate dai registi”) consistono di solito in edizioni estese del film, contenenti scene inedite tagliate nella fase di montaggio della pellicola poi distribuita nelle sale (“versione cinematografica”). Spesso si tratta di versioni più complete, che consentono di comprendere meglio alcune scelte del regista senza sminuirne l’effetto. A volte, però, tali versioni rischiano di intaccare il reale valore del film, come quando le scene inedite vengono ridoppiate (per il tempo trascorso tra le due versioni) o quando le aggiunte rendono la pellicola inutilmente prolissa.

È il caso di Nuovo Cinema Paradiso, film del 1988 scritto e diretto da Giuseppe Tornatore e interpretato da Philippe Noiret, Salvatore Cascio, Marco Leonardi, Jacques Perrin, Agnese Nano, Enzo Cannavale, Isa Danieli, Leo Gullotta, Pupella Maggio e Leopoldo Trieste. Nuovo Cinema Paradiso è uno dei capolavori del regista originario di Bagheria: una toccante ode al Cinema e all’amata Sicilia che vanta una delle più belle colonne sonore di Ennio Morricone (il cui Tema d’amore è stato composto dal figlio Andrea).

Giuseppe Tornatore ed Ennio Morricone

Gli esterni del film sono stati girati tutti in Sicilia: Palazzo Adriano (il set principale), Bagheria, Cefalù, Castelbuono, Lascari (la stazione), Chiusa Sclafani, Santa Flavia, San Nicola l’Arena, Termini Imerese e Oriolo Romano. L’edificio del Cinema Paradiso non esiste: è stato costruito per il film, collocato a Palazzo Adriano e smontato al termine delle riprese. L’interno del cinema è la Chiesa di Maria Santissima del Carmelo a Palazzo Adriano.

Palazzo Adriano (PA)

Salvatore Di Vita è un affermato regista cinematografico: siciliano di nascita, vive da trent’anni a Roma. Una sera, rientrando a casa apprende della morte di un certo Alfredo: profondamente rattristato dalla notizia, inizia a rivivere i ricordi della propria infanzia. A Giancaldo, immaginario paesino nella Sicilia del secondo dopoguerra, Alfredo è il proiezionista dell’unica sala cinematografica, il Cinema Paradiso, il solo vero svago per la povera gente del paese. Il piccolo Salvatore, chiamato affettuosamente Totò, attende invano con la madre e la sorellina il ritorno del padre, disperso in Russia. Totò è profondamente incuriosito dalla figura di Alfredo e dal suo lavoro, che accendono in lui una straordinaria passione per il cinema. Nonostante un’iniziale ritrosia, Alfredo insegna a Totò i trucchi del mestiere, diventando per lui il riferimento paterno: grazie ad Alfredo, Totò riesce a coronare il proprio sogno di diventare un proiezionista.

Totò (Salvatore Cascio) e Alfredo (Philippe Noiret)

Gli anni passano e Salvatore, ormai adolescente, si innamora di Elena, figlia del direttore della banca locale. Elena ricambia l’amore per Salvatore, ma i suoi genitori sono contrari alla relazione e, dopo poco, decidono di trasferirsi. Nel frattempo, Salvatore viene richiamato a Roma per il servizio militare. I due innamorati decidono di incontrarsi un’ultima volta per salutarsi prima della partenza, ma Elena non si presenta all’appuntamento. Salvatore la cerca dappertutto, anche durante il periodo di leva, ma ne perde completamente le tracce. Tornato a casa, Alfredo gli consiglia di abbandonare per sempre la sua terra per riuscire a realizzarsi.

Totò (Marco Leonardi) ed Elena (Agnese Nano)

Dopo trent’anni, Salvatore decide di tornare in Sicilia per il funerale di Alfredo, che diventa l’occasione per confrontarsi con il passato e riflettere sul presente: nonostante sia un ricco e famoso regista, la sua vita è triste e senza affetti, e rimpiange la felicità che gli dava il cinema quando era bambino. Rientrato a Roma, Salvatore si fa proiettare una bobina di pellicola lasciatagli da Alfredo, in uno dei finali più commoventi di sempre.

Salvatore (Jacques Perrin)

La potenza della versione cinematografica è nell’emozione del ricordo: l’intero film è un flashback del protagonista, che diventa l’omaggio di Tornatore alla propria terra, povera ma allo stesso tempo gioiosa, e insieme l’esaltazione del suo amore per il cinema, mostrato con gli occhi di un bambino.

La prima edizione, recuperata poi come Director’s Cut, includeva però qualcosa di totalmente avulso dalla magica atmosfera creata dal film: l’incontro di Salvatore ed Elena da adulti. Salvatore le rivela di non aver amato mai nessun’altra e di averla cercata in ogni donna che ha incontrato, ma Elena è ormai sposata con un suo vecchio compagno di scuola: i due vivono una notte di passione, destinata a rimanere unica.

Viene inoltre svelato il motivo per cui non si erano incontrati l’ultima volta: Elena era arrivata tardi all’appuntamento dopo aver litigato con i suoi e non aveva trovato Salvatore, che era andato a cercarla a casa. Al cinema aveva parlato con Alfredo, che le aveva consigliato di lasciar perdere la storia d’amore per il bene di Salvatore e del suo futuro.

Salvatore (Jacques Perrin) ed Elena (Brigitte Fossey)

Il film venne proiettato in anteprima al Festival Europa Cinema di Bari il 29 settembre 1988 nella sua prima edizione di 173 minuti, che fu accolta da pareri contrastanti: pur riscuotendo grandi apprezzamenti per la prima parte, la critica sottolineava l’eccessiva prolissità della seconda parte, in particolare proprio la ridondanza dell’incontro di Salvatore ed Elena adulti. Nel novembre dello stesso anno il film uscì in Italia in un’edizione di 157 minuti, ma la bassissima affluenza di pubblico convinse molte sale a cancellarlo dalla programmazione dopo poche settimane. In seguito, il film venne scartato alla selezione ufficiale del Festival di Berlino.

Dopo altre proiezioni fallimentari, il produttore Franco Cristaldi convinse Tornatore ad accorciare il film di oltre 30 minuti ed eliminare l’incontro finale tra Salvatore ed Elena (tagliando quindi l’intera parte dell’attrice Brigitte Fossey, che interpreta Elena adulta). La nuova versione di 123 minuti, conosciuta come edizione cinematografica, edizione internazionale o Theatrical Cut, si aggiudicò il Grand Prix Speciale della Giuria al Festival di Cannes e fu ridistribuita nelle sale italiane in più occasioni fino al settembre 1989, riscuotendo stavolta uno straordinario successo di pubblico e critica: il film venne candidato ai premi Oscar 1990 e vinse la statuetta come miglior film in lingua straniera, consacrandosi da quel momento in tutto il mondo come una delle pellicole italiane più significative degli Anni ’80.

Ma come può un film passare dall’anonimato alla conquista del premio più prestigioso per 30 minuti?
Perché quei 30 minuti fanno la differenza tra un ottimo film e un capolavoro.
Non è stata solo la prolissità a determinare l’iniziale insuccesso della versione estesa: quei 30 minuti alterano il significato più intimo del film.

Elena e Totò

Nella versione cinematografica, la storia d’amore tra Salvatore ed Elena viene affidata totalmente alla rievocazione del passato nella mente del protagonista, e l’emozione che ne scaturisce è irraggiungibile: il rimpianto di non aver vissuto qualcosa di così importante che ancora manca nella propria vita è sopportabile solo perché legato a quel contesto sociale, segnato dall’impossibilità di comunicare a distanza per l’isolamento, l’arretratezza e l’assenza di tecnologia. Rivedersi dopo tanti anni per scoprire di essersi persi per caso, ingabbiati in un’irreversibile infelicità, non è sopportabile e soprattutto non rispecchia il sublime obiettivo del film: descrivere lo spaccato di un’epoca con profonda umanità e commovente genuinità.

Inoltre, far ricadere su Alfredo la fine della storia d’amore tra Salvatore ed Elena conferisce gratuitamente un’aura negativa ad un personaggio altrimenti fino in fondo positivo: perfino quando consiglia a Totò di andar via senza mai fare ritorno avvertiamo in lui solo l’affetto che prova per il ragazzo, che per lui è sempre stato come un figlio. Alfredo può essere indirettamente responsabile dell’infelicità di Totò, che nel concentrarsi sulla propria carriera non è riuscito a ritrovare l’amore, ma non possiamo perdonargli di esserlo direttamente: non al punto da distruggere i suoi sentimenti.

Alfredo e Totò

Ormai in televisione e nel circuito home video viene riproposta quasi solo l’edizione Director’s Cut, come fosse diventata la versione ufficiale del film, ma la versione cinematografica è ancora disponibile e in una collezione non può mancare.

Il Nuovo Cinema Paradiso