U-Boot 96 (Wolfgang Petersen, 1981)

Eine Reise ans Ende des Verstandes”
“Un viaggio ai limiti della mente umana”

(Tagline del film)

U-Boot 96 (Das Boot) è un film di guerra tedesco del 1981 scritto e diretto da Wolfgang Petersen e interpretato da Jürgen Prochnow, Herbert Grönemeyer e Klaus Wennemann.

La pellicola è incentrata sull’U-96, un sommergibile della Marina militare tedesca (Kriegsmarine) in servizio durante la Seconda Guerra Mondiale (U-Boot è l’abbreviazione di Unterseeboot, letteralmente battello sottomarino) ed è tratta dall’omonimo romanzo di Lothar-Günther Buchheim Das Boot, pubblicato nel 1973 ed edito in Italia come U-Boot.

L’U-96 in una scena del film

La narrazione è immaginaria, ma si basa su episodi realmente accaduti al vero U-96: Buchheim, autore del romanzo, era salito a bordo del sommergibile nel 1941 come corrispondente di guerra per fotografare e descrivere un U-Boot in azione per scopi di propaganda; Heinrich Lehmann-Willenbrock, comandante dell’U-96 e sesto comandante tedesco per tonnellaggio nemico affondato (179125 tonnellate) nella Battaglia dell’Atlantico contro gli Alleati, fece da consulente alla regia insieme a Hans-Joachim Krug, comandante in seconda dell’U-219.

Il vero U-96 e il comandante Lehmann-Willenbrock

Nell’ottobre 1941, il tenente Werner si imbarca a La Rochelle come corrispondente di guerra a bordo del sommergibile tedesco U-96, in procinto di salpare per l’Atlantico a caccia di navi nemiche. L’U-96 ha come ufficiali più alti in grado l’autorevole comandante, soprannominato Der Alte (Il vecchio), e il valente direttore di macchina.

Werner entra rapidamente a contatto con le dure condizioni di vita all’interno del sommergibile, segnate da snervanti attese, sporcizia e promiscuità, che minano costantemente il morale dell’equipaggio.

Il comandante e il tenente Werner in una scena del film

Dopo giorni di navigazione viene segnalata la presenza di un convoglio Alleato e il comandante si lancia all’attacco, ma una fitta nebbia ribalta inaspettatamente lo scenario: l’U-96 viene individuato e bombardato da un cacciatorpediniere (una nave da guerra progettata appositamente per attaccare i sommergibili, equipaggiata con sonar e cariche di profondità) e da cacciatore diventa preda, riuscendo comunque ad allontanarsi.

La disillusione del comandante, diffidente riguardo all’attendibilità degli ordini ricevuti, trova conferma quando l’U-96 si imbatte in un’unità amica: un incontro così improbabile nell’immensità dell’oceano induce a sospettare che uno dei due sommergibili sia stato inviato nel posto sbagliato, palese testimonianza della superficialità dell’Alto Comando sui reali obiettivi delle missioni.

Una notte l’U-96 avvista un convoglio nemico e attacca lanciando tre siluri, nonostante il chiarore della Luna lo renda facilmente distinguibile: i siluri raggiungono i bersagli, ma il sommergibile viene individuato da un caccia di scorta alle navi e bombardato per ore, riuscendo miracolosamente a salvarsi.

Una scena del film

Quando il rientro sembra ormai imminente, un inatteso ordine impone al sommergibile un ultimo incarico, che si rivela essere una missione suicida: dirigersi verso la base di La Spezia passando attraverso lo stretto di Gibilterra presidiato dalla flotta britannica.

Durante l’insidiosa traversata, l’U-96 viene centrato da una bomba e tenta la fuga immergendosi rapidamente: il colpo ricevuto ha però danneggiato gli strumenti per regolare l’immersione e l’assetto del sommergibile, che continua a scendere senza più controllo.

Raggiunta la profondità di 270 metri, ben oltre il livello di tenuta del natante, un banco di sabbia arresta la mortale discesa: la pressione dell’acqua, tuttavia, fa cedere rivetti e parte della tubolatura, provocando l’apertura di falle e di vie d’acqua che inondano rapidamente il sommergibile.

Una scena del film

In una corsa contro il tempo, con sempre meno ossigeno e forze residue, l’equipaggio riesce strenuamente a chiudere le falle e, grazie all’ingegno del direttore di macchina, a riparare gli impianti danneggiati, rimettendo il sommergibile in condizione di emergere: dopo oltre 24 ore e senza quasi più ossigeno, l’U-96 riesce a tornare in superficie.

Il comandante rinuncia ad attraversare lo stretto e dà ordine di rientrare alla base, ma il destino sarà implacabile.

Il direttore di macchina (Wennemann), il comandante (Prochnow) e il tenente Werner (Grönemeyer) in una scena del film

Un film di guerra antimilitarista, un film tedesco antinazista

A parte il primo guardiamarina, giovane ufficiale e fervente nazista, l’equipaggio dell’U-96 è apolitico o, come nel caso del comandante, apertamente antinazista. Lo storico Michael Gannon conferma che nel 1941, anno in cui è ambientato il film, gli U-Boot erano uno dei rami meno filo-nazisti nelle forze armate tedesche. Nel suo libro Iron Coffins (Bare di ferro), l’ex comandante di U-Boot Herbert A. Werner sottolinea che la selezione del personale navale in base alla lealtà al partito durante la guerra avvenne solo dal 1943 in poi, quando gli U-Boot stavano subendo ingenti perdite, il morale dei soldati era ai minimi termini e iniziava a serpeggiare un crescente scetticismo verso il Führer e l’Alto Comando.

Una scena del film

L’originalità di U-Boot 96 è spiazzante fin dal soggetto: la vita all’interno di un sommergibile durante la Seconda Guerra Mondiale raccontata dal punto di vista dei soldati tedeschi, mostrati per la prima volta come esseri umani dotati di sentimenti e ingegno e non come fanatici sanguinari. Una prospettiva del tutto nuova per l’epoca: in un’industria cinematografica dominata dal colosso statunitense, la pellicola di produzione tedesca stravolse i canoni del cinema di guerra. Un’impresa titanica ed estremamente rischiosa, che richiese una maniacale attenzione ai particolari: la minima ambiguità avrebbe facilmente attirato accuse di revisionismo.

I protagonisti non vengono dipinti come eroi: sono semplicemente soldati chiamati ad affrontare paure e insidie in un contesto così estremo e claustrofobico, dove all’angosciosa frenesia delle battaglie fanno da contraltare i lunghi periodi di inattività. È questa la vera forza del film: la costante tensione e il notevole realismo catapultano lo spettatore a bordo e generano una potentissima empatia verso i personaggi, arrivando a rendere imprevedibile un epilogo in fondo annunciato.

Una scena del film

Curiosità

La realizzazione del film durò due anni, dal 1979 al 1981. Le scene all’interno del sommergibile furono girate tutte di seguito, per rendere l’aspetto degli attori il più realistico possibile: il caratteristico pallore di chi ha vissuto al chiuso per lunghi periodi, la barba e i capelli incolti, i vestiti sporchi e sdruciti. Agli attori fu inoltre impartita una formazione sul campo per imparare a muoversi rapidamente negli angusti spazi del sommergibile, senza inciampare o scontrarsi con i compagni, così da limitare al massimo incidenti ed eventuali interruzioni.

Gli ufficiali dell’U-Boot 96 in una scena del film

Non disponendo la produzione delle attrezzature all’avanguardia usate dal cinema hollywoodiano, nelle scene in cui i personaggi dovevano essere bagnati l’acqua non era riscaldata e gli attori tremavano realmente per il freddo.

Ogni dettaglio, dalle divise alle apparecchiature, dalle armi alle suppellettili, è storicamente accurato. Per riprodurre l’U-96 furono realizzati due modelli a grandezza naturale di un vero U-Boot Tipo VII-C: un sommergibile motorizzato e vuoto per gli esterni in mare e un tubo provvisto di tutti gli interni; quest’ultimo era montato su un simulatore di navigazione azionato da attuatori idraulici in modo da ricreare rollio e beccheggio, insieme agli scossoni prodotti dalle bombe di profondità.

Interni del modello: tavolo del timoniere (in alto a sinistra), camera di manovra (in alto a destra), sala siluri (in basso a destra), sala macchine (in basso a sinistra)

Il modello usato per le scene in emersione venne prestato a Steven Spielberg per I predatori dell’arca perduta, le cui riprese erano iniziate in quel periodo, e fu restituito in pessime condizioni, tanto da allarmare la produzione sulla sua effettiva capacità di galleggiare nelle ultime scene ancora da girare.

Un modello della torretta del vero U-96 con il celebre logo del pesce sega ghignante fu realizzato per gli esterni che non richiedevano la ripresa dell’intero scafo. La torretta fu posizionata in una piscina nei Bavaria Studios di Monaco: per simulare le onde venivano lanciati getti d’acqua.

In alto, l’U-995 (un U-Boot Tipo VII-C) in esposizione al Memoriale navale di Laboe; in basso il modello della torretta esposto ai Bavaria Studios di Monaco

U-Boot 96 fu la prima parte di rilievo per l’attore Jürgen Prochnow (il comandante), che da quel momento divenne uno dei caratteristi più richiesti a livello internazionale (Dune, Un’arida stagione bianca, Robin Hood – La leggenda, Il paziente inglese), recitando spesso in ruoli di villain autoritari, crudeli e sadici.

Jürgen Prochnow in U-Boot 96

Herbert Grönemeyer (il tenente Werner) è uno dei più popolari cantautori tedeschi: dal 1984 tutti i suoi album si sono posizionati al primo posto nelle classifiche nazionali e i suoi album Mensch e 4630 Bochum sono ancora oggi il primo e il terzo album più venduti di sempre in Germania.

Herbert Grönemeyer in U-Boot 96

Nel 1997 la pellicola è stata distribuita in una versione Director’s cut di 209 minuti che, rispetto alla versione cinematografica del 1981 (149 minuti), risulta essere molto più completa senza appesantire la narrazione. Poiché l’audio originale era andato perduto, furono richiamati gli attori originali che, dopo sedici anni, ridoppiarono l’intera pellicola. In modo simile fu ricreata l’imponente colonna sonora, a partire dalla registrazione originale conservata dal compositore Klaus Doldinger: l’audio su più canali consentì la distribuzione del film in Dolby Digital.

U-Boot 96 è considerato uno dei migliori film di guerra mai realizzati: un thriller mozzafiato dal realismo quasi documentaristico, intelligente e anticonformista. Acclamato dalla critica, ottenne 6 nomination ai premi Oscar (regia, sceneggiatura non originale, fotografia, montaggio, sonoro e montaggio sonoro), attuale record per una pellicola tedesca, ma non riuscì a conquistare neppure una statuetta. Il film ebbe inoltre uno straordinario successo di pubblico, specialmente in Germania e negli Stati Uniti: a fronte di un budget iniziale di 32 milioni di marchi (tuttora una delle produzioni tedesche più costose di sempre), incassò quasi 85 milioni di dollari in tutto il mondo. Due anni dopo, un’altra pellicola diretta da Wolfgang Petersen avrebbe raggiunto i 100 milioni di dollari di incassi: La storia infinita, il film tedesco più costoso del dopoguerra (60 milioni di marchi).

Sul set di U-Boot 96 (da destra a sinistra): l’attore Jürgen Prochnow, il regista Wolfgang Petersen, l’autore del romanzo Lothar-Günther Buchheim e il direttore della fotografia Jost Vacano

Un mercoledì da leoni (John Milius, 1978)

Un mercoledì da leoni (Big Wednesday) è un film del 1978 diretto da John Milius e interpretato da Jan-Michael Vincent, William Katt e Gary Busey.

Tre amici virtuosi del surf furoreggiano sulle spiagge della California degli Anni ’60: Matt Johnson (Vincent) vive con inquietudine il passaggio dalla spensieratezza alla maturità e la sua fragile natura lo spinge a cercare rifugio nell’alcol; Jack Barlow (Katt) è riflessivo, pacato e responsabile; Leroy Spaccatutto Smith (Busey) è uno scatenato pazzoide con un profondo senso dell’amicizia.

Leroy (Busey), Matt (Vincent) e Jack (Katt) in Un mercoledì da leoni

Il punto di riferimento del trio è Bear (Sam Melville), un esperto surfista che costruisce artigianalmente tavole da surf sul suo pontile, verso il quale i ragazzi provano grande affetto e ammirazione: l’ascesa e il declino della sua attività rispecchiano idealmente la parabola del surf da passione a moda, da novità a consuetudine, da scintilla di amicizia e aggregazione sociale a fenomeno commerciale.

Quattro grandi mareggiate in quattro diverse stagioni (estate ’62, autunno ’65, inverno ’68, primavera ’74) scandiscono le vite dei protagonisti attraverso gli Anni ’60 e ’70, profondamente segnati dalla guerra del Vietnam: Matt e Leroy riescono a sottrarsi alla chiamata alle armi, utilizzando diversi stratagemmi per farsi riformare alla visita medica, mentre Jack accetta quello che lui considera un dovere.

Il tempo passa e li divide, ma le grandi ondate ritornano e i tre si ritroveranno insieme per l’ultima cavalcata in occasione della gigantesca mareggiata del ’74, Il Grande Mercoledì che dà il titolo originale al film (Big Wednesday).

Una scena di Un mercoledì da leoni

Secondo il Morandini:
“Non è soltanto un film sul surf e la sua mistica eroica, ma anche una malinconica saga sull’amicizia virile, su una generazione americana segnata dal malessere esistenziale e dalla guerra del Vietnam. Uno dei più misconosciuti film dei ’70. Eppure la sua importanza – non soltanto sociologica – è pari a quella de Il cacciatore di Michael Cimino, uscito nello stesso anno.”

Ad accompagnare le vicende dei protagonisti la splendida colonna sonora di Basil Poledouris, compositore statunitense di origini greche dallo stile epico e imponente, che ha collaborato in diverse altre occasioni con il regista John Milius (Conan il barbaro, Alba rossa, Addio al re) e ha composto le musiche di film quali RoboCop, Caccia a Ottobre Rosso e Free Willy – Un amico da salvare. Nel 1996, il suo brano The Tradition of the Games ha aperto i Giochi Olimpici di Atlanta.

Il compositore Basil Puledouris

Il regista di Un mercoledì da leoni, John Milius, è una figura di spicco del cinema hollywoodiano: sceneggiatore di pellicole che hanno fatto epoca quali Apocalypse Now di Francis Ford Coppola e i primi due film della serie dell’ispettore Callaghan (Ispettore Callaghan: il caso “Scorpio” è tuo! e Una 44 Magnum per l’ispettore Callaghan), Milius ha scritto e diretto celebri film degli Anni ’70 e ’80 come Dillinger, Il vento e il leone, Conan il barbaro e Addio al re.

Il regista John Milius

Personaggio chiave della cosiddetta New Hollywood, il gruppo di cineasti comprendente Steven Spielberg, George Lucas e Francis Ford Coppola che dagli Anni ’70 scrivono, dirigono e producono da soli i propri film, Milius è protagonista di un curioso aneddoto riguardante proprio Un mercoledì da leoni e la sua amicizia con Spielberg e Lucas.

I tre registi si accordarono per dividere in parti uguali i profitti dei propri film che sarebbero usciti nella stagione 1977-78: Guerre stellari di George Lucas (1977), Incontri ravvicinati del terzo tipo di Steven Spielberg (1977) e, appunto, Un mercoledì da leoni di John Milius (1978). Spielberg, in particolare, era certo che Un mercoledì da leoni sarebbe stato un trionfo al botteghino, “il perfetto trait d’union tra American Graffiti e Lo squalo” (due dei film di maggior successo del decennio). Tuttavia, mentre i primi due film ebbero uno straordinario successo di pubblico (Guerre stellari è ancora oggi uno dei film con maggiori incassi nella storia del cinema), Un mercoledì da leoni fu un clamoroso flop commerciale e fu stroncato da gran parte della critica, che sottolineò l’inconsistenza delle scene d’azione rispetto alla pubblicizzata epicità e le prestazioni poco convincenti degli attori.

Steven Spielberg, John Milius e George Lucas

Tempo dopo, però, un cinefilo del calibro di Quentin Tarantino scrisse:
“Anche se preferisco Dillinger, il debutto alla regia di Milius, è molto difficile sostenere che Un mercoledì da leoni non sia il suo classico per eccellenza. La resa dei conti finale tra l’eroico trio e le onde gigantesche è così splendida da compensare tutto il resto e la camminata dei tre verso il destino ispirata a Il mucchio selvaggio è di gran lunga l’apice cinematografico di Milius.”

Camminate a confronto: Un mercoledì da leoni (in alto) e Il mucchio selvaggio (in basso)

Le origini di un cult

Un mercoledì da leoni (1978) è l’opera più intima e autobiografica di Milius: trasferitosi in California all’età di 7 anni, il futuro regista sviluppò da subito una grande passione per il surf, che continuò a praticare fino ai 50 anni.

La mia religione è il surf.

(John Milius)
L’ultimo fotogramma dei titoli di testa di Un mercoledì da leoni: l’immagine di un giovanissimo Milius surfista

Il film è un nostalgico omaggio del regista alla propria gioventù trascorsa sulle spiagge di Malibu, in California.

Avendo praticato il surf, sono l’unico regista al mondo che avrebbe potuto girare questo film.

(John Milius)

Milius scrisse la sceneggiatura a quattro mani con il giornalista Dennis Aaberg, suo amico e compagno di surf: il soggetto si ispirava a una storia breve pubblicata da Aaberg nel 1974 su una rivista di surf, intitolata No Pants Mance e basata sulle vite della comunità di surfisti comprendente Milius e lo stesso Aaberg negli Anni ’60.

In quegli anni il surf era uno sport totalmente nuovo, con una propria aristocrazia.
Ci volle circa un anno per scrivere la sceneggiatura: essendo due veri surfisti, ci tenevamo che fosse autentica.

(Dennis Aaberg)
Il giornalista Dennis Aaberg

Milius così descrisse il proprio film:
“È un Com’era verde la mia valle a tema surf: la fine di un’aristocrazia e di un’era, il passaggio a un’epoca più corrotta e complessa, la crescita e la perdita dell’innocenza. È basato sulle vite di tre amici dieci anni fa, sulla loro amicizia e sul valore dell’amicizia. Riguarda l’amore per un luogo, l’amore per un tempo, l’amore per i tuoi contatti umani e la perdita di tutto questo. Il surf è solo lo sfondo esotico: sapevamo tutti che era speciale, sapevamo che non sarebbe durato e sapevamo quanto eravamo stati bene. Il surf è strano: molte persone non lo lasciano mai, senti sempre di dovergli qualcosa. È stata un’esperienza centrale nella nostra vita. È il film più personale che potrò mai fare e ho pensato che avrei dovuto farlo ora, prima di andare troppo lontano.”

Proprio come dice il protagonista Matt Johnson in una scena del film:
“Io ho fatto lo sport perché è bello stare con gli amici”

Da sinistra: Leroy, Sally (Patti D’Arbanville), Jack, Peggy (Lee Purcell) e Matt in una scena del film

Un’ondata di curiosità

Gli attori William Katt e Jan-Michael Vincent erano già esperti surfisti, mentre Gary Busey dovette imparare a surfare prima che iniziassero le riprese.

William Katt (a destra) e Jan-Michael Vincent (a sinistra) in una scena di Un mercoledì da leoni

Katt, in particolare, affermò che Un mercoledì da leoni:
“È stato il film più personale in cui ho recitato: ho vissuto quella vita da quando avevo dieci anni.”

In alcune scene, tuttavia, Katt fu sostituito da una controfigura d’eccezione: il surfista australiano Peter Townend, primo campione del mondo di surf professionistico.

Il surfista australiano Peter Townend in Un mercoledì da leoni

Barbara Hale (interprete di Mrs. Barlow, madre di Jack) e William Katt (Jack Barlow) erano madre e figlio anche nella realtà: Hale è conosciuta soprattutto per il ruolo di Della Street, la discreta e indispensabile segretaria tuttofare dell’avvocato Perry Mason nell’omonima serie di telefilm (1957–1966) e film TV (1985–1995), grazie al quale ha raggiunto il successo internazionale e conquistato un Emmy Award come miglior attrice non protagonista in una serie drammatica (1959).

Barbara Hale e William Katt (a sinistra) con Raymond Burr (a destra), il celebre Perry Mason

La narrazione del film è affidata alla voce di un personaggio minore, Fly, un surfista amico dei tre protagonisti interpretato da un giovane Robert Englund, che pochi anni dopo avrebbe ottenuto la consacrazione nel suo ruolo più celebre: il mostruoso serial killer Freddy Krueger nella fortunata saga horror Nightmare.

Robert Englund (in alto a destra in Un mercoledì da leoni, in basso a destra dietro le quinte di Nightmare)

Il surfista hawaiano Gerry Lopez, riconosciuto come il miglior tuberider del mondo, compare nel film nel ruolo di sé stesso e reciterà poi in altri due film di Milius: Conan il barbaro e Addio al re.

Gerry Lopez in Un mercoledì da leoni

Il film è stato girato prevalentemente nel sud della California, presso Surfrider Beach, Gaviota Beach e Cojo Point, mentre per la scena finale è stata utilizzata la Sunset Beach di Pupukea, nelle Isole Hawaii.

La figura di Leroy Spaccatutto (The Masochist nell’originale), interpretato da Gary Busey, è ispirata a un certo Mitch, un eccentrico personaggio appartenente al mondo hippie se possibile ancora più folle della sua trasposizione cinematografica. All’epoca in cui è ambientato il film, questi aveva acquistato grazie a un lascito ereditario numerosi appartamenti in forte stato di degrado nella zona di Venice Beach, i quali col tempo erano aumentati progressivamente di valore, rendendolo miliardario. In seguito si era trasferito nella zona di Santa Cruz, località celebre per le sue altissime onde. Noto per i numerosi stratagemmi volti a evitare il servizio di leva, la sua specialità era fingersi pazzo e fu pertanto costretto a entrare e uscire da strutture psichiatriche per diversi anni.

Il personaggio di Bear, interpretato da Sam Melville, riunisce alcuni celebri costruttori di tavole conosciuti da Milius all’epoca, come Dale Velzy, Hap Jacobs e Bob Bolen.

Leroy Spaccatutto (Gary Busey) e Bear (Sam Melville)

Il protagonista Matt Johnson (interpretato da Jan-Michael Vincent) è ispirato a Lance Carson, il più noto surfista dell’epoca tra i frequentatori delle spiagge di Malibu: famoso per le sue evoluzioni sulle onde medio-piccole, Carson ebbe problemi di alcolismo fin dai 19 anni, dai quali uscì con le proprie forze. Rimasto in ottimi rapporti d’amicizia con Milius, in tempi recenti è divenuto un abile costruttore di tavole da surf.

Lance Carson

Ma se il destino è stato magnanimo con l’uomo che ha ispirato il protagonista del film, non lo è stato affatto con l’attore che lo ha interpretato, Jan-Michael Vincent: Un mercoledì da leoni sarebbe diventato l’inquietante specchio della sua vita.

Grande promessa del cinema negli Anni ’70, Vincent raggiunse l’apice del successo con la serie TV Airwolf (1984-1987), ma la sua carriera non decollò mai a causa dei suoi problemi con alcol e droga che gli costarono due divorzi, numerosi arresti per possesso di cocaina, rissa, aggressione, ubriachezza molesta, guida in stato di ebbrezza e un’ingiunzione restrittiva per violenza domestica. L’attore rimase inoltre coinvolto in diversi incidenti d’auto, che gli provocarono gravi infortuni al collo e danni permanenti alle corde vocali e alle gambe.

Jan-Michael Vincent

In Un mercoledì da leoni, il suo personaggio rifiuta di accettare i cambiamenti imposti dalla vita e dai passaggi d’età annegando le proprie sofferenze nell’alcol e arrivando a provocare un serio incidente.

Della vita reale di Jan-Michael Vincent sappiamo quanto poco sostegno abbia ricevuto in giovane età. Suo nonno e i suoi zii, rapinatori di banche e falsari, finirono tutti arrestati o uccisi, lasciando suo padre solo fin dall’età di 12 anni: arruolatosi nell’esercito, questi divenne ben presto un alcolista. Osservando la rigida disciplina militare cui il padre era sottoposto, Vincent iniziò probabilmente a sviluppare quel disprezzo nei confronti dell’autorità che in seguito avrebbe contribuito a condurlo verso l’autodistruzione.

Jan-Michael Vincent in Un mercoledì da leoni

Perché la versione cinematografica di “Nuovo Cinema Paradiso” è il capolavoro che il “Director’s Cut” non può essere

Nella storia del cinema, molti film sono stati realizzati in più di una versione: stabilire quale sia la migliore è da sempre oggetto di discussione tra gli appassionati.

Le versioni Director’s Cut (“versioni rimontate dai registi”) consistono di solito in edizioni estese del film, contenenti scene inedite tagliate nella fase di montaggio della pellicola poi distribuita nelle sale (“versione cinematografica”). Spesso si tratta di versioni più complete, che consentono di comprendere meglio alcune scelte del regista senza sminuirne l’effetto. A volte, però, tali versioni rischiano di intaccare il reale valore del film, come quando le scene inedite vengono ridoppiate (per il tempo trascorso tra le due versioni) o quando le aggiunte rendono la pellicola inutilmente prolissa.

È il caso di Nuovo Cinema Paradiso, film del 1988 scritto e diretto da Giuseppe Tornatore e interpretato da Philippe Noiret, Salvatore Cascio, Marco Leonardi, Jacques Perrin, Agnese Nano, Enzo Cannavale, Isa Danieli, Leo Gullotta, Pupella Maggio e Leopoldo Trieste. Nuovo Cinema Paradiso è uno dei capolavori del regista originario di Bagheria: una toccante ode al Cinema e all’amata Sicilia che vanta una delle più belle colonne sonore di Ennio Morricone (il cui Tema d’amore è stato composto dal figlio Andrea).

Giuseppe Tornatore ed Ennio Morricone

Gli esterni del film sono stati girati tutti in Sicilia: Palazzo Adriano (il set principale), Bagheria, Cefalù, Castelbuono, Lascari (la stazione), Chiusa Sclafani, Santa Flavia, San Nicola l’Arena, Termini Imerese e Oriolo Romano. L’edificio del Cinema Paradiso non esiste: è stato costruito per il film, collocato a Palazzo Adriano e smontato al termine delle riprese. L’interno del cinema è la Chiesa di Maria Santissima del Carmelo a Palazzo Adriano.

Palazzo Adriano (PA)

Salvatore Di Vita è un affermato regista cinematografico: siciliano di nascita, vive da trent’anni a Roma. Una sera, rientrando a casa apprende della morte di un certo Alfredo: profondamente rattristato dalla notizia, inizia a rivivere i ricordi della propria infanzia. A Giancaldo, immaginario paesino nella Sicilia del secondo dopoguerra, Alfredo è il proiezionista dell’unica sala cinematografica, il Cinema Paradiso, il solo vero svago per la povera gente del paese. Il piccolo Salvatore, chiamato affettuosamente Totò, attende invano con la madre e la sorellina il ritorno del padre, disperso in Russia. Totò è profondamente incuriosito dalla figura di Alfredo e dal suo lavoro, che accendono in lui una straordinaria passione per il cinema. Nonostante un’iniziale ritrosia, Alfredo insegna a Totò i trucchi del mestiere, diventando per lui il riferimento paterno: grazie ad Alfredo, Totò riesce a coronare il proprio sogno di diventare un proiezionista.

Totò (Salvatore Cascio) e Alfredo (Philippe Noiret)

Gli anni passano e Salvatore, ormai adolescente, si innamora di Elena, figlia del direttore della banca locale. Elena ricambia l’amore per Salvatore, ma i suoi genitori sono contrari alla relazione e, dopo poco, decidono di trasferirsi. Nel frattempo, Salvatore viene richiamato a Roma per il servizio militare. I due innamorati decidono di incontrarsi un’ultima volta per salutarsi prima della partenza, ma Elena non si presenta all’appuntamento. Salvatore la cerca dappertutto, anche durante il periodo di leva, ma ne perde completamente le tracce. Tornato a casa, Alfredo gli consiglia di abbandonare per sempre la sua terra per riuscire a realizzarsi.

Totò (Marco Leonardi) ed Elena (Agnese Nano)

Dopo trent’anni, Salvatore decide di tornare in Sicilia per il funerale di Alfredo, che diventa l’occasione per confrontarsi con il passato e riflettere sul presente: nonostante sia un ricco e famoso regista, la sua vita è triste e senza affetti, e rimpiange la felicità che gli dava il cinema quando era bambino. Rientrato a Roma, Salvatore si fa proiettare una bobina di pellicola lasciatagli da Alfredo, in uno dei finali più commoventi di sempre.

Salvatore (Jacques Perrin)

La potenza della versione cinematografica è nell’emozione del ricordo: l’intero film è un flashback del protagonista, che diventa l’omaggio di Tornatore alla propria terra, povera ma allo stesso tempo gioiosa, e insieme l’esaltazione del suo amore per il cinema, mostrato con gli occhi di un bambino.

La prima edizione, recuperata poi come Director’s Cut, includeva però qualcosa di totalmente avulso dalla magica atmosfera creata dal film: l’incontro di Salvatore ed Elena da adulti. Salvatore le rivela di non aver amato mai nessun’altra e di averla cercata in ogni donna che ha incontrato, ma Elena è ormai sposata con un suo vecchio compagno di scuola: i due vivono una notte di passione, destinata a rimanere unica.

Viene inoltre svelato il motivo per cui non si erano incontrati l’ultima volta: Elena era arrivata tardi all’appuntamento dopo aver litigato con i suoi e non aveva trovato Salvatore, che era andato a cercarla a casa. Al cinema aveva parlato con Alfredo, che le aveva consigliato di lasciar perdere la storia d’amore per il bene di Salvatore e del suo futuro.

Salvatore (Jacques Perrin) ed Elena (Brigitte Fossey)

Il film venne proiettato in anteprima al Festival Europa Cinema di Bari il 29 settembre 1988 nella sua prima edizione di 173 minuti, che fu accolta da pareri contrastanti: pur riscuotendo grandi apprezzamenti per la prima parte, la critica sottolineava l’eccessiva prolissità della seconda parte, in particolare proprio la ridondanza dell’incontro di Salvatore ed Elena adulti. Nel novembre dello stesso anno il film uscì in Italia in un’edizione di 157 minuti, ma la bassissima affluenza di pubblico convinse molte sale a cancellarlo dalla programmazione dopo poche settimane. In seguito, il film venne scartato alla selezione ufficiale del Festival di Berlino.

Dopo altre proiezioni fallimentari, il produttore Franco Cristaldi convinse Tornatore ad accorciare il film di oltre 30 minuti ed eliminare l’incontro finale tra Salvatore ed Elena (tagliando quindi l’intera parte dell’attrice Brigitte Fossey, che interpreta Elena adulta). La nuova versione di 123 minuti, conosciuta come edizione cinematografica, edizione internazionale o Theatrical Cut, si aggiudicò il Grand Prix Speciale della Giuria al Festival di Cannes e fu ridistribuita nelle sale italiane in più occasioni fino al settembre 1989, riscuotendo stavolta uno straordinario successo di pubblico e critica: il film venne candidato ai premi Oscar 1990 e vinse la statuetta come miglior film in lingua straniera, consacrandosi da quel momento in tutto il mondo come una delle pellicole italiane più significative degli Anni ’80.

Ma come può un film passare dall’anonimato alla conquista del premio più prestigioso per 30 minuti?
Perché quei 30 minuti fanno la differenza tra un ottimo film e un capolavoro.
Non è stata solo la prolissità a determinare l’iniziale insuccesso della versione estesa: quei 30 minuti alterano il significato più intimo del film.

Elena e Totò

Nella versione cinematografica, la storia d’amore tra Salvatore ed Elena viene affidata totalmente alla rievocazione del passato nella mente del protagonista, e l’emozione che ne scaturisce è irraggiungibile: il rimpianto di non aver vissuto qualcosa di così importante che ancora manca nella propria vita è sopportabile solo perché legato a quel contesto sociale, segnato dall’impossibilità di comunicare a distanza per l’isolamento, l’arretratezza e l’assenza di tecnologia. Rivedersi dopo tanti anni per scoprire di essersi persi per caso, ingabbiati in un’irreversibile infelicità, non è sopportabile e soprattutto non rispecchia il sublime obiettivo del film: descrivere lo spaccato di un’epoca con profonda umanità e commovente genuinità.

Inoltre, far ricadere su Alfredo la fine della storia d’amore tra Salvatore ed Elena conferisce gratuitamente un’aura negativa ad un personaggio altrimenti fino in fondo positivo: perfino quando consiglia a Totò di andar via senza mai fare ritorno avvertiamo in lui solo l’affetto che prova per il ragazzo, che per lui è sempre stato come un figlio. Alfredo può essere indirettamente responsabile dell’infelicità di Totò, che nel concentrarsi sulla propria carriera non è riuscito a ritrovare l’amore, ma non possiamo perdonargli di esserlo direttamente: non al punto da distruggere i suoi sentimenti.

Alfredo e Totò

Ormai in televisione e nel circuito home video viene riproposta quasi solo l’edizione Director’s Cut, come fosse diventata la versione ufficiale del film, ma la versione cinematografica è ancora disponibile e in una collezione non può mancare.

Il Nuovo Cinema Paradiso