Il grande coltello (Robert Aldrich, 1955)

Il grande coltello (The Big Knife) è un film del 1955 prodotto e diretto da Robert Aldrich e interpretato da Jack Palance, Ida Lupino, Rod Steiger, Shelley Winters, Wendell Corey e Jean Hagen.

Charlie Castle (Palance) è una star di Hollywood all’apice del successo, ma nell’agiatezza della sua lussuosa villa di Bel Air è un’anima tormentata.

Sua moglie Marion (Lupino), stanca dei suoi vizi e della sua vita senza scopo, è andata via di casa con il loro bambino e medita il divorzio: Marion accusa Charlie di essersi venduto allo star system hollywoodiano e di aver rinunciato alle sue idealità in cambio di facili compensi, accettando ruoli scadenti ma di successo.

Il mezzo idealismo, Charlie, è la peritonite dell’anima.
Sono parole che hanno senso tra i vivi…

(Il grande coltello)

La vita di Charlie è a un bivio: il potente e spregevole boss degli Studios, Stanley Hoff (Steiger), gli impone un rinnovo di contratto di sette anni.

Charlie vorrebbe liberarsi da quell’opprimente giogo, ma ha le mani legate: Hoff e il suo scagnozzo Smiley Coy (Corey) sono a conoscenza dei retroscena di un drammatico episodio del suo passato, e sono disposti a ricattarlo pur di ottenere quanto vogliono. Marion, dal canto suo, non accetterà una riconciliazione se Charlie firmerà il contratto.

Charlie è con le spalle al muro: troverà la forza di affrontare Hoff per riscattare se stesso e riconquistare la propria famiglia?

Charlie e Marion

Un film in cui l’azione avanza non per il gioco dei sentimenti, né per quello delle azioni, ma per definizione morale dei personaggi.

(François Truffaut)

Secondo il critico cinematografico Jeff Stafford, “l’uso dei long take da parte del direttore della fotografia Ernest Laszlo accresce notevolmente la tensione claustrofobica del film e la mescolanza di nomi fittizi con quelli reali (Billy Wilder, Elia Kazan, William Wyler) durante i dialoghi conferisce a Il grande coltello un tono realistico, quasi documentaristico.

La potenza de Il grande coltello è evocata fin dai titoli di testa: l’angosciante immagine del protagonista con le mani tra i capelli per la disperazione, che si riduce poi in frantumi, proviene dal genio di uno dei più grandi illustratori nella storia del cinema, Saul Bass.

Un fotogramma dei titoli di testa

A quel tempo i titoli di testa passavano spesso inosservati: Bass fu il primo a individuarne le potenzialità creative e a utilizzarli per introdurre le atmosfere del film, come epilogo per spiegarne il senso, come prologo o per raccontare eventi precedenti alla narrazione. Egli riteneva che il pubblico dovesse essere coinvolto fin dal primo frame.

Tra le sue opere più celebri, i titoli di testa de L’uomo dal braccio d’oro e Anatomia di un omicidio di Otto Preminger, Il giro del mondo in 80 giorni di Michael Anderson, La donna che visse due volte, Intrigo internazionale e Psyco di Alfred Hitchcock, Spartacus di Stanley Kubrick, Alien di Ridley Scott, Quei bravi ragazzi di Martin Scorsese.

Saul Bass

Il grande coltello è tratto dall’omonimo dramma (The Big Knife, 1949) di Clifford Odets: la singola ambientazione (la villa di Charlie Castle), i toni e le gestualità della recitazione ne evidenziano fortemente la derivazione teatrale.

Drammaturgo, sceneggiatore, regista e attore teatrale, Clifford Odets è annoverato tra gli astri della letteratura statunitense del ‘900: le sue opere hanno ispirato autori come Arthur Miller (Death of a Salesman), Paddy Chayefsky (Network), Neil Simon (The Odd Couple) e David Mamet (Glengarry Glen Ross).

Clifford Odets

Considerato l’erede del premio Nobel per la letteratura Eugene O’Neill, Odets fece parte del Group Theatre, la compagnia teatrale diretta da Lee Strasberg celebre per aver introdotto negli Stati Uniti il Metodo Stanislavskij (basato sull’immedesimazione dell’attore nel personaggio da interpretare) e ritenuta una delle più influenti nella storia del teatro americano.

Non c’è nulla di più torturato sulla faccia della Terra, e non esisterà mai, di un uomo che ha venduto i suoi sogni ma non può dimenticarli.

(Il grande coltello)

Il grande coltello è un’allegoria sui devastanti effetti della fama e del denaro sulla personalità di un artista e una durissima critica al patinato mondo di Hollywood scagliata da chi vi ha vissuto gran parte della propria vita: Odets, infatti, ricevette i maggiori compensi scrivendo sceneggiature di film come Il generale morì all’alba, Il ribelle e Piombo rovente; per La ragazza di campagna, adattamento cinematografico di un suo soggetto, Grace Kelly vinse il suo unico Oscar come miglior attrice protagonista.

Sono ingenuo, eh?
Sì, ma è la tua qualità migliore.

(Il grande coltello)

In un film di dichiarato stampo teatrale in cui i personaggi sono molto più importanti della trama (forte è l’influenza di Anton Chekhov sull’autore) a esaltarsi è l’abilità degli attori.

Colpisce in particolare la mirabile interpretazione di Jack Palance nel ruolo del sofferente Charlie Castle: un belloccio che può avere tutto ciò che desidera, ma che ha rinunciato a tutto ciò che amava e che in fondo continua ad amare; un idealista, intellettuale, amante dell’arte e della musica, stritolato da una prigione d’oro che lo ha condotto ai più miseri compromessi, alle più subdole frequentazioni, a sguazzare nel marciume celato dietro l’abbagliante universo dell’industria cinematografica.

Jack Palance e Ida Lupino in una scena del film

La sua performance è resa ancora più straordinaria dall’insolito ruolo da protagonista: Volodymyr Palahniuk, in arte Jack Palance, è infatti ricordato soprattutto per i molti ruoli da cattivo, cui era stato relegato fin dagli inizi della carriera per i suoi lineamenti spigolosi. Nato in Pennsylvania da una famiglia di origine ucraina, dopo aver tentato la carriera da pugile professionista recitò in circa 130 pellicole tra cinema e televisione.

Nel 1992, conquistò il premio Oscar come miglior attore non protagonista per il film Scappo dalla città – La vita, l’amore e le vacche, a più di quarant’anni dal proprio debutto cinematografico: nel ritirare la statuetta, ricevette una standing ovation dal pubblico in sala praticando delle flessioni con un braccio solo alla tenera età di 73 anni.

Jack Palance ne Il grande coltello

A regalare un’altra indimenticabile interpretazione è l’ossigenato Rod Steiger nei panni dell’antagonista principale, il produttore Stanley Hoff: mefistofelico, spietato, patriota fanatico al punto da chiedere al protagonista di firmare il contratto con la penna del generale Douglas MacArthur, comandante dell’esercito statunitense durante la Seconda Guerra Mondiale.

Rod Steiger ne Il grande coltello

Il personaggio si ispira ad alcuni dei più potenti produttori cinematografici hollywoodiani, ancora in auge nel periodo in cui fu realizzato il film. I suoi finti pianti provengono da Louis B. Mayer, dispotico boss della Metro Goldwyn Mayer (esperto nel piangere a comando, secondo le fonti dell’epoca), ma la sua figura è modellata soprattutto sulle fattezze del feroce tycoon della Columbia Pictures, Harry Cohn: il produttore si accorse subito della voluta somiglianza e tentò senza successo di agire per vie legali contro il regista Robert Aldrich, minacciando di rovinargli la carriera.

Harry Cohn

Cohn era noto per i suoi modi autocratici e intimidatori. Quando divenne presidente della Columbia Pictures rimase anche a capo della produzione, acquisendo così un potere incontrastabile. Si diceva che avesse dispositivi di ascolto ovunque e che potesse sintonizzarsi su qualsiasi conversazione, per poi intervenire facendo risuonare la propria voce attraverso un altoparlante in caso non gradisse qualcosa.

Moe Howard, del trio comico The Three Stooges (conosciuto in Italia come I tre marmittoni), lo definiva un tipo alla Dr. Jekyll e Mr. Hyde, capace di urlare e imprecare contro attori e registi nel proprio ufficio tutto il pomeriggio e di salutarli poi cordialmente la stessa sera a cena.

Secondo il biografo Michael Fleming, Cohn obbligò un altro membro degli Stooges, Curly Howard, a continuare a lavorare dopo essere stato colpito da una serie di lievi ictus: poco tempo dopo Howard ne subì uno più grave, che lo costrinse al ritiro e lo portò a prematura morte.

Curly Howard

Cohn aveva anche stretti legami con la criminalità organizzata, in particolare amicizie di lunga data con i gangster John Roselli e Abner Zwillman. Questi rapporti vennero brutalmente alla luce per un abietto episodio di razzismo, intimidazione e violenza.

Nel 1957, l’attore, cantante e ballerino di colore Sammy Davis Jr. frequentava la biondissima attrice Kim Novak, in quel momento sotto contratto con la Columbia Pictures di Harry Cohn.

King Cohn (nomignolo che gli era stato affibbiato per l’assonanza col celebre gorilla) temeva che la relazione interraziale potesse danneggiare gli Studios e ingaggiò Roselli e i suoi uomini per spaventare Davis e imporgli di non vedere più la Novak.

Sammy Davis Jr.

I gangster lo rapirono per alcune ore e lo minacciarono di fargli perdere l’altro occhio (aveva un occhio di vetro avendo perso il sinistro tre anni prima in un grave incidente d’auto) e di fratturargli le gambe se non avesse sposato una donna di colore entro due giorni: Davis sposò la ballerina di colore Loray White nel 1958 e pagò per contrarre il matrimonio a condizione che si potesse sciogliere entro la fine dell’anno, divorziando poi ufficialmente nell’aprile 1959.

Cohn chiedeva rapporti sessuali alle attrici in cambio dei contratti. Due star come Rita Hayworth e Joan Crawford si rifiutarono platealmente, ma Cohn dovette mantenerle sotto contratto in quanto troppo preziose per la casa di produzione. Secondo lo scrittore Joseph McBride, l’attrice Jean Arthur lasciò il mondo del cinema a causa delle avances di Cohn.

Rita Hayworth e Harry Cohn

Oltre allo Stanley Hoff de Il grande coltello, i tratti caratteristici di Harry Cohn hanno ispirato personaggi di diversi film: il Willie Stark di Tutti gli uomini del re e l’Harry Brock di Nata ieri, entrambi interpretati da Broderick Crawford, e soprattutto il viscido produttore Jack Woltz ne Il padrino, interpretato da John Marley ed entrato nell’immaginario collettivo per la celeberrima scena della testa di cavallo mozzata.

Uno dei personaggi secondari che restano maggiormente impressi ne Il grande coltello è la Connie Bliss interpretata da Jean Hagen, moglie del migliore amico di Charlie Castle, Buddy Bliss: seducente, maliziosa, spregiudicata e soprattutto completamente diversa dalla smorfiosa e capricciosa diva del muto Lina Lamont di Cantando sotto la pioggia, ruolo per cui è più nota l’attrice.

Jean Hagen ne Il grande coltello

Non c’è dubbio che la rivelazione di Robert Aldrich sarà l’evento cinematografico del 1955, all’inizio dell’anno non conoscevamo nemmeno il suo nome.

(François Truffaut)

Il cuore pulsante de Il grande coltello è un regista anticonformista e indipendente: Robert Aldrich. Aldrich amava affrontare temi politici e sociali scomodi, sfidando lo strapotere delle grandi case di produzione cinematografica e scagliando espliciti atti d’accusa verso lo stile di vita americano. I suoi personaggi non sono mai eroi tutti d’un pezzo, ma perdenti, cinici e violenti; nei suoi film dominano avidità e sete di potere.

Fu grazie a lui che il pubblico americano degli Anni ’50 e ’60, tradizionalmente abituato a buoni sentimenti e ideali patriottici, venne di colpo riportato alla realtà da immagini e linguaggi del tutto nuovi per il cinema: non sorprende, quindi, che Aldrich sia considerato un punto di riferimento da intere generazioni di registi.

Robert Aldrich

Cresciuto in una famiglia di politici e banchieri imparentata con i Rockfeller, Aldrich approdò a Hollywood come addetto alla produzione per la RKO, diventando quindi assistente di registi del calibro di Charlie Chaplin, Jean Renoir, Joseph Losey, William A. Wellman, Jules Dassin, Edward Dmytryk e Lewis Milestone.

Per nove anni imparò il mestiere da maestri assoluti, acquisendo i fondamenti pratici ed estetici del cinema, dei quali riportò egli stesso alcuni esempi in varie interviste: le ambientazioni e le atmosfere da Jean Renoir, le tecniche per pianificare in anticipo una ripresa da Lewis Milestone, le scene d’azione da William A. Wellman, l’importanza della comunicazione con gli attori da Joseph Losey, l’empatia visiva tra telecamera e pubblico da Charlie Chaplin.

Molti di questi straordinari cineasti erano anche tra i primi sospettati di attività filocomuniste e sovversive durante la caccia alle streghe messa in atto dal senatore Joseph McCarthy, il cosiddetto maccartismo: sotto la loro influenza, Aldrich rifiutò le convenzioni morali e commerciali dell’epoca per intraprendere un percorso personale fuori dal coro.

Robert Aldrich riconoscibile subito dietro Charlie Chaplin sul set di Luci della ribalta

Aldrich iniziò la sua trentennale carriera di regista nel 1954 con due western: L’ultimo Apache, il primo film dichiaratamente dalla parte degli indiani d’America, e Vera Cruz, considerato il vero modello d’ispirazione per il western all’italiana (pare che il grande Sergio Leone lo conoscesse a memoria, al punto da saperlo raccontare inquadratura per inquadratura).

Nel 1955, pochi mesi prima di girare Il grande coltello, Aldrich approdò al noir con Un bacio e una pistola, adattamento di un romanzo di Mickey Spillane con protagonista l’investigatore privato Mike Hammer, definito dal critico Tim Dirks il film noir definitivo, apocalittico e nichilista.

Dopo i celebri Che fine ha fatto Baby Jane? e Piano… piano, dolce Carlotta, Aldrich diresse il memorabile Quella sporca dozzina, una delle sue pellicole di maggior successo e modello per i film d’azione dei decenni successivi, e Quella sporca ultima meta, sferzante denuncia contro il sistema carcerario statunitense.

Robert Aldrich con Lee Marvin e John Cassavetes sul set di Quella sporca dozzina

Oltre a presentare un affresco molto esatto di Hollywood, “Il grande coltello” è il film americano più raffinato e intelligente che abbiamo visto da molti mesi a questa parte.

(François Truffaut)

Con Il grande coltello, Aldrich vinse il Leone d’argento per la miglior regia alla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia e ottenne il plauso della critica europea: i Cahiers du Cinéma inclusero tre dei suoi film (L’ultimo Apache, Vera Cruz e, appunto, Il grande coltello) tra i dieci migliori dell’anno e lo accolsero come protagonista di una nuova rivoluzione autoriale.

Jack Palance e Rod Steiger ne Il grande coltello

Alnwick Castle: un luogo magico

Nell’Inghilterra nordorientale, al confine con la Scozia, la contea di Northumberland ospita un luogo incantato in cui il tempo sembra essersi fermato: il castello di Alnwick.

Costruito nel 1096 dal barone Yves de Vescy per difendere la frontiera settentrionale inglese dagli assalti degli scozzesi, il secondo castello abitato più grande d’Inghilterra (dopo quello di Windsor) è la residenza ufficiale dei duchi di Northumberland ed è aperto al pubblico nel periodo estivo.

Veduta del castello di Alnwick

Nel 1309, il castello di Alnwick fu acquistato da Henry de Percy, primo barone Percy e avo degli attuali proprietari: Ralph Percy, XII Duca di Northumberland in carica dal 1995, sua moglie Jane Richard e i loro quattro figli. Henry de Percy fece restaurare il castello, la Abbot’s Tower, il Middle Gateway e la Constable’s Tower che sono arrivati ai giorni nostri in perfetto stato di conservazione, mantenendo intatto il fascino dell’epoca.

Dentro le mura del castello

Non sorprende quindi che la maestosa fortezza medievale sia divenuta negli anni una location ricercatissima nel mondo dello spettacolo, dal cinema (Becket e il suo re, Robin Hood: Principe dei ladri, Elizabeth, Transformers – L’ultimo cavaliere) alle serie TV (quinta e sesta stagione di Downton Abbey, sotto il nome di Brancaster Castle).

L’ingresso principale del castello

Un film in particolare, però, ha contribuito a rendere il castello di Alnwick celebre in tutto il mondo e uno dei luoghi più visitati d’Inghilterra: Harry Potter e la pietra filosofale (Chris Columbus, 2001), primo episodio della saga cinematografica con protagonista il mago nato dalla penna della scrittrice britannica J. K. Rowling. Il castello funge infatti da fiabesca ambientazione per la Scuola di Magia e Stregoneria di Hogwarts, comparendo anche nel capitolo successivo, Harry Potter e la camera dei segreti (2002).

Una scena di Harry Potter e la pietra filosofale

Il castello e il giardino

Data la sua posizione strategica nel Borders (la regione attorno al confine anglo-scozzese), il castello di Alnwick è una meta perfetta da visitare sia durante un viaggio in Scozia che in Inghilterra.

Passeggiando all’interno delle mura, si viene trasportati immediatamente nel magico mondo di Hogwarts, in attesa di una partita di Quidditch o di una lezione di volo sulla scopa, ma la bellezza dell’imponente architettura è tale da catturare chiunque, non solo i fan di Harry Potter.

Il castello in una scena di Harry Potter e la pietra filosofale

Il castello è composto da due costruzioni ad anello: l’anello interno contiene un piccolo cortile e le sontuose sale principali, in cui brillano regali salotti, biblioteche e sale da pranzo. Lungo il perimetro delle mura esterne svettano le torri, nelle quali si tengono mostre patrocinate dal ducato.

La Postern Tower ospita affreschi di Pompei, reperti dell’antico Egitto e del periodo romano-britannico, testimonianza del fervido interesse del duca per l’archeologia. All’interno della Constable’s Tower ha occasionalmente luogo la ricostruzione storica della tentata invasione dell’Inghilterra ad opera di Napoleone Bonaparte. La Abbot’s Tower è la sede del Northumberland Fusiliers Museum.

Dentro le mura del castello

La duchessa Jane Richard, originaria di Edimburgo, è la prima nella sua posizione a non provenire dall’aristocrazia e la prima donna a essere nominata Lord luogotenente di Northumberland, titolo conferitole nel 2009 dalla regina Elisabetta II: dal 2000 ha curato il rinnovamento dell’Alnwick Garden, il giardino adiacente al castello, rendendolo una delle maggiori attrazioni d’Inghilterra.

Un notevole contributo a tale successo è arrivato, ancora una volta, dalla saga di Harry Potter, grazie soprattutto a due suggestive materie insegnate a Hogwarts, Pozioni e Erbologia: dal 2005, l’Alnwick Garden ospita infatti il Poison Garden, in cui sono esposte alcune delle piante più tossiche al mondo (noce vomica o albero della stricnina, cicuta, ricino, digitale, belladonna, Brugmansia, Laburnum) insieme a cannabis, coca e papavero da oppio.

L’Alnwick Garden

Harry Potter e la pietra filosofale

Harry Potter, rimasto orfano dei genitori all’età di un anno, viene affidato agli zii materni, Vernon e Petunia Dursley, dal preside della Scuola di Magia e Stregoneria di Hogwarts Albus Silente. Nei dieci anni successivi Harry cresce in un clima fortemente ostile: trattato con durezza dagli zii e vessato dal cugino Dudley, è costretto a dormire in un sottoscala, ma si rende presto conto di avere poteri straordinari.

Harry nella sua cameretta

Poco prima del suo undicesimo compleanno, Harry riceve inaspettatamente una misteriosa lettera, che gli zii gli impediscono di leggere. Col passare dei giorni le lettere aumentano sempre di più, recapitate da gufi e civette, finché lo zio Vernon decide esasperato di trasferire la famiglia in una sperduta baracca.

La lettera per Harry

Il giorno del compleanno di Harry, il guardiacaccia Hagrid riesce finalmente a consegnargli la lettera di ammissione alla Scuola di Magia e Stregoneria di Hogwarts, rivelandogli di essere un mago. Harry riesce inoltre a far luce sul proprio passato: anche i suoi genitori erano maghi e, dieci anni prima, erano stati uccisi dal più terribile mago oscuro di tutti i tempi, Lord Voldemort; l’insolita cicatrice che ha sulla fronte è la testimonianza del fatto che quella notte è sopravvissuto alla furia di Voldemort, evento che lo ha reso una celebrità tra i maghi.

Harry e Hagrid a Diagon Alley

Hagrid accompagna Harry prima a Diagon Alley, un quartiere magico al centro di Londra dove poter procurare l’occorrente per la scuola, poi alla stazione di King’s Cross per prendere il treno in partenza dal binario 9 ¾. Qui Harry incontra Ron Weasley, anche lui al primo anno di scuola, e la sua famiglia. Durante il viaggio sull’Hogwarts Express, Harry e Ron fanno amicizia e conoscono Hermione Granger, saccente ragazza figlia di genitori babbani (senza poteri magici), e l’arrogante Draco Malfoy, verso il quale provano subito una contraccambiata antipatia.

Harry, Ron e Hermione

Giunti a Hogwarts, i ragazzi del primo anno devono essere assegnati dal Cappello Parlante a una delle quattro case della scuola: Grifondoro, Serpeverde, Tassorosso e Corvonero. Harry, Ron e Hermione vengono assegnati alla casa dei Grifondoro e stringono presto una forte amicizia.

Harry e il Cappello Parlante

Harry inizia a frequentare i corsi di magia, distinguendosi soprattutto per l’innato talento nel volo sulla scopa, grazie al quale diventa il nuovo cercatore dei Grifondoro nella squadra di Quidditch, il gioco più popolare nella comunità dei maghi.

Quidditch!

Nel corso dell’anno, Harry, Ron e Hermione vengono a conoscenza del fatto che sotto una misteriosa botola nel castello di Hogwarts è custodita la pietra filosofale, in grado di trasformare qualsiasi metallo in oro e di produrre un elisir di lunga vita. I tre si convincono che il sinistro professore di Pozioni Severus Piton, che sembra nutrire una particolare avversione per Harry, voglia rubarla per consegnarla a Voldemort, e decidono di intervenire. Dopo una serie di prove, Harry scoprirà che a volere la pietra filosofale è Raptor, il professore di Difesa contro le Arti Oscure, e dovrà affrontare nuovamente Voldemort, che sopravvive come un parassita nel corpo di Raptor, bramoso della pietra per tornare in vita.

Harry, Ron e Hermione

Curiosità sul film

Harry Potter e la pietra filosofale fu presentato in anteprima mondiale alla Leicester Square di Londra esattamente vent’anni fa, il 4 novembre 2001: per l’occasione, il cinema fu decorato in modo da riprodurre la scuola di Hogwarts.

Il film fu subito accolto positivamente dalla critica e riscosse un incredibile successo di pubblico, arrivando a incassare 974.755.371 milioni di dollari in tutto il mondo.

La statua di Harry Potter alla Leicester Square di Londra

Il castello di Alnwick, la King’s Cross Station di Londra, la Cattedrale di Gloucester, la stazione di Goathland e i Warner Bros. Studios di Leavesden furono utilizzati come set principali, ma le riprese del film ebbero luogo in diverse altre location sparse nel Regno Unito: alcune scene di Hogwarts furono girate a Harrow School e alla Cattedrale di Durham; la Divinity School dell’Università di Oxford venne utilizzata come infermeria di Hogwarts; la Duke Humfrey’s Library, parte della Biblioteca Bodleiana, divenne la biblioteca della scuola; la Australia House di Londra venne usata per la banca Gringott, la Christ Church come sala dei trofei di Hogwarts; la scena in cui Harry aizza il serpente contro Dudley venne girata allo zoo di Londra; Privet Drive fu ricostruita a Picket Post Close a Bracknell, nel Berkshire.

La Cattedrale di Canterbury, candidata come possibile set per Hogwarts, negò le riprese alla Warner Bros. a causa dei contenuti pagani del film.

La King’s Cross Station di Londra

Harry Potter e la pietra filosofale, così come gli altri capitoli della saga, vanta un cast stellare interamente britannico e irlandese su precisa volontà della Rowling, che intendeva così mantenere l’integrità culturale dei romanzi: i tre protagonisti Daniel Radcliffe, Rupert Grint e Emma Watson, che qui mossero i primi passi delle proprie carriere cinematografiche nei ruoli di Harry Potter e dei suoi migliori amici Ron Weasley e Hermione Granger, sono affiancati da attori come Richard Harris (Albus Silente nei primi due film, sostituito poi da Michael Gambon), Alan Rickman (Severus Piton), Maggie Smith (Minerva McGranitt), Robbie Coltrane (Hagrid), Tom Felton (Draco Malfoy), Jason Isaacs (Lucius Malfoy) e John Hurt (Olivander, il venditore di bacchette magiche).

La scrittrice J. K. Rowling con Rupert Grint, Daniel Radcliffe e Emma Watson

Richard Harris aveva inizialmente rifiutato il ruolo del preside Albus Silente, ma dichiarò di aver cambiato idea quando sua nipote lo minacciò di non rivolgergli più la parola se non lo avesse interpretato.

Richard Harris/Albus Silente in una scena del film

Il professore di Difesa contro le Arti Oscure, Quirinus Raptor, è interpretato da Ian Hart. Per la parte era candidato anche l’attore David Thewlis, che entrerà a far parte della saga dal terzo capitolo, Harry Potter e il prigioniero di Azkaban, nelle vesti di un altro professore di Difesa contro le Arti Oscure: Remus Lupin.

Ian Hart/Quirinus Raptor (in alto) e David Thewlis/Remus Lupin (in basso)

Severus Piton, insegnante di Pozioni e direttore della casa di Serpeverde, è uno dei personaggi chiave della saga, magistralmente interpretato da Alan Rickman: per il ruolo era stato inizialmente selezionato l’attore Tim Roth, che dovette rifiutare essendo già impegnato sul set del film Planet of the Apes – Il pianeta delle scimmie di Tim Burton.

Alan Rickman/Severus Piton (a sinistra) e Tim Roth (a destra)

U-Boot 96 (Wolfgang Petersen, 1981)

Eine Reise ans Ende des Verstandes”
“Un viaggio ai limiti della mente umana”

(Tagline del film)

U-Boot 96 (Das Boot) è un film di guerra tedesco del 1981 scritto e diretto da Wolfgang Petersen e interpretato da Jürgen Prochnow, Herbert Grönemeyer e Klaus Wennemann.

La pellicola è incentrata sull’U-96, un sommergibile della Marina militare tedesca (Kriegsmarine) in servizio durante la Seconda Guerra Mondiale (U-Boot è l’abbreviazione di Unterseeboot, letteralmente battello sottomarino) ed è tratta dall’omonimo romanzo di Lothar-Günther Buchheim Das Boot, pubblicato nel 1973 ed edito in Italia come U-Boot.

L’U-96 in una scena del film

La narrazione è immaginaria, ma si basa su episodi realmente accaduti al vero U-96: Buchheim, autore del romanzo, era salito a bordo del sommergibile nel 1941 come corrispondente di guerra per fotografare e descrivere un U-Boot in azione per scopi di propaganda; Heinrich Lehmann-Willenbrock, comandante dell’U-96 e sesto comandante tedesco per tonnellaggio nemico affondato (179125 tonnellate) nella Battaglia dell’Atlantico contro gli Alleati, fece da consulente alla regia insieme a Hans-Joachim Krug, comandante in seconda dell’U-219.

Il vero U-96 e il comandante Lehmann-Willenbrock

Nell’ottobre 1941, il tenente Werner si imbarca a La Rochelle come corrispondente di guerra a bordo del sommergibile tedesco U-96, in procinto di salpare per l’Atlantico a caccia di navi nemiche. L’U-96 ha come ufficiali più alti in grado l’autorevole comandante, soprannominato Der Alte (Il vecchio), e il valente direttore di macchina.

Werner entra rapidamente a contatto con le dure condizioni di vita all’interno del sommergibile, segnate da snervanti attese, sporcizia e promiscuità, che minano costantemente il morale dell’equipaggio.

Il comandante e il tenente Werner in una scena del film

Dopo giorni di navigazione viene segnalata la presenza di un convoglio Alleato e il comandante si lancia all’attacco, ma una fitta nebbia ribalta inaspettatamente lo scenario: l’U-96 viene individuato e bombardato da un cacciatorpediniere (una nave da guerra progettata appositamente per attaccare i sommergibili, equipaggiata con sonar e cariche di profondità) e da cacciatore diventa preda, riuscendo comunque ad allontanarsi.

La disillusione del comandante, diffidente riguardo all’attendibilità degli ordini ricevuti, trova conferma quando l’U-96 si imbatte in un’unità amica: un incontro così improbabile nell’immensità dell’oceano induce a sospettare che uno dei due sommergibili sia stato inviato nel posto sbagliato, palese testimonianza della superficialità dell’Alto Comando sui reali obiettivi delle missioni.

Una notte l’U-96 avvista un convoglio nemico e attacca lanciando tre siluri, nonostante il chiarore della Luna lo renda facilmente distinguibile: i siluri raggiungono i bersagli, ma il sommergibile viene individuato da un caccia di scorta alle navi e bombardato per ore, riuscendo miracolosamente a salvarsi.

Una scena del film

Quando il rientro sembra ormai imminente, un inatteso ordine impone al sommergibile un ultimo incarico, che si rivela essere una missione suicida: dirigersi verso la base di La Spezia passando attraverso lo stretto di Gibilterra presidiato dalla flotta britannica.

Durante l’insidiosa traversata, l’U-96 viene centrato da una bomba e tenta la fuga immergendosi rapidamente: il colpo ricevuto ha però danneggiato gli strumenti per regolare l’immersione e l’assetto del sommergibile, che continua a scendere senza più controllo.

Raggiunta la profondità di 270 metri, ben oltre il livello di tenuta del natante, un banco di sabbia arresta la mortale discesa: la pressione dell’acqua, tuttavia, fa cedere rivetti e parte della tubolatura, provocando l’apertura di falle e di vie d’acqua che inondano rapidamente il sommergibile.

Una scena del film

In una corsa contro il tempo, con sempre meno ossigeno e forze residue, l’equipaggio riesce strenuamente a chiudere le falle e, grazie all’ingegno del direttore di macchina, a riparare gli impianti danneggiati, rimettendo il sommergibile in condizione di emergere: dopo oltre 24 ore e senza quasi più ossigeno, l’U-96 riesce a tornare in superficie.

Il comandante rinuncia ad attraversare lo stretto e dà ordine di rientrare alla base, ma il destino sarà implacabile.

Il direttore di macchina (Wennemann), il comandante (Prochnow) e il tenente Werner (Grönemeyer) in una scena del film

Un film di guerra antimilitarista, un film tedesco antinazista

A parte il primo guardiamarina, giovane ufficiale e fervente nazista, l’equipaggio dell’U-96 è apolitico o, come nel caso del comandante, apertamente antinazista. Lo storico Michael Gannon conferma che nel 1941, anno in cui è ambientato il film, gli U-Boot erano uno dei rami meno filo-nazisti nelle forze armate tedesche. Nel suo libro Iron Coffins (Bare di ferro), l’ex comandante di U-Boot Herbert A. Werner sottolinea che la selezione del personale navale in base alla lealtà al partito durante la guerra avvenne solo dal 1943 in poi, quando gli U-Boot stavano subendo ingenti perdite, il morale dei soldati era ai minimi termini e iniziava a serpeggiare un crescente scetticismo verso il Führer e l’Alto Comando.

Una scena del film

L’originalità di U-Boot 96 è spiazzante fin dal soggetto: la vita all’interno di un sommergibile durante la Seconda Guerra Mondiale raccontata dal punto di vista dei soldati tedeschi, mostrati per la prima volta come esseri umani dotati di sentimenti e ingegno e non come fanatici sanguinari. Una prospettiva del tutto nuova per l’epoca: in un’industria cinematografica dominata dal colosso statunitense, la pellicola di produzione tedesca stravolse i canoni del cinema di guerra. Un’impresa titanica ed estremamente rischiosa, che richiese una maniacale attenzione ai particolari: la minima ambiguità avrebbe facilmente attirato accuse di revisionismo.

I protagonisti non vengono dipinti come eroi: sono semplicemente soldati chiamati ad affrontare paure e insidie in un contesto così estremo e claustrofobico, dove all’angosciosa frenesia delle battaglie fanno da contraltare i lunghi periodi di inattività. È questa la vera forza del film: la costante tensione e il notevole realismo catapultano lo spettatore a bordo e generano una potentissima empatia verso i personaggi, arrivando a rendere imprevedibile un epilogo in fondo annunciato.

Una scena del film

Curiosità

La realizzazione del film durò due anni, dal 1979 al 1981. Le scene all’interno del sommergibile furono girate tutte di seguito, per rendere l’aspetto degli attori il più realistico possibile: il caratteristico pallore di chi ha vissuto al chiuso per lunghi periodi, la barba e i capelli incolti, i vestiti sporchi e sdruciti. Agli attori fu inoltre impartita una formazione sul campo per imparare a muoversi rapidamente negli angusti spazi del sommergibile, senza inciampare o scontrarsi con i compagni, così da limitare al massimo incidenti ed eventuali interruzioni.

Gli ufficiali dell’U-Boot 96 in una scena del film

Non disponendo la produzione delle attrezzature all’avanguardia usate dal cinema hollywoodiano, nelle scene in cui i personaggi dovevano essere bagnati l’acqua non era riscaldata e gli attori tremavano realmente per il freddo.

Ogni dettaglio, dalle divise alle apparecchiature, dalle armi alle suppellettili, è storicamente accurato. Per riprodurre l’U-96 furono realizzati due modelli a grandezza naturale di un vero U-Boot Tipo VII-C: un sommergibile motorizzato e vuoto per gli esterni in mare e un tubo provvisto di tutti gli interni; quest’ultimo era montato su un simulatore di navigazione azionato da attuatori idraulici in modo da ricreare rollio e beccheggio, insieme agli scossoni prodotti dalle bombe di profondità.

Interni del modello: tavolo del timoniere (in alto a sinistra), camera di manovra (in alto a destra), sala siluri (in basso a destra), sala macchine (in basso a sinistra)

Il modello usato per le scene in emersione venne prestato a Steven Spielberg per I predatori dell’arca perduta, le cui riprese erano iniziate in quel periodo, e fu restituito in pessime condizioni, tanto da allarmare la produzione sulla sua effettiva capacità di galleggiare nelle ultime scene ancora da girare.

Un modello della torretta del vero U-96 con il celebre logo del pesce sega ghignante fu realizzato per gli esterni che non richiedevano la ripresa dell’intero scafo. La torretta fu posizionata in una piscina nei Bavaria Studios di Monaco: per simulare le onde venivano lanciati getti d’acqua.

In alto, l’U-995 (un U-Boot Tipo VII-C) in esposizione al Memoriale navale di Laboe; in basso il modello della torretta esposto ai Bavaria Studios di Monaco

U-Boot 96 fu la prima parte di rilievo per l’attore Jürgen Prochnow (il comandante), che da quel momento divenne uno dei caratteristi più richiesti a livello internazionale (Dune, Un’arida stagione bianca, Robin Hood – La leggenda, Il paziente inglese), recitando spesso in ruoli di villain autoritari, crudeli e sadici.

Jürgen Prochnow in U-Boot 96

Herbert Grönemeyer (il tenente Werner) è uno dei più popolari cantautori tedeschi: dal 1984 tutti i suoi album si sono posizionati al primo posto nelle classifiche nazionali e i suoi album Mensch e 4630 Bochum sono ancora oggi il primo e il terzo album più venduti di sempre in Germania.

Herbert Grönemeyer in U-Boot 96

Nel 1997 la pellicola è stata distribuita in una versione Director’s cut di 209 minuti che, rispetto alla versione cinematografica del 1981 (149 minuti), risulta essere molto più completa senza appesantire la narrazione. Poiché l’audio originale era andato perduto, furono richiamati gli attori originali che, dopo sedici anni, ridoppiarono l’intera pellicola. In modo simile fu ricreata l’imponente colonna sonora, a partire dalla registrazione originale conservata dal compositore Klaus Doldinger: l’audio su più canali consentì la distribuzione del film in Dolby Digital.

U-Boot 96 è considerato uno dei migliori film di guerra mai realizzati: un thriller mozzafiato dal realismo quasi documentaristico, intelligente e anticonformista. Acclamato dalla critica, ottenne 6 nomination ai premi Oscar (regia, sceneggiatura non originale, fotografia, montaggio, sonoro e montaggio sonoro), attuale record per una pellicola tedesca, ma non riuscì a conquistare neppure una statuetta. Il film ebbe inoltre uno straordinario successo di pubblico, specialmente in Germania e negli Stati Uniti: a fronte di un budget iniziale di 32 milioni di marchi (tuttora una delle produzioni tedesche più costose di sempre), incassò quasi 85 milioni di dollari in tutto il mondo. Due anni dopo, un’altra pellicola diretta da Wolfgang Petersen avrebbe raggiunto i 100 milioni di dollari di incassi: La storia infinita, il film tedesco più costoso del dopoguerra (60 milioni di marchi).

Sul set di U-Boot 96 (da destra a sinistra): l’attore Jürgen Prochnow, il regista Wolfgang Petersen, l’autore del romanzo Lothar-Günther Buchheim e il direttore della fotografia Jost Vacano

Concorrenza sleale (Ettore Scola, 2001)

Concorrenza sleale è un film del 2001 diretto da Ettore Scola e interpretato da Diego Abatantuono, Sergio Castellitto, Gérard Depardieu, Elio Germano, Sabrina Impacciatore, Jean-Claude Brialy e Claudio Bigagli.

A Roma, nel 1938, due commercianti di stoffa si fanno una concorrenza agguerrita: l’elegante boutique di Umberto Melchiorri (Diego Abatantuono), originario di Milano, realizza abiti su misura; il vivace negozio di Leone Della Rocca (Sergio Castellitto), ebreo romano, vende capi confezionati. I due cercano continuamente nuove strategie per attrarre i clienti, non sempre corrette, e spesso si azzuffano per futili motivi.

All’astio tra i capifamiglia fanno da contraltare la grande amicizia dei figli più piccoli, Pietro e Lele, e la storia d’amore tra i figli maggiori, Paolo (Elio Germano) e Susanna.

Il rapporto tra Umberto e Leone, giunto ormai ai limiti dell’odio personale, cambia radicalmente con la proclamazione delle leggi razziali: Umberto, non condividendone i principi e vedendo Leone ingiustamente maltrattato, inizia a guardare il rivale sotto una luce diversa.

Diego Abatantuono, Sergio Castellitto e Jean-Claude Brialy in Concorrenza sleale

Il cinema ha spesso fornito un contributo divulgativo essenziale sull’Olocausto, producendo capolavori senza tempo entrati ormai nell’immaginario collettivo. In Concorrenza sleale, Ettore Scola riesce a esprimere un punto di vista originale e sincero sull’argomento, senza mai ricadere nel lacrimevole: proprio laddove l’antipatia e il disprezzo personale sono più tangibili, non c’è nessun odio razziale. Anzi, dal nulla affiorano solidarietà, comprensione, rispetto, perché nemmeno l’odio pregresso può giustificare quello razziale.

La narrazione seguita da prospettive diverse (i bambini, i ragazzi, gli adulti) e la lente d’ingrandimento sui singoli rapporti umani generano nello spettatore una straordinaria empatia, una profonda condivisione dei sentimenti vissuti dai protagonisti. Il tono del film cambia all’improvviso da commedia a dramma, una sensazione spiazzante che rispecchia con accuratezza la triste realtà dei fatti: di fronte alla disumanità delle persecuzioni razziali, preoccupazioni e decisioni della vita di ogni giorno perdono di significato in un attimo.

Non può mancare il fiero e irriducibile antifascismo di Scola, affidato con un geniale tocco di classe ai personaggi secondari: il professor Angelo Melchiorri (Gérard Depardieu), fratello di Umberto, l’orologiaio, la moglie e il cognato di Umberto, la commessa della boutique (Sabrina Impacciatore), l’ispettore di polizia (Claudio Bigagli). Ognuno di loro rappresenta una diversa sfumatura della stigmatizzazione del fascismo, messo più volte alla berlina con quella sublime punta di comicità amara tipica di uno dei maestri della commedia all’italiana.

Ettore Scola

La scelta degli attori è perfetta, i ruoli estremamente calzanti: Diego Abatantuono torna a indossare i panni dell’altero ma bonario uomo del nord, ruolo in cui si è più volte esaltato sotto la direzione di Gabriele Salvatores e Pupi Avati, mentre la parte del simpatico e ingegnoso trafficone è scritta su misura per Sergio Castellitto; da segnalare una delle prime interpretazioni di rilievo di un giovanissimo Elio Germano.

La fotografia e la scenografia (premiata con il David di Donatello) ricreano in maniera fedele e suggestiva la realtà dell’epoca, tanto che alcune inquadrature sembrano dei dipinti. Alcuni set del film, girato interamente negli studi di Cinecittà, verranno poi riutilizzati l’anno successivo da Martin Scorsese per il suo Gangs of New York (2002).

Daniel Day-Lewis in Gangs of New York

Il cinema e le leggi razziali

L’ambientazione storica nell’Italia del biennio 1938-39 lega indissolubilmente Concorrenza sleale a capolavori del cinema italiano come Una giornata particolare, Il giardino dei Finzi Contini e La vita è bella, fervide e lucide testimonianze cinematografiche di uno dei capitoli più bui e infamanti della storia italiana: la proclamazione delle leggi razziali fasciste poco dopo la visita di Hitler in Italia, in un clima di esaltazione rasente la follia.

Una giornata particolare è un film del 1977 diretto dallo stesso Ettore Scola: il 6 maggio 1938, giorno in cui Adolf Hitler è in visita a Roma, in un casermone popolare della Capitale si intrecciano per qualche ora le vite di Antonietta (Sofia Loren), casalinga ignorante e madre di sei figli sposata con un fervente fascista, e Gabriele (Marcello Mastroianni), intellettuale ex radiocronista dell’EIAR (Ente Italiano per le Audizioni Radiofoniche), omosessuale e destinato al confino.

Dall’incontro di due anime infelici in quella giornata particolare emerge il dramma celato dalla normalità: l’amarezza di una donna esclusa da tutto ciò che la circonda, relegata alla servile routine giornaliera incoraggiata dal sistema; il tormento di un diverso, perseguito per le proprie opinioni e per il proprio orientamento sessuale non conformi con quanto imposto dall’ottusa ideologia fascista.

Sofia Loren e Marcello Mastroianni in Una giornata particolare

Il giardino dei Finzi Contini (1970), diretto da Vittorio De Sica e tratto dall’omonimo romanzo di Giorgio Bassani, è una delle pellicole più significative del XX secolo, premiata con l’Orso d’oro al Festival di Berlino e con l’Oscar per il miglior film straniero. Nella Ferrara del 1938, i Finzi Contini sono una facoltosa famiglia ebrea appartenente all’alta borghesia: il nucleo familiare è composto dal professor Ermanno, sua moglie Olga, i figli Micòl (Dominique Sanda) e Alberto (Helmut Berger) e la nonna Regina.

La promulgazione delle leggi razziali stravolge la vita della comunità ebraica. Quando Giorgio (Lino Capolicchio), ebreo amico di famiglia da sempre innamorato di Micòl, viene espulso dal circolo del tennis, i Finzi Contini consentono a lui e all’amico Giampiero Malnate (Fabio Testi), milanese comunista, di frequentare il campo da tennis all’interno del maestoso giardino della propria villa. Le frustrazioni e le umiliazioni perpetrate dalla crescente discriminazione razziale, cui fa da sfondo il tormentato rapporto tra Giorgio e Micòl, seguono l’inesorabile precipitare degli eventi, fino al tragico epilogo.

Lino Capolicchio e Dominique Sanda ne Il giardino dei Finzi Contini

La vita è bella (1997), diretto e interpretato da Roberto Benigni e vincitore di tre Premi Oscar (miglior film straniero, miglior attore protagonista a Benigni e miglior colonna sonora a Nicola Piovani), è diventato una vera e propria icona del cinema italiano nel mondo. Nel 1939 Guido Orefice (Benigni), ebreo di indole allegra e giocosa, giunge ad Arezzo per lavorare come cameriere nell’hotel in cui suo zio è maître e si innamora, ricambiato, di Dora (Nicoletta Braschi), una maestra elementare. Guido e Dora si sposano e dal loro amore nasce Giosuè.

Nel 1944 l’antisemitismo, cresciuto a dismisura negli anni, è ormai diventato persecuzione: gli ebrei sono trattati come appestati, le loro attività vengono boicottate, la libreria che ha aperto Guido è quasi sempre deserta. In questo contesto, Guido cerca di proteggere il figlio (Giorgio Cantarini) dalla crudeltà che lo circonda, trovando sempre un modo nuovo di scherzarci su (celeberrimo il dialogo tra i due originato dal cartello Vietato l’ingresso agli ebrei e ai cani esposto da un negozio). Poco tempo dopo, l’apice del dramma: Guido e la sua famiglia vengono deportati in un lager, ove Guido cercherà di salvare il figlio dagli orrori dell’Olocausto, facendogli credere che sia tutto parte di un gioco basato su prove durissime in vista di uno straordinario premio finale.

Roberto Benigni, Nicoletta Braschi e Giorgio Cantarini ne La vita è bella

La visione sequenziale delle quattro pellicole rispecchia idealmente il reale ordine cronologico degli eventi: se Una giornata particolare fa da preludio alla surreale tragedia che sta per consumarsi nella quotidianità del miope popolo italiano, Concorrenza sleale e Il giardino dei Finzi Contini descrivono accuratamente l’evoluzione e gli effetti della discriminazione razziale conseguente alla proclamazione delle leggi fasciste, mentre La vita è bella chiude il capitolo raggiungendo il proprio culmine nelle atrocità dei campi di concentramento.

Un particolare e potentissimo filo conduttore unisce i film: il risentimento improvviso e ingiustificato verso il proprio simile, la crudele e grottesca atmosfera di impotenza e vessazione che inizia a pervadere la vita delle persone di diversa razza, religione o orientamento sessuale.

Un contesto reso immortale da un noto componimento spesso erroneamente attribuito a Bertolt Brecht, un sermone del pastore Martin Niemöller contro l’apatia degli intellettuali tedeschi in seguito all’ascesa del nazismo e all’epurazione dei suoi obiettivi gruppo dopo gruppo: Prima vennero…

Prima di tutto vennero a prendere gli zingari, e fui contento, perché rubacchiavano.
Poi vennero a prendere gli ebrei, e stetti zitto, perché mi stavano antipatici.
Poi vennero a prendere gli omosessuali, e fui sollevato, perché mi erano fastidiosi.
Poi vennero a prendere i comunisti, e io non dissi niente, perché non ero comunista.
Un giorno vennero a prendere me, e non c’era rimasto nessuno a protestare.

(Martin Niemöller)

Premi Oscar 2021

L’atmosfera surreale della 93ª edizione degli Academy Awards in tempi di pandemia sarà impossibile da dimenticare.

Posticipata di due mesi, la notte degli Oscar si è tenuta quasi interamente alla Union Station di Los Angeles e solo in parte al Dolby Theatre (che la ospitava dal 2002), con un ristretto numero di ospiti e molti candidati collegati in diretta dall’estero.

La novità più importante è stata l’inconsueto ordine di consegna delle statuette: per la prima volta, la serata si è conclusa con la premiazione del Miglior attore e non del Miglior film.

Forse l’Academy ha voluto tenere per ultima la sorpresa più grande: Anthony Hopkins ha infatti vinto l’Oscar come Miglior attore protagonista per The Father di Florian Zeller, superando in volata il favoritissimo Chadwick Boseman, candidato per Ma Rainey’s Black Bottom di George C. Wolfe.

The Father: in alto, Anthony Hopkins in una scena del film; in basso, Florian Zeller con l’Oscar per la Miglior sceneggiatura non originale

Un Oscar più che meritato: la performance di Hopkins è straordinaria, mentre quella di Boseman risulta sopra le righe, in un film piuttosto insignificante, e una sua vittoria sarebbe stata facilmente ricondotta alla sua prematura scomparsa. Bravissimi anche Olivia Colman e Rufus Sewell, interpreti rispettivamente della figlia e del genero del protagonista.

Grazie alla potenza dei dialoghi, enfatizzata dagli ambienti chiusi, The Father è stato premiato anche per la Miglior sceneggiatura non originale: una statuetta molto particolare per lo scrittore Florian Zeller, al suo esordio alla regia, autore sia della pièce teatrale che del suo adattamento cinematografico.

The Father tratta con vigore e partecipazione un argomento estremamente delicato, in grado di scuotere l’intima sensibilità di chiunque, portando lo spettatore a immedesimarsi nella confusione di una persona affetta da demenza senile mediante pregevoli espedienti scenici.

Una donna promettente: in alto, Carey Mulligan in una scena del film; in basso, Emerald Fennell con l’Oscar per la Miglior sceneggiatura originale

Il premio per la Miglior sceneggiatura originale è andato a Emerald Fennell per Una donna promettente (Promising Young Woman), da lei scritto e diretto: una scelta coraggiosa motivata anche dall’uso di un linguaggio crudo ed esplicito.

Il film è angosciante, feroce: un macabro thriller nella provocatoria confezione di una commedia con ricorrenti tratti tipici dell’horror. Climax talmente potenti ed efficaci da non rendere quasi mai necessario un colpo di scena: quasi, perché una tale implosione non può che divampare con tutta la sua furia nel caustico finale.

Eccezionale la protagonista Carey Mulligan, che avrebbe probabilmente meritato l’Oscar, senza nulla togliere alla sempre strepitosa Frances McDormand.

Nomadland: in alto, Frances McDormand in una scena del film; in basso, Chloé Zhao con gli Oscar per il Miglior film e la Miglior regia

La statuetta come Miglior attrice protagonista alla McDormand è stata senza dubbio la meno attesa delle tre conquistate da Nomadland, annunciato vincitore degli Oscar per il Miglior film e la Miglior regia: la regista Chloé Zhao è diventata la prima donna asiatica a vincere il prestigioso premio.

Il viaggio e l’isolamento esprimono necessità esistenziali, barlumi di sopravvivenza più che scelte di vita. Il film è un’opera struggente, profondamente umana, ma manca quella scintilla che l’avrebbe liberato dalla gravità del tono semi-documentaristico.

Dall’estrema solitudine di Nomadland alla vita di una famiglia, Minari, di Lee Isaac Chung: due opposti che rientrano nella stessa categoria emotiva, due film drammatici con un messaggio di speranza non scontato, rivolto a chi trova la forza di coglierlo.

Minari: in alto, Steven Yeun e Alan Kim in una scena del film; in basso, Yoon Yeo-jeong con l’Oscar per la Miglior attrice non protagonista

Minari è una storia commovente, notevole lo spunto e bravi gli interpreti, in particolare le donne: Han Ye-ri, nella parte di Monica, avrebbe meritato almeno una nomination come Miglior attrice protagonista, mentre Yoon Yeo-jeong è riuscita ad aggiudicarsi la statuetta come Miglior attrice non protagonista nella parte di sua madre Soon-ja, prima sudcoreana a essere premiata con un Oscar per una prova attoriale.

Verso la fine, però, si avverte qualcosa che interferisce con l’armonia del film: una forzata ricerca del dramma, unita a un’innaturale necessità di far passare il messaggio più corretto.

Sound of Metal: in alto, Riz Ahmed in una scena del film; in basso, Nicolas Becker, Jaime Baksht, Michelle Couttolenc, Carlos Cortés e Philip Bladh con l’Oscar per il Miglior sonoro

Doveroso l’Oscar per il Miglior sonoro a Sound of Metal di Darius Marder, una delle pellicole più originali e significative di questa edizione, vincitrice anche del premio per il Miglior montaggio (Mikkel E. G. Nielsen). Una storia intensa ed emozionante, in cui silenzio e rumore diventano protagonisti assoluti.

Notevoli Olivia Cooke (nel ruolo di Lou) e Paul Raci (candidato all’Oscar come Miglior attore non protagonista per l’interpretazione di Joe), perfetto Riz Ahmed nei panni del protagonista (il batterista Ruben): una splendida performance forse penalizzata agli Oscar dall’innovativa e disorientante struttura del film.

Judas and the Black Messiah: in alto, Daniel Kaluuya in una scena del film; in basso, H.E.R. con l’Oscar per la Miglior canzone originale

Nessuna sorpresa per l’Oscar come Miglior attore non protagonista, conquistato dall’annunciatissimo Daniel Kaluuya per Judas and the Black Messiah di Shaka King, premiato anche per la Miglior canzone originale (Fight For You di H.E.R.).

Judas and the Black Messiah è un film imponente e coraggioso che fa luce su una scomoda vicenda storica, stigmatizzando le efferatezze di cui possono macchiarsi le istituzioni e delineando con perizia i profili di un carismatico leader (Fred Hampton/Daniel Kaluuya) e di un tormentato infiltrato (William O’Neal/Lakeith Stanfield).

Lakeith Stanfield avrebbe meritato l’Oscar come Miglior attore non protagonista, ma la scelta di candidare Daniel Kaluuya nella stessa categoria ha di fatto spianato la strada all’attore britannico.

Mank: in alto, Gary Oldman in una scena del film; in basso, Erik Messerschmidt con l’Oscar per la Miglior fotografia

Delusione annunciata per Mank di David Fincher, vincitore di due soli Oscar a fronte delle dieci candidature: Miglior fotografia allo splendido bianco e nero di Erik Messerschmidt, che ha battuto a sorpresa il favorito Nomadland, e Miglior scenografia a Donald Graham Burt e Jan Pascale per l’ineccepibile ricostruzione scenica di un capitolo fondamentale nella storia del Cinema.

Nonostante un grande Gary Oldman, la staticità dell’azione e la bassa risonanza della vicenda appesantiscono inevitabilmente il film, raggiungendo un pubblico forse troppo di nicchia.

Un altro giro: in alto, Mads Mikkelsen in una scena del film; in basso, Thomas Vinterberg con l’Oscar per il Miglior film internazionale

Un altro giro (Druk) di Thomas Vinterberg, candidato anche per la Miglior regia, è stato premiato con l’Oscar per il Miglior film internazionale.

La pellicola danese, incentrata sui possibili benefici dell’alcol nella vita di una persona, è un pugno nello stomaco al perbenismo condiscendente: un messaggio all’apparenza ambiguo e addirittura nocivo ma, in realtà, di grande potenza.

Bravissimi gli attori, su tutti un impagabile Mads Mikkelsen dallo sguardo vacuo e impenetrabile.

Soul: in alto, una scena del film; in basso, Trent Reznor, Atticus Ross e Jon Batiste con l’Oscar per la Miglior colonna sonora

La Disney-Pixar sbanca di nuovo gli Oscar con Soul di Pete Docter, che si aggiudica le statuette per il Miglior film d’animazione e la Miglior colonna sonora.

Una bella storia con un’idea di base vivace e un finale emozionante, che forse poteva essere curata di più nei dettagli, rendendo davvero protagonista la musica jazz e sviluppando meglio alcune trovate (una su tutte, la famosa scintilla): in certi casi, la confezione vale più del contenuto.

Il mio amico in fondo al mare: in alto, una scena del film; in basso, Pippa Ehrlich e James Reed con l’Oscar per il Miglior documentario

Meritano di essere menzionati anche il coinvolgente documentario Il mio amico in fondo al mare (My Octopus Teacher) di Pippa Ehrlich e James Reed, vincitore dell’Oscar nella sua categoria, e Il Processo ai Chicago 7 (The Trial of the Chicago 7) di Aaron Sorkin, vibrante spaccato di un’epoca che avrebbe meritato almeno una statuetta sulle sei candidature ricevute.

Anastasia: origini di una leggenda

Anastasia è una commedia romantica del 1956 diretta da Anatole Litvak e interpretata da Ingrid Bergman, Yul Brynner, Helen Hayes e Akim Tamiroff.

A Parigi, nel 1928, il generale Bounine (Brynner) istruisce Anna Korev (Bergman), una giovane affetta da amnesia fuggita da un manicomio, sperando di farla passare per la granduchessa Anastasia, sopravvissuta secondo la leggenda all’eccidio della famiglia imperiale: l’obiettivo di Bounine è far riconoscere ufficialmente la donna da parenti e conoscenti sfruttando la notevole somiglianza fisica con la principessa e l’impossibilità di risalire alle sue vere origini, così da potersi impossessare del tesoro dei Romanov, custodito in una banca inglese.

Anastasia (1956)

Anna non solo riesce a recitare la parte alla perfezione ma, apparentemente grazie ai ricordi che ogni tanto riaffiorano nella sua mente, finisce col credere di essere davvero Anastasia. Dopo diversi tentativi la donna riesce a incontrare l’imperatrice madre Marija Fëdorovna (Hayes) che, dopo un’iniziale esitazione, riconosce in lei la nipote. Nel frattempo Bounine, innamoratosi di Anna, rinuncia a ogni pretesa sull’eredità: la donna, che ricambia i suoi sentimenti, dovrà quindi scegliere tra l’amore e i fasti della vita nobiliare.

A sinistra, il regista Anatole Litvak con Ingrid Bergman e Yul Brynner; a destra, i due attori in una scena del film

Anastasia fece guadagnare a Ingrid Bergman il suo secondo Oscar come miglior attrice, segnando il suo trionfale ritorno a Hollywood dopo gli anni di ostracismo a cui era stata sottoposta per la chiacchierata relazione con il regista Roberto Rossellini, iniziata nel 1950 durante le riprese di Stromboli (Terra di Dio) mentre entrambi erano sposati. La notizia della gravidanza della Bergman aveva suscitato grande scandalo nella bigotta e perbenista opinione pubblica americana: l’attrice dall’aspetto angelico era diventata improvvisamente “un’adultera da lapidare” e la stampa l’aveva definita “Hollywood’s apostle of degradation” (“apostolo della degradazione di Hollywood”), montando contro di lei una campagna denigratoria senza precedenti. Gli strascichi si erano protratti a tal punto da impedire alla Bergman di presenziare di persona alla cerimonia degli Oscar: la statuetta venne ritirata dal suo grande amico Cary Grant. Come la sua Anna Korev nel film, la Bergman rinacque in Anastasia.

Ingrid Bergman in Stromboli (Terra di Dio)

Il 1956 fu un anno trionfale anche per Yul Brynner, in quel momento all’apice della carriera: oltre al ruolo del generale Bounine in Anastasia, l’attore era reduce dal successo de Il re ed io di Walter Lang, per il quale era stato premiato con l’Oscar (Anastasia vanta quindi nel cast i due Premi Oscar come miglior attore e miglior attrice del 1957), e aveva offerto una memorabile interpretazione del faraone Ramesse II nel kolossal I dieci comandamenti di Cecil B. DeMille. Celebre per il capo rasato, divenuto un suo tratto caratteristico così come il suo sguardo penetrante, Brynner dava il meglio di sé nei ruoli esotico-orientali, esaltando le sue origini russe: in Anastasia (e nel successivo Karamazov di Richard Brooks del 1958) riemerge anche il suo passato di talentuoso chitarrista nei locali notturni parigini.

Yul Brynner alla cerimonia degli Oscar (in alto a sinistra), ne Il re ed io (in alto a destra), in Karamazov (in basso a destra), ne I dieci comandamenti (in basso a sinistra)

Nel 1997, la 20th Century Fox produsse il film d’animazione Anastasia, a sua volta basato sulla leggenda della principessa sopravvissuta. Inevitabilmente molto lontano dalla realtà storica, il cartone animato prende tuttavia spunto da un evento realmente accaduto: le celebrazioni per i trecento anni dall’insediamento della dinastia Romanov (l’anniversario fu nel 1913, non nel 1916 come riportato) erano state offuscate da oscuri presagi. Il monaco Grigorij Rasputin affermò che il potere dei Romanov sarebbe tramontato se fossero entrati in guerra e non sarebbe sopravvissuto due anni alla sua morte se alla base di questa ci fosse stato qualcuno dei membri della famiglia: due previsioni che si sarebbero avverate poco tempo dopo. Nel cartone animato, dietro la fine dei Romanov c’è proprio una maledizione di Rasputin, ma in realtà egli era già morto al momento dell’eccidio.

Anastasia (1997)

Vi sono diversi riferimenti alla vita del vero Rasputin: l’annegamento del monaco all’inizio del film rievoca l’ultimo atto dei suoi assassini, che lo gettarono nel fiume Neva dopo avergli sparato più volte, per essere sicuri di averlo eliminato; l’essere un non-morto che continua a vivere seppur ridotto a pezzi riprende le sue leggendarie capacità di sopravvivenza. Una delle maggiori inesattezze storiche è però proprio nella rappresentazione di Rasputin: la versione dell’uomo malvagio e assetato di potere è stata spesso sposata dai media (da citare Rasputin, il monaco folle del 1966 diretto da Don Sharp con Christopher Lee nei panni del protagonista), ma è basata sulle calunnie diffuse all’epoca dall’aristocrazia russa per diffamarlo. Molto probabilmente si trattava di un imbonitore che sfruttava la sua influenza sulla famiglia imperiale per il proprio tornaconto, non tanto diverso da altri santoni dell’epoca, e pertanto inviso alla casta nobiliare, invidiosa della sua posizione.

Christopher Lee in Rasputin, il monaco folle (1966)

La vicenda di Anna Anderson

Ma come mai proprio la granduchessa Anastasija Nikolaevna Romanova è divenuta leggenda?

Anastasija Nikolaevna Romanova

Il film Anastasia è incentrato sulla storia romanzata di Anna Anderson, il cui nome è utilizzato esplicitamente come pseudonimo della protagonista in una scena.

Ricoverata in un ospedale psichiatrico a Berlino nel febbraio 1920 in seguito a un tentativo di suicidio, Anna Anderson sostenne di essere la granduchessa Anastasija, quartogenita dello zar Nicola II Romanov. La notizia accese battaglie legali e giornalistiche tra detrattori e sostenitori della donna: su questi ultimi pesava il forte sospetto di interessi legati al recupero dell’ingente tesoro dei Romanov. Le dispute coinvolsero anche parenti e altri personaggi vicini alla famiglia dello zar, ma per anni non giunsero né conferme né smentite sulla reale identità della donna, non esistendo prove documentali dirette o evidenze fisiche inconfutabili. Tra l’altro la Anderson, affetta da seri disturbi psichici, si dimostrava tutt’altro che collaborativa.

Anna Anderson

La storia di Anna Anderson apparve da subito controversa. Alcuni sostenevano le sue pretese, suffragate da presunte coincidenze anatomiche (colore degli occhi, altezza e presenza di una piccola deformità ai piedi). I detrattori controbattevano che eventuali riconoscimenti da parte di parenti e conoscenti potevano essere facilmente influenzati dal desiderio di ritrovare viva la granduchessa. Inoltre, le somiglianze fisiche potevano essere comuni a più donne e la conoscenza della vita di corte era spiegata in dettaglio in molti libri e poteva dunque essere facilmente memorizzata anche nei particolari.

Sin dagli Anni ’20, molti personaggi di fantasia si sono ispirati alla vicenda di Anna Anderson. Nel 1953, l’autrice francese Marcelle Maurette scrisse Anastasia, una pièce basata su Anastasia, a Woman’s Fate as Mirror of the World Catastrophe della scrittrice tedesca Harriet von Rathlef e su La falsa Anastasia: storia di una presunta Gran Duchessa di Russia di Pierre Gilliard, precettore dei figli dello zar sopravvissuto al destino dei Romanov: la prima a sostegno della Anderson, il secondo tra i più strenui oppositori. È lo spettatore a decidere se credere o meno che la protagonista, Anna, sia davvero Anastasia. La commedia, con protagonista l’attrice Viveca Lindfors, fece il giro del mondo e riscosse tanto successo da essere riadattata in inglese da Guy Bolton per l’omonimo film del 1956.

A sinistra, la scrittrice Marcelle Maurette; a destra, le attrici Viveca Lindfors e Eugenie Leontovich nella pièce Anastasia

Anna Anderson sostenne di essere la granduchessa Anastasija fino alla sua morte, sopraggiunta nel 1984: solo nel 1994 le analisi del DNA confermarono che ella non poteva in alcun modo essere imparentata con la famiglia Romanov, ma che si trattava di Franziska Schanzkowski, una malata di mente di origine polacca scomparsa da un ospedale psichiatrico di Berlino nel 1919.

Ma cosa ha alimentato per quasi un secolo la leggenda di membri della famiglia imperiale russa sopravvissuti alla Rivoluzione?

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La storia dietro la leggenda

Nella Russia zarista di inizio ‘900 le drammatiche condizioni di vita spinsero la popolazione a manifestazioni di protesta sempre più frequenti e il tradizionale sistema di potere autocratico iniziò a mostrare le prime consistenti crepe, acuite dall’umiliante sconfitta nella guerra russo-giapponese (1904–1905).

Il 22 gennaio 1905, a San Pietroburgo, l’esercito imperiale represse nel sangue una manifestazione pacifica di operai e contadini, recatisi davanti al Palazzo d’Inverno per chiedere riforme allo zar Nicola II: la Domenica di sangue segnò l’inizio della Prima rivoluzione russa. I lavoratori, organizzatisi nei soviet, indissero uno sciopero nazionale e chiesero la proclamazione di una repubblica democratica. Un’ondata di rivolte paralizzò il Paese: tra queste, l’ammutinamento della corazzata Potëmkin, immortalato nell’indimenticabile capolavoro (1925) del cineasta sovietico Sergej Michajlovič Ėjzenštejn.

La corazzata Potëmkin (1925)

Sin dalla creazione dell’Impero russo, gli zar avevano sempre regnato come monarchi assoluti. Il 30 ottobre 1905, Nicola II firmò il Manifesto di ottobre, rinunciando al potere legislativo in favore di un parlamento elettivo, la Duma di Stato. Ben presto, però, essendo la Duma in costante disaccordo con lo zar, questi cambiò la legge elettorale concedendo il diritto di voto alle sole classi più abbienti. Il Paese ripiombò nel caos: per sedare scioperi e sommosse venne decretata la legge marziale.

Lo zar Nicola II Romanov era succeduto al padre Alessandro III, morto improvvisamente a 49 anni, nel 1894. Mancandogli una completa educazione al ruolo, si era attenuto alla linea politica paterna, rifiutando testardamente di comprendere una realtà del tutto diversa rispetto al passato. L’inesperienza, l’indolenza e il totale disinteresse per le questioni di carattere sociale resero lo zar facilmente influenzabile e sempre più impopolare: a ciò contribuì in maniera determinante sua moglie, la zarina Aleksandra Fëdorovna, oppressa dalla paura e dal senso di colpa per aver trasmesso l’emofilia all’unico figlio maschio ed erede, lo zarevic Aleksej, esposto al pericolo di forti emorragie per ogni minimo trauma. La costante preoccupazione per la precaria salute di Aleksej spinse la zarina verso un sempre più forte misticismo e la indusse ad affidarsi a santoni e presunti guaritori, il più importante dei quali divenne lo starec (mistico cristiano ortodosso) siberiano Grigorij Rasputin.

Rasputin riuscì più volte a salvare l’erede da gravi crisi, al punto da guadagnare la più completa fiducia della zarina, che col tempo arrivò a richiedere il suo parere anche in ambito politico e strategico, fino a diventare quasi del tutto dipendente dalla sua opinione. Nicola II e Aleksandra Fëdorovna ebbero cinque figli: le granduchesse Ol’ga, Tat’jana, Marija e Anastasija, e il granduca Aleksej. Il misticismo della zarina e la salute di Aleksej allontanarono sempre di più la famiglia imperiale dalla corte e dagli affari di Stato, alimentando le tensioni politiche e l’insofferenza di una popolazione già allo stremo.

La famiglia imperiale: in piedi, da sinistra, le granduchesse Tat’jana e Ol’ga; seduti, da sinistra, la granduchessa Marija, la zarina Aleksandra Fëdorovna, lo zarevic Aleksej, lo zar Nicola II, la granduchessa Anastasija

Nel 1914, la miccia decisiva: la Prima Guerra Mondiale. L’Impero russo entrò in guerra insieme alle altre potenze della Triplice Intesa contro gli Imperi centrali e, grazie alla numerosissima popolazione, fu in grado di schierare un esercito di gran lunga superiore alla totalità dei contingenti nemici riuniti. Ben presto, però, le carenze organizzative e la mancanza di rifornimenti e armamenti adeguati fecero emergere tutta l’arretratezza del sistema politico, economico e industriale russo: gli iniziali e irrilevanti successi lasciarono man mano spazio a pesanti sconfitte, finché l’esercito non fu costretto a ritirarsi per difendere i confini della stessa Russia.

Fanteria russa durante la Prima Guerra Mondiale

I disastri militari spinsero lo zar a prendere il comando diretto dell’esercito e a trasferirsi presso lo Stato Maggiore. La gestione del potere nella Capitale (rinominata Pietrogrado nel 1914 per volere dello zar) venne quindi lasciata alla zarina, già sospettata di essere filogermanica per le sue origini tedesche e in quel momento del tutto succube di Rasputin: il prestigio e la credibilità della famiglia imperiale subirono un colpo fatale. Al malumore delle truppe al fronte si aggiunse la sempre maggiore agitazione popolare, esacerbata dall’inflazione e dalla mancanza di generi alimentari e combustibili: scioperi e manifestazioni ripresero in molte città. Il 30 dicembre 1916, Rasputin venne assassinato in una congiura ordita da un gruppo di aristocratici nell’illusione di risollevare la reputazione dei Romanov, ma ormai era troppo tardi.

A sinistra, lo starec Grigorij Rasputin; a destra, una caricatura anonima di Rasputin con la coppia imperiale (1916).

L’8 marzo 1917 (23 febbraio secondo il calendario giuliano, allora vigente in Russia) a Pietrogrado il popolo insorse per la mancanza di viveri. Nel 1905, in una situazione simile, le truppe avevano sparato sui dimostranti, ma stavolta i soldati si unirono a loro: la Rivoluzione di febbraio rovesciò il regime zarista, costringendo Nicola II ad abdicare (15 marzo), e portò alla formazione di un governo provvisorio guidato da cadetti, menscevichi e socialisti rivoluzionari.

La Rivoluzione di febbraio consegnò tuttavia il potere a politici che intendevano continuare la guerra e che non avevano intenzione di cedere le proprietà personali: la situazione non appariva molto diversa alla maggioranza della popolazione. Sempre più persone iniziarono a seguire i bolscevichi, che si proponevano di trasferire tutto il potere ai soviet (i consigli dei delegati di operai, soldati e contadini) e di uscire immediatamente dal conflitto mondiale.

La notte tra il 6 e il 7 novembre 1917 (24 e 25 ottobre secondo il calendario giuliano) i bolscevichi occuparono i punti nevralgici della Capitale: la Rivoluzione di ottobre rovesciò il governo provvisorio e segnò la nascita della Repubblica Socialista Federativa Sovietica Russa. Il 3 marzo 1918 la Russia bolscevica firmò la pace di Brest-Litovsk con gli Imperi centrali, accettando di perdere Finlandia, Estonia, Lettonia, Lituania, Polonia, Bielorussia e Ucraina.

Soldati a Mosca durante la Rivoluzione di ottobre

Dopo l’abdicazione dello zar, la famiglia imperiale venne posta agli arresti domiciliari per poi essere trasferita a Ekaterinburg, nella regione degli Urali, e tenuta in isolamento a Casa Ipat’ev. Nel frattempo le forze contro-rivoluzionarie, sostenute dalle potenze straniere, si riorganizzarono e lanciarono l’attacco al potere bolscevico: fu l’inizio di una cruenta guerra civile che si sarebbe conclusa nel 1922 con la vittoria dell’Armata Rossa (bolscevichi) sull’Armata Bianca (contro-rivoluzionari) e che avrebbe portato alla nascita dell’Unione Sovietica.

L’avanzata dell’Armata Bianca nella regione degli Urali nelle prime fasi della guerra civile segnò un drammatico punto di svolta: i bolscevichi non volevano che i Romanov cadessero nelle mani dei contro-rivoluzionari, poiché qualsiasi membro della famiglia imperiale sarebbe potuto diventare un baluardo della resistenza ed essere considerato ancora il legittimo regnante di Russia da parte delle altre potenze europee. Fu quindi deciso di eliminare lo zar e la sua famiglia, che vennero fucilati il 17 luglio 1918 nello scantinato di Casa Ipat’ev. I corpi furono occultati nei boschi presso Ekaterinburg. La vita dell’ultimo zar di Russia è raccontata nel film Nicola e Alessandra di Franklin J. Schaffner (1971).

Una scena del film Nicola e Alessandra (1971)

Due giorni dopo l’eccidio, il giornale locale di Ekaterinburg annunciò che “lo zar era stato giustiziato mediante plotone d’esecuzione” e che “la sua famiglia era stata portata in un posto sicuro“. Il 20 luglio venne diramato alla popolazione il comunicato ufficiale dell’avvenuta esecuzione. I bolscevichi si limitarono quindi ad annunciare alla stampa la morte di Nicola II, mentendo sulla sorte degli altri membri della famiglia.

Il 25 luglio l’Armata Bianca conquistò Ekaterinburg e iniziò le indagini sull’esecuzione e le ricerche dei corpi della famiglia imperiale, non riuscendo però a individuare il luogo della sepoltura: il rapporto Sokolov (dal nome dell’investigatore incaricato) riunì fotografie e testimonianze raccolte durante l’inchiesta e, fino al 1989, sarebbe stato l’unico resoconto ufficiale sulla vicenda. Il rapporto scatenò sdegno in tutto il mondo e fu bandito dalle autorità bolsceviche, che furono tuttavia costrette ad ammettere l’esecuzione dei familiari dello zar. L’assoluto silenzio imposto dal regime sulla sorte dei Romanov fece nascere da subito fantasie su possibili sopravvissuti all’eccidio di Ekaterinburg: fin dal 1919 iniziarono a comparire frotte di impostori che sostenevano di essere legittimi figli dello zar.

Il luogo di sepoltura dei Romanov venne scoperto nel 1979 dal ricercatore amatoriale Aleksandr Avdonin e dal regista Gelij Rjabov, dopo anni di studi e ricerche sul campo. I due recuperarono tre teschi, ma nessun laboratorio accettò di esaminarli e, preoccupati dalle conseguenze della scoperta, decisero di riseppellirli. La nuova attitudine all’apertura e alla trasparenza (glasnost’) predicata dal presidente Michail Gorbačëv spinse Rjabov a rivelare la sua scoperta al giornale The Moscow News il 10 aprile 1989. Nel 1991 i corpi di cinque membri della famiglia imperiale (lo zar, la zarina e tre delle loro figlie) furono riesumati e sottoposti a indagini forensi e identificazione del DNA, che ne confermarono le identità. La mancanza di due corpi, presumibilmente Aleksej e una tra Marija e Anastasija, diede nuova linfa alla leggenda che qualcuno dei Romanov si fosse misteriosamente salvato.

Il 29 luglio 2007, un gruppo di ricercatori amatoriali trovò una piccola tomba non lontana dal sito dove erano stati scoperti gli altri corpi, contenente i resti di due ragazzi. Il 30 aprile 2008, in seguito alla pubblicazione dei test del DNA, vennero definitivamente identificati i corpi della granduchessa Marija e dello zarevic Aleksej. Lo stesso giorno le autorità russe comunicarono ufficialmente che l’intera famiglia imperiale era stata identificata.

Perché la versione cinematografica di “Nuovo Cinema Paradiso” è il capolavoro che il “Director’s Cut” non può essere

Nella storia del cinema, molti film sono stati realizzati in più di una versione: stabilire quale sia la migliore è da sempre oggetto di discussione tra gli appassionati.

Le versioni Director’s Cut (“versioni rimontate dai registi”) consistono di solito in edizioni estese del film, contenenti scene inedite tagliate nella fase di montaggio della pellicola poi distribuita nelle sale (“versione cinematografica”). Spesso si tratta di versioni più complete, che consentono di comprendere meglio alcune scelte del regista senza sminuirne l’effetto. A volte, però, tali versioni rischiano di intaccare il reale valore del film, come quando le scene inedite vengono ridoppiate (per il tempo trascorso tra le due versioni) o quando le aggiunte rendono la pellicola inutilmente prolissa.

È il caso di Nuovo Cinema Paradiso, film del 1988 scritto e diretto da Giuseppe Tornatore e interpretato da Philippe Noiret, Salvatore Cascio, Marco Leonardi, Jacques Perrin, Agnese Nano, Enzo Cannavale, Isa Danieli, Leo Gullotta, Pupella Maggio e Leopoldo Trieste. Nuovo Cinema Paradiso è uno dei capolavori del regista originario di Bagheria: una toccante ode al Cinema e all’amata Sicilia che vanta una delle più belle colonne sonore di Ennio Morricone (il cui Tema d’amore è stato composto dal figlio Andrea).

Giuseppe Tornatore ed Ennio Morricone

Gli esterni del film sono stati girati tutti in Sicilia: Palazzo Adriano (il set principale), Bagheria, Cefalù, Castelbuono, Lascari (la stazione), Chiusa Sclafani, Santa Flavia, San Nicola l’Arena, Termini Imerese e Oriolo Romano. L’edificio del Cinema Paradiso non esiste: è stato costruito per il film, collocato a Palazzo Adriano e smontato al termine delle riprese. L’interno del cinema è la Chiesa di Maria Santissima del Carmelo a Palazzo Adriano.

Palazzo Adriano (PA)

Salvatore Di Vita è un affermato regista cinematografico: siciliano di nascita, vive da trent’anni a Roma. Una sera, rientrando a casa apprende della morte di un certo Alfredo: profondamente rattristato dalla notizia, inizia a rivivere i ricordi della propria infanzia. A Giancaldo, immaginario paesino nella Sicilia del secondo dopoguerra, Alfredo è il proiezionista dell’unica sala cinematografica, il Cinema Paradiso, il solo vero svago per la povera gente del paese. Il piccolo Salvatore, chiamato affettuosamente Totò, attende invano con la madre e la sorellina il ritorno del padre, disperso in Russia. Totò è profondamente incuriosito dalla figura di Alfredo e dal suo lavoro, che accendono in lui una straordinaria passione per il cinema. Nonostante un’iniziale ritrosia, Alfredo insegna a Totò i trucchi del mestiere, diventando per lui il riferimento paterno: grazie ad Alfredo, Totò riesce a coronare il proprio sogno di diventare un proiezionista.

Totò (Salvatore Cascio) e Alfredo (Philippe Noiret)

Gli anni passano e Salvatore, ormai adolescente, si innamora di Elena, figlia del direttore della banca locale. Elena ricambia l’amore per Salvatore, ma i suoi genitori sono contrari alla relazione e, dopo poco, decidono di trasferirsi. Nel frattempo, Salvatore viene richiamato a Roma per il servizio militare. I due innamorati decidono di incontrarsi un’ultima volta per salutarsi prima della partenza, ma Elena non si presenta all’appuntamento. Salvatore la cerca dappertutto, anche durante il periodo di leva, ma ne perde completamente le tracce. Tornato a casa, Alfredo gli consiglia di abbandonare per sempre la sua terra per riuscire a realizzarsi.

Totò (Marco Leonardi) ed Elena (Agnese Nano)

Dopo trent’anni, Salvatore decide di tornare in Sicilia per il funerale di Alfredo, che diventa l’occasione per confrontarsi con il passato e riflettere sul presente: nonostante sia un ricco e famoso regista, la sua vita è triste e senza affetti, e rimpiange la felicità che gli dava il cinema quando era bambino. Rientrato a Roma, Salvatore si fa proiettare una bobina di pellicola lasciatagli da Alfredo, in uno dei finali più commoventi di sempre.

Salvatore (Jacques Perrin)

La potenza della versione cinematografica è nell’emozione del ricordo: l’intero film è un flashback del protagonista, che diventa l’omaggio di Tornatore alla propria terra, povera ma allo stesso tempo gioiosa, e insieme l’esaltazione del suo amore per il cinema, mostrato con gli occhi di un bambino.

La prima edizione, recuperata poi come Director’s Cut, includeva però qualcosa di totalmente avulso dalla magica atmosfera creata dal film: l’incontro di Salvatore ed Elena da adulti. Salvatore le rivela di non aver amato mai nessun’altra e di averla cercata in ogni donna che ha incontrato, ma Elena è ormai sposata con un suo vecchio compagno di scuola: i due vivono una notte di passione, destinata a rimanere unica.

Viene inoltre svelato il motivo per cui non si erano incontrati l’ultima volta: Elena era arrivata tardi all’appuntamento dopo aver litigato con i suoi e non aveva trovato Salvatore, che era andato a cercarla a casa. Al cinema aveva parlato con Alfredo, che le aveva consigliato di lasciar perdere la storia d’amore per il bene di Salvatore e del suo futuro.

Salvatore (Jacques Perrin) ed Elena (Brigitte Fossey)

Il film venne proiettato in anteprima al Festival Europa Cinema di Bari il 29 settembre 1988 nella sua prima edizione di 173 minuti, che fu accolta da pareri contrastanti: pur riscuotendo grandi apprezzamenti per la prima parte, la critica sottolineava l’eccessiva prolissità della seconda parte, in particolare proprio la ridondanza dell’incontro di Salvatore ed Elena adulti. Nel novembre dello stesso anno il film uscì in Italia in un’edizione di 157 minuti, ma la bassissima affluenza di pubblico convinse molte sale a cancellarlo dalla programmazione dopo poche settimane. In seguito, il film venne scartato alla selezione ufficiale del Festival di Berlino.

Dopo altre proiezioni fallimentari, il produttore Franco Cristaldi convinse Tornatore ad accorciare il film di oltre 30 minuti ed eliminare l’incontro finale tra Salvatore ed Elena (tagliando quindi l’intera parte dell’attrice Brigitte Fossey, che interpreta Elena adulta). La nuova versione di 123 minuti, conosciuta come edizione cinematografica, edizione internazionale o Theatrical Cut, si aggiudicò il Grand Prix Speciale della Giuria al Festival di Cannes e fu ridistribuita nelle sale italiane in più occasioni fino al settembre 1989, riscuotendo stavolta uno straordinario successo di pubblico e critica: il film venne candidato ai premi Oscar 1990 e vinse la statuetta come miglior film in lingua straniera, consacrandosi da quel momento in tutto il mondo come una delle pellicole italiane più significative degli Anni ’80.

Ma come può un film passare dall’anonimato alla conquista del premio più prestigioso per 30 minuti?
Perché quei 30 minuti fanno la differenza tra un ottimo film e un capolavoro.
Non è stata solo la prolissità a determinare l’iniziale insuccesso della versione estesa: quei 30 minuti alterano il significato più intimo del film.

Elena e Totò

Nella versione cinematografica, la storia d’amore tra Salvatore ed Elena viene affidata totalmente alla rievocazione del passato nella mente del protagonista, e l’emozione che ne scaturisce è irraggiungibile: il rimpianto di non aver vissuto qualcosa di così importante che ancora manca nella propria vita è sopportabile solo perché legato a quel contesto sociale, segnato dall’impossibilità di comunicare a distanza per l’isolamento, l’arretratezza e l’assenza di tecnologia. Rivedersi dopo tanti anni per scoprire di essersi persi per caso, ingabbiati in un’irreversibile infelicità, non è sopportabile e soprattutto non rispecchia il sublime obiettivo del film: descrivere lo spaccato di un’epoca con profonda umanità e commovente genuinità.

Inoltre, far ricadere su Alfredo la fine della storia d’amore tra Salvatore ed Elena conferisce gratuitamente un’aura negativa ad un personaggio altrimenti fino in fondo positivo: perfino quando consiglia a Totò di andar via senza mai fare ritorno avvertiamo in lui solo l’affetto che prova per il ragazzo, che per lui è sempre stato come un figlio. Alfredo può essere indirettamente responsabile dell’infelicità di Totò, che nel concentrarsi sulla propria carriera non è riuscito a ritrovare l’amore, ma non possiamo perdonargli di esserlo direttamente: non al punto da distruggere i suoi sentimenti.

Alfredo e Totò

Ormai in televisione e nel circuito home video viene riproposta quasi solo l’edizione Director’s Cut, come fosse diventata la versione ufficiale del film, ma la versione cinematografica è ancora disponibile e in una collezione non può mancare.

Il Nuovo Cinema Paradiso