L’ultima Marilyn

Nella storia del cinema esiste un prima e dopo Marilyn Monroe: l’attrice è stata una delle icone del XX secolo che più hanno influenzato l’immaginario collettivo rivoluzionando i canoni di moda e bellezza. Approfondendo la sua vita, non siamo sopraffatti solo dal suo fascino senza tempo e dalla sua sensualità, ma percepiamo la sua intima fragilità: quel barlume di umanità con il quale, a 60 anni dalla sua tragica scomparsa, è ancora in grado di instillare in noi ammiratori un profondo e irrazionale senso di colpa e rabbia per non essere riusciti a salvarla.

Marilyn Monroe fotografata da Alfred Eisenstaedt nel 1953

Se le circostanze della sua morte non sono mai state del tutto chiarite, il clamore e l’aura di mistero che hanno circondato l’evento hanno contribuito a diffondere speculazioni di ogni genere sulla sua tormentata esistenza: una polveriera di denaro, sesso e politica che ha coinvolto la famiglia Kennedy e che in tanti hanno cercato di insabbiare.

Non esiste ammiratore di Marilyn Monroe che non abbia sentito almeno una volta la necessità di ricostruire i suoi ultimi mesi di vita, non riuscendo ad accettare il suo destino né le controverse versioni delle autorità sulla sua fine senza darsi una personale e plausibile spiegazione: forse un ultimo tentativo di capire chi fosse e cosa provasse Marilyn in quel periodo per restituirne il ritratto più autentico possibile, come se ci sentissimo in debito con lei almeno della verità.

Testimonianze imprescindibili, così profondamente connesse alla sua sfera privata, le riprese degli ultimi due film in cui Marilyn ha recitato: Gli spostati (1961) e Something’s Got to Give (1962), rimasto incompiuto.

Marilyn Monroe fotografata da Baron nel 1954

Da Norma Jeane a Marilyn Monroe

Marilyn Monroe nacque come Norma Jeane Mortenson l’1 giugno 1926. Il cinema era già nel suo destino: sua madre, Gladys Pearl Monroe, lavorava come impiegata alla Consolidated Film Industries e aveva voluto darle i nomi delle attrici Norma Shearer e Jean Harlow.

Alla nascita di Norma Jeane, Gladys aveva già avuto due figli dal matrimonio con John Newton Baker, dal quale aveva poi divorziato, e si era separata dal secondo marito Martin Edward Mortenson, da cui Norma Jeane aveva preso il cognome. Norma Jeane non conobbe mai il proprio padre. Solo pochi mesi fa un test del DNA ne ha confermato l’identità in Charles Stanley Gifford, collega della madre che l’aveva lasciata non appena informato della gravidanza.

Gladys era mentalmente instabile e non in grado di prendersi cura finanziariamente di Norma Jeane: ricoverata in preda a esaurimento nervoso, le venne diagnosticata una schizofrenia paranoide e fu dichiarata incapace di intendere e di volere. Per tutta la vita, non seppe mai che la sua Norma Jeane era diventata Marilyn Monroe.

Gladys e Norma Jeane

Fin dall’infanzia, Norma Jeane fu mandata in orfanotrofio e data in affido a diverse famiglie, dove spesso subì abusi e molestie. Grace McKee, archivista di pellicole alla Columbia Pictures e migliore amica di sua madre, divenne la sua tutrice, avvicinandola al mondo del cinema e di Hollywood. Compiuti 16 anni, il 19 giugno 1942 Norma Jeane sposò James Dougherty, il figlio di un vicino: un matrimonio organizzato dalla sua tutrice per non farla tornare in orfanotrofio.

Nel 1944, in piena Seconda Guerra Mondiale, Dougherty si arruolò nella marina mercantile e Norma Jeane iniziò a lavorare da operaia alla Radioplane Company, inizialmente come impacchettatrice di paracadute e poi come addetta alla verniciatura delle fusoliere degli aerei. Nel 1945, il fotografo David Conover si recò presso lo stabilimento in cerca di ragazze che tenessero su il morale delle truppe al fronte per un servizio sulla rivista Yank e le scattò alcune foto, che riscossero un immediato successo, esortandola a intraprendere la carriera di modella.

Norma Jeane fotografata da David Conover nel 1945

Norma Jeane lasciò quindi la fabbrica e divenne una pin-up, comparendo in servizi fotografici su varie riviste. Le sue foto furono notate da Emmeline Snively, direttrice della Blu Book School of Charm and Modeling, una delle più importanti agenzie pubblicitarie di Hollywood. Snively cambiò per sempre il suo look: da allora, la rossa e riccia Norma Jeane avrebbe avuto capelli biondi e lisci.

Grazie ai servizi fotografici, nell’agosto 1946 Norma Jeane firmò con la 20th Century Fox il suo primo contratto cinematografico, della durata di sei mesi e con un compenso di 125 dollari a settimana. Nel settembre 1946 divorziò da Dougherty, contrario alla sua carriera. Ben Lyon, l’attore e dirigente della Fox che aveva organizzato il suo provino, le consigliò di cambiare nome: furono scelti il cognome da nubile di sua madre, Monroe, e il nome della stella di Broadway Marilyn Miller. Da quel momento Norma Jeane Mortenson divenne per tutti Marilyn Monroe.

Marilyn Monroe fotografata da Frank Powolny nel 1952

Come nasce una stella

Marilyn dedicò da subito il massimo impegno alle lezioni di recitazione, canto e danza, ma per più di tre anni rimbalzò tra la 20th Century Fox e la Columbia Pictures (dove i suoi capelli furono definitivamente tinti in biondo platino), accettando ruoli insignificanti e miseri contratti. La svolta arrivò solo nel 1950, quando riuscì a catturare l’attenzione di pubblico e critica con la sua interpretazione in Giungla d’asfalto (The Asphalt Jungle) di John Huston che lanciò, di fatto, la sua carriera cinematografica.

Marilyn in Giungla d’asfalto

Il 1953 proiettò Marilyn tra le star di Hollywood: le interpretazioni in Niagara, Gli uomini preferiscono le bionde (Gentlemen Prefer Blondes) e Come sposare un milionario (How to Marry a Millionaire) riscossero uno straordinario successo e consacrarono l’attrice come assoluto sex symbol. A dicembre comparve sulla copertina e nel paginone centrale del primo numero della rivista Playboy.

Marilyn sul set di Niagara

L’anno successivo, Marilyn raggiunse l’apice della popolarità. Il 14 gennaio 1954 sposò il campione di baseball Joe DiMaggio, ma il chiacchieratissimo matrimonio ebbe vita breve: la scena della gonna di Marilyn sollevata dallo spostamento d’aria della metropolitana in Quando la moglie è in vacanza (The Seven Year Itch) di Billy Wilder, che sarebbe divenuto uno dei maggiori successi della diva, inflisse il colpo di grazia a un’unione già scricchiolante per la feroce gelosia dello sportivo italoamericano. Marilyn e DiMaggio divorziarono il 27 ottobre dello stesso anno.

Un fotogramma della celebre scena di Quando la moglie è in vacanza

Il 29 giugno 1956 Marilyn sposò il drammaturgo Arthur Miller, celebre autore di opere come Il crogiuolo, Erano tutti miei figli e Morte di un commesso viaggiatore. I media non furono teneri con la coppia, sottolineando in ogni modo l’antitesi tra la sex symbol e il letterato. La rivista Variety titolò Egghead Weds Hourglass: nello slang statunitense, letteralmente, Testa d’uovo (intellettuale) sposa clessidra (donna tutte curve).

Marilyn e Arthur Miller

Marilyn aveva appena compiuto 30 anni e già affermava di odiare Hollywood e di desiderare una famiglia e una vita normale, lontana dai riflettori. La sua carriera iniziava a mostrare i segni di un precoce declino. Voleva un figlio, ma in diverse occasioni non riuscì a portare a termine la gravidanza, in parte a causa dell’endometriosi di cui soffriva. Rientrata dall’Inghilterra dopo aver girato Il principe e la ballerina (The Prince and the Showgirl, 1957), che fu un totale insuccesso, ebbe una gravidanza ectopica; l’anno successivo, poco dopo aver concluso le riprese di A qualcuno piace caldo (Some Like It Hot, 1958) ebbe un aborto spontaneo. Nella sua vita, Marilyn ebbe in totale almeno 12 aborti.

Marilyn e Laurence Olivier ne Il principe e la ballerina

A qualcuno piace caldo, diretto da Billy Wilder e co-interpretato da Jack Lemmon e Tony Curtis, ebbe un successo straordinario e fu acclamato da pubblico e critica: sembrava la scintilla ideale per rilanciare la carriera di Marilyn, che vinse il Golden Globe come miglior attrice in un film commedia o musicale. La produzione del film, però, fu estremamente travagliata: Marilyn dimenticava spesso il copione, non seguiva le direttive del regista e chiedeva di rigirare le scene dozzine di volte, al punto che Tony Curtis dichiarò che baciarla era come baciare Hitler. Il regista Billy Wilder, nonostante i leggendari litigi sul set, in seguito descrisse il film come il suo più grande successo e dichiarò che lavorare con Marilyn era così difficile perché era del tutto imprevedibile, definendola un genio assoluto come attrice comica.

Marilyn in A qualcuno piace caldo

Marilyn si prese una pausa fino alla fine del 1959, quando accettò di recitare in Facciamo l’amore (Let’s Make Love) di George Cukor per rispettare il contratto con la 20th Century Fox. Durante le riprese ebbe una breve relazione col co-protagonista Yves Montand, marito dell’attrice Simone Signoret. Marilyn smentì pubblicamente il flirt, ma la stampa lo reclamizzò al punto da renderlo parte della campagna pubblicitaria del film, che si rivelò comunque un flop.

In quel periodo Marilyn iniziò a vedere uno psichiatra, il dottor Ralph Greenson: soffriva di insonnia e ingeriva eccessive dosi di farmaci, dai quali stava sviluppando una forte dipendenza. Secondo Greenson, il suo stato era dovuto al deteriorarsi del rapporto con il marito, verso il quale era sempre più insofferente.

Marilyn e Yves Montand in Facciamo l’amore

Gli spostati

Gli spostati (The Misfits, 1961) di John Huston, sceneggiato da Arthur Miller e co-interpretato da Clark Gable, Eli Wallach e Montgomery Clift, è un’analisi del malessere nella società statunitense attraverso la storia di una piccola comunità di sbandati che si illudono di essere dei ribelli senza padrone.

A Reno (Nevada) per divorziare dal marito assente, la bella e vulnerabile Roslyn (Marilyn) stringe amicizia con Gay (Gable), cowboy di mezza età, Guido (Wallach), meccanico e aviatore, e Perce (Clift), cowboy da rodeo. I tre, turbando la sensibilità di Roslyn, vanno a caccia di cavalli selvaggi da vendere a peso per farne cibo per cani. Roslyn si innamora, ricambiata, di Gay, che libera in suo omaggio lo splendido stallone catturato e domato a prezzo di una lotta furiosa.

Marilyn tra Montgomery Clift e Clark Gable sul set de Gli spostati

Arthur Miller aveva scritto la sceneggiatura del film come regalo di San Valentino per Marilyn, con un ruolo creato appositamente per lei, ma pochi mesi dopo il loro matrimonio era già naufragato: Marilyn odiava il fatto che il marito avesse basato sulla sua vita il personaggio di Roslyn, considerandolo inoltre inferiore alle parti maschili, e non sopportava la sua abitudine di riscrivere le scene la notte prima di girarle. In questa sorta di ritratto indiretto, tuttavia, Marilyn diede finalmente prova del proprio talento drammatico.

Marilyn con Clift, Gable, Wallach, Huston e Miller sul set de Gli spostati

Il rapporto con Miller si era comunque già da tempo incrinato per l’incompatibilità di carattere tra i due, che sarebbe poi diventata la motivazione ufficiale del loro divorzio. Marilyn, sul set come nella vita privata, era in quel periodo particolarmente instabile per l’abuso di alcool e farmaci, tra i problemi di salute cronici e le continue interruzioni di gravidanza.

Lo scrittore Truman Capote avrebbe voluto lei per interpretare Holly Golightly nell’adattamento cinematografico del suo Colazione da Tiffany (Breakfast at Tiffany’s), le cui riprese sarebbero iniziate nell’ottobre 1960, ma i produttori temevano che Marilyn avrebbe creato complicazioni e il ruolo andò ad Audrey Hepburn.

Le riprese de Gli spostati ebbero il via nel luglio 1960, nel torrido deserto del Nevada. Marilyn soffriva di calcoli biliari e assumeva farmaci sia per riposare che per svegliarsi, al punto che di solito veniva truccata mentre dormiva sotto l’effetto dei barbiturici. La sua dipendenza era talmente grave che nell’agosto 1960 il regista John Huston interruppe le riprese per due settimane per permetterle di disintossicarsi in ospedale.

Marilyn e il regista John Huston

Nel 1950 Huston aveva lanciato Marilyn nel suo primo ruolo di rilievo in Giungla d’asfalto e ne aveva visto poi crescere il mito: per un amaro scherzo del destino, diresse anche il suo ultimo film. Anni dopo, dichiarò di essere assolutamente certo che Marilyn fosse condannata: C’erano prove davanti a me quasi ogni giorno. Non poteva salvarsi o essere salvata da qualcun altro. I suoi dannati dottori l’avevano resa dipendente dai sonniferi.

Marilyn aveva problemi a ricordare le battute e non arrivava mai sul set prima delle 11:30, oltre due ore di ritardo rispetto a quanto stabilito; regista e attori, spazientiti, decisero di posticipare a quell’orario l’inizio delle riprese. Il più insofferente era Clark Gable, che per contratto lavorava solo dalle 9:00 alle 17:00 per poi tornare a casa dalla moglie incinta.

Marilyn e Gable ne Gli spostati

Benché da tempo malato di cuore e accanito fumatore, Gable rifiutò la controfigura in quasi tutte le scene più pericolose, in quella che sarebbe stata considerata una delle sue migliori interpretazioni. Le riprese terminarono il 4 novembre 1960; Gable ebbe un infarto due giorni dopo e morì il 16 novembre a soli 59 anni. La vedova dichiarò aspramente che lo stato di eterna attesa di Marilyn aveva contribuito alla prematura morte del marito.

Gli spostati fu quindi sia l’ultimo film completo di Marilyn che l’ultimo film di Gable, idolo d’infanzia della diva: in una delle sue ultime interviste, Marilyn confessò di aver fantasticato spesso che Gable fosse il padre che non aveva mai conosciuto.

Marilyn e Gable ne Gli spostati

L’11 novembre Marilyn e Arthur Miller si separarono ufficialmente, per poi divorziare il 24 gennaio 1961 a Ciudad Juárez, in Messico, dopo cinque anni di matrimonio. Gli spostati venne distribuito l’1 febbraio 1961 e fu un disastro al botteghino, ma la critica elogiò la sceneggiatura e le interpretazioni del quartetto di attori principali; la pellicola è stata recentemente rivalutata, tanto da essere considerata un cult degli Anni ’60.

Marilyn era ormai al limite: il 7 febbraio 1961, sempre più spesso preda di turbe psichiche, si recò volontariamente al Payne Whitney Psychiatric Clinic, l’ospedale psichiatrico di New York, sotto il falso nome di Faye Miller. Ben presto la casa di cura divenne per lei una prigione: chiese aiuto all’ex marito Joe DiMaggio, con cui aveva ristabilito un rapporto di amicizia, che riuscì a farla uscire e trasferire al Columbian Presbyterian, da cui venne dimessa poco dopo.

Marilyn e Joe DiMaggio all’epoca del loro matrimonio

A maggio subì un intervento chirurgico per l’endometriosi, a giugno una colecistectomia: dimessa l’11 luglio, fu colpita da un microfono durante l’assalto dei giornalisti. Non girò alcun film per tutto il 1961. Nel frattempo aveva iniziato una relazione con l’amico di lunga data Frank Sinatra, che durò diversi mesi: Sinatra aveva promesso di sposarla, ma nel gennaio 1962 la lasciò definitivamente annunciando il proprio matrimonio con l’attrice e ballerina Juliet Prowse, che poi non avvenne.

Marilyn e Frank Sinatra

Something’s Got to Give, i Kennedy e la morte

Something’s Got to Give (1962), diretto da George Cukor per la 20th Century Fox, doveva essere il remake della screwball comedy Le mie due mogli (My Favorite Wife, 1940) di Garson Kanin, con Cary Grant e Irene Dunne: oltre a Marilyn, il cast comprendeva Dean Martin e Cyd Charisse.

La fotografa Ellen Arden (Marilyn), moglie di Nick (Martin) e madre di due bambini, è dispersa in mare da cinque anni. Nick la fa dichiarare legalmente morta e si risposa con Bianca Russell (Charisse), ma proprio allora Ellen viene ritrovata su un’isola deserta e torna a casa. I figli non la riconoscono, ma la prendono in simpatia e la invitano a restare. Venuta a conoscenza del matrimonio di Nick e decisa a riconquistare la propria famiglia, Ellen decide di rivelarsi facendosi passare per la nuova tata svedese Ingrid Tic, catapultando Nick in un delicatissimo triangolo amoroso.

Marilyn sul set di Something’s Got to Give

Assente dallo schermo da oltre un anno, da tempo in precarie condizioni di salute e reduce dall’intervento alla cistifellea, Marilyn aveva perso più di 11 kg, raggiungendo il peso più basso della sua vita adulta. L’inizio delle riprese di Something’s Got to Give, previsto per gennaio 1962, era stato quindi posticipato a fine aprile per permetterle un pieno recupero.

Il 9 aprile 1962 Marilyn informò il produttore di Something’s Got to Give, Henry T. Weinstein, che la Casa Bianca le aveva chiesto di esibirsi in occasione del compleanno del Presidente John Fitzgerald Kennedy, a maggio: Weinstein l’aveva autorizzata, credendo che non ci sarebbero stati problemi sul set. Marilyn e JFK erano amanti probabilmente fin dal 1957, quando lui era ancora senatore del Massachusetts. Intermediari per i loro incontri erano stati Frank Sinatra e l’attore Peter Lawford, cognato del Presidente: Lawford aveva messo più volte la propria casa a loro disposizione.

Peter Lawford e JFK

Il 23 aprile, primo giorno di riprese, Marilyn telefonò a Weinstein per avvisarlo che non sarebbe stata presente a causa di una sinusite, contratta probabilmente dopo essersi recata all’Actors Studio di New York dall’insegnante di recitazione Lee Strasberg, per rivedere insieme la parte. La diagnosi del medico inviato dallo studio avrebbe posticipato le riprese del film di un altro mese, ma il regista George Cukor si rifiutò di aspettare e riorganizzò il programma in modo da iniziare a girare le scene in cui non compariva Marilyn.

Marilyn e il regista George Cukor sul set di Something’s Got to Give

Nel mese successivo le riprese proseguirono per lo più senza Marilyn, quasi sempre assente a causa di febbre, mal di testa, sinusite cronica e bronchite, e si accumularono altri 10 giorni di ritardo. La produzione era già fuori budget e la sceneggiatura, ancora in divenire, veniva riscritta ogni notte, costringendo una sempre più frustrata Marilyn a dover memorizzare nuove scene ogni giorno. Con l’avvicinarsi del compleanno del Presidente Kennedy (29 maggio), nessuno pensava che Marilyn avrebbe mantenuto il suo impegno con la Casa Bianca.

Il 19 maggio, invece, Marilyn partecipò ai festeggiamenti anticipati per il 45° compleanno del Presidente al Madison Square Garden di New York indossando l’iconico abito attillato in tessuto trasparente color carne con 2.500 strass cuciti all’esterno, che la faceva apparire nuda. Davanti a circa 15.000 persone, rivolgendosi al Presidente con voce intima e sensuale, cantò la celebre Happy Birthday, Mr. President, sostituendo Mr. President al nome di Kennedy nel tradizionale testo di Happy Birthday to You.

Happy Birthday, Mr. President

Il Presidente la ringraziò affermando che dopo aver ascoltato degli auguri di compleanno tanto dolci, poteva anche ritirarsi dalla politica, ma già da tempo aveva preso le distanze dall’attrice: il regalo di compleanno di Marilyn, un Rolex d’oro con incisa la frase Jack, with love as always from Marilyn, May 29th 1962 (Jack, con amore come sempre da Marilyn, 29 maggio 1962), venne donato a un dipendente. La performance di Marilyn fu una delle sue ultime apparizioni pubbliche di rilievo prima della sua morte, avvenuta meno di tre mesi dopo.

Marilyn tra Robert Kennedy e John Fitzgerald Kennedy

Il viaggio a New York aveva ulteriormente inasprito i rapporti con i dirigenti della 20th Century Fox, ma al suo ritorno Marilyn decise di dare a Something’s Got to Give una sensazionale spinta pubblicitaria facendo qualcosa che nessuna grande attrice di Hollywood aveva mai fatto prima.

In una scena del film, Ellen (Marilyn) nuota in piscina di notte, vede Nick (Martin) alla finestra e lo invita a unirsi a lei; Nick le chiede di uscire dalla piscina, quando si rende conto che Ellen è nuda. Marilyn avrebbe dovuto indossare un body, ma lo tolse subito per nuotare solo con lo slip di un bikini color carne. Se Something’s Got to Give fosse stato completato e distribuito come previsto, Marilyn sarebbe stata la prima stella del cinema a comparire in topless in un film di Hollywood nell’era del sonoro; un primato che spetterà invece all’attrice Jayne Mansfield nel misconosciuto Promises! Promises! dell’anno successivo (1963).

Marilyn in Something’s Got to Give

Quel 23 maggio sul set dovevano essere presenti solo i membri della troupe necessari a girare la scena, ma Marilyn aveva fatto entrare diversi fotografi, che l’avevano immortalata con e senza costume da bagno. Volendo spingere Liz Taylor fuori dalle copertine, nei mesi successivi permise a diverse riviste di pubblicare foto di lei parzialmente nuda. La copertina della rivista Life del 22 giugno mostrava Marilyn avvolta in un accappatoio di spugna blu con il titolo: A skinny dip you’ll never see on the screen (Un bagno nudo che non vedrete mai al cinema).

Marilyn sulla copertina di Life

L’1 giugno 1962, giorno del suo 36° compleanno, Marilyn girò una scena in giardino con Dean Martin e Wally Cox: sarà il suo ultimo giorno su un set cinematografico. Il 4 giugno Marilyn telefonò al produttore Weinstein per notificargli la propria assenza quel giorno, lamentando febbre e il riacutizzarsi della sinusite: fino a quel momento, era stata presente solo 12 giorni su 35.

Marilyn festeggia il proprio compleanno sul set col regista George Cukor

L’8 giugno la 20th Century Fox decise di licenziarla, fortemente appoggiata del regista Cukor, intentando contro di lei una causa da oltre mezzo milione di dollari. La decisione di licenziare Marilyn fu senza dubbio influenzata dalla massiccia debacle finanziaria in cui versava in quel periodo la 20th Century Fox per le riprese di Cleopatra (1963) di Joseph L. Mankiewicz, ancora oggi il film più costoso della storia del cinema: a fronte dei 2 milioni di dollari stimati inizialmente per la sua realizzazione, la pellicola ne avrebbe richiesti 44 (corrispondenti a 372 milioni di dollari attuali), rischiando di far fallire la casa di produzione.

Locandina di Cleopatra

I dirigenti della 20th Century Fox avevano pianificato l’uscita di Something’s Got to Give durante le vacanze di Natale di quell’anno proprio per compensare i costi di Cleopatra: alla disperata ricerca di un capro espiatorio per salvare la faccia, iniziarono una campagna denigratoria a mezzo stampa scandalistica contro Marilyn, additando la sua sregolatezza come causa di un millantato sforamento del budget di oltre 1 milione di dollari, accusandola di aver finto di essere malata e diffondendo addirittura la voce che fosse mentalmente disturbata.

Il ruolo di Marilyn fu offerto a Kim Novak e Shirley MacLaine, ma entrambe rifiutarono; trapelò il nome di Lee Remick, che aveva provato gli abiti di scena ed era stata fotografata con il regista, ma la notizia si rivelò una montatura della stampa. Dean Martin si rifiutò di continuare senza Marilyn e minacciò di abbandonare il film.

Marilyn e Martin in Something’s Got to Give

Per riscattare la propria immagine pubblica, Marilyn si lanciò in una serie di iniziative pubblicitarie, tra cui varie interviste per le riviste Life e Cosmopolitan e due servizi fotografici con Bert Stern per Vogue: uno doveva essere un classico editoriale di moda, nell’altro Marilyn posò nuda. Nei tre giorni di lavoro all’Hotel Bel-Air di Hollywood, Stern le scattò in totale 2.571 foto, che pubblicò solo nel 1982 raccogliendole nel libro The Last Sitting.

Marilyn fotografata da Bert Stern

Le riprese di Something’s Got to Give avevano ormai raggiunto una rovinosa fase di stallo. La 20th Century Fox pensò addirittura di utilizzare il materiale già girato con Marilyn aggiungendo solo una controfigura per le scene mancanti, ma presto si pentì di averla licenziata, riaprì le negoziazioni verso fine giugno e dovette sottostare alle sue condizioni: Marilyn avrebbe ricevuto 500.000 dollari per Something’s Got to Give, le cui riprese sarebbero state posticipate a ottobre, e altrettanti per un altro film, più bonus se completati in tempo; George Cukor sarebbe stato sostituito alla regia da Jean Negulesco, che aveva diretto Marilyn in Come sposare un milionario.

Il 13 luglio 1962, Marilyn posò sulla spiaggia di Santa Monica per il fotografo e amico George Barris, con cui aveva lavorato 8 anni prima in Quando la moglie è in vacanza. Le foto, che per anni Barris rifiutò di pubblicare, vedono Marilyn in bikini arancione, avvolta in un telo da mare verde e con indosso un pullover di lana a maglia larga: saranno gli ultimi scatti della diva.

Marilyn fotografata da George Barris

Col passare del tempo, faceva sempre più freddo. Marilyn voleva smettere.
Questa è l’ultima. -le dissi-
Ok, George. -rispose lei- Questa è solo per te.
Si sporse in avanti e mandò un bacio alla telecamera. Era l’ultima foto che le avrei mai scattato.

(George Barris sull’ultima foto di Marilyn)
L’ultima foto di Marilyn

In quel periodo Marilyn viveva nella sua residenza di Brentwood, a Los Angeles, che aveva acquistato a gennaio di quell’anno. Dopo la fine della relazione col Presidente Kennedy era divenuta amante di suo fratello Robert, allora Procuratore generale, e aveva confidato ad amici e perfino giornalisti che presto avrebbe sposato un uomo molto importante, dichiarando inoltre di essere incinta. Non si conosceva l’identità del padre del nascituro, ma si presumeva potesse essere proprio Robert Kennedy.

Nel frattempo, l’attore e cognato di Kennedy Peter Lawford aveva assunto l’investigatore privato Fred Otash per spiarla, registrandone le conversazioni: secondo Otash, Marilyn era davvero incinta e aveva poi abortito in Messico, forse costretta, con l’aiuto di un medico statunitense che l’aveva seguita oltre confine. L’1 agosto Marilyn firmò il nuovo contratto con la 20th Century Fox.

Peter Lawford e Robert Kennedy

La notte del 5 agosto 1962 la domestica Eunice Murray si svegliò verso le 3:00 e vide la luce accesa sotto la porta della camera da letto di Marilyn: provò a chiamarla, ma nessuno rispose; la porta era chiusa a chiave dall’interno. Alle 3:30 la domestica telefonò allo psichiatra di Marilyn, il dottor Greenson, che arrivò poco dopo e riuscì a entrare nella camera da una finestra: Marilyn giaceva morta nel suo letto, nuda e con in mano la cornetta del telefono. Aveva 36 anni. Alle 3:50 circa il suo medico personale, Hyman Engelberg, ne dichiarò la morte. La polizia di Los Angeles fu avvisata alle 4:25.

Il dottor Thomas Noguchi, medico legale della contea di Los Angeles, eseguì l’autopsia sul cadavere: Marilyn era morta tra le 20:30 e le 22:30 del 4 agosto per avvelenamento acuto da barbiturici. Nel sangue aveva 8 mg% (milligrammi per 100 millilitri di soluzione) di idrato di cloralio e 4,5 mg% di pentobarbital, nel fegato 13 mg% di pentobarbital: quantità di gran lunga superiori al dosaggio letale, che esclusero immediatamente l’ipotesi di un’overdose accidentale.

Noguchi fu assistito dal Los Angeles Suicide Prevention Team. I medici di Marilyn affermarono che l’attrice era soggetta a gravi fobie e frequenti depressioni con cambiamenti d’umore improvvisi e imprevedibili e che era andata diverse volte in overdose di farmaci in passato, forse intenzionalmente. Noguchi classificò quindi la sua morte come probabile suicidio.

Thomas Noguchi

L’incerta ricostruzione degli eventi, il tempo trascorso tra la morte e la denuncia alla polizia, le incongruenze nelle dichiarazioni dei testimoni e il frettoloso referto autoptico hanno alimentato nel tempo varie teorie alternative secondo le quali Marilyn non si sarebbe suicidata, ma sarebbe stata assassinata. Tali ipotesi si basano soprattutto sulle possibili rivelazioni di Marilyn sulle sue relazioni coi Kennedy, considerate una seria minaccia per la loro carriera politica, o su una vendetta della mafia statunitense nei confronti della famiglia Kennedy per le promesse fatte in campagna elettorale e non mantenute.

Già all’epoca si diffuse la voce che Robert Kennedy e Peter Lawford fossero nella casa dell’attrice poche ore prima della sua morte, confermata solo 10 anni fa dalla divulgazione degli archivi segreti dell’investigatore Fred Otash. Nei dossier, Otash parla di una violenta discussione tra Marilyn e Robert Kennedy sulla loro relazione, sull’impegno che lui aveva preso con lei, sul fatto che i Kennedy e i loro amici l’avessero resa un oggetto sessuale da passarsi l’un l’altro: Marilyn gridava disperata, mentre Kennedy e Lawford cercavano di calmarla.

Otash avrebbe saputo della morte di Marilyn solo nelle prime ore del giorno successivo, quando Lawford lo avrebbe chiamato chiedendogli di rimuovere qualsiasi elemento incriminante dalla casa: prove di cui da allora non v’è alcuna traccia, compresi i presunti nastri delle conversazioni. Nel 1982 un’indagine formale del procuratore generale della contea di Los Angeles John Van de Kamp si concluse in un nulla di fatto.

Fred Otash

A oggi non esiste alcuna evidenza di omicidio, ma neppure un’inconfutabile prova che Marilyn si sia suicidata: la fragilità psichica, le dipendenze dai farmaci e le relazioni con uomini di potere l’avevano resa un pericolo per sé stessa, ma l’avevano anche esposta alla mercé di persone senza scrupoli.

Il film Something’s Got to Give non fu mai portato a termine. Per anni non si seppe più nulla nemmeno del footage, che raccoglie le ultime scene in cui compare Marilyn: 9 ore di riprese e parti sonore rimasero inutilizzate negli archivi della 20th Century Fox fino al 1989, quando vennero ritrovate dalla Fox Entertainment News e assemblate in un documentario di un’ora intitolato Marilyn: Something’s Got to Give. L’1 giugno 2001, in occasione del 75° compleanno di Marilyn, un segmento di 37 minuti del documentario venne trasmesso dal canale satellitare AMC col titolo Marilyn Monroe: The Final Days ed è attualmente disponibile su YouTube.

Marilyn Monroe: The Final Days

Dopo la morte di Marilyn, la 20th Century Fox riprese immediatamente il progetto di Something’s Got to Give, mantenendo la trama e riutilizzando gran parte dei set, insieme ad acconciature e costumi in precedenza ideati per la diva. Furono invece rinnovati troupe, cast e titolo: Fammi posto tesoro (Move Over, Darling), diretto da Michael Gordon, vide Doris Day e James Garner nei ruoli di Marilyn Monroe e Dean Martin. Garner era stato a suo tempo la scelta iniziale per la parte, ma aveva preferito recitare ne La grande fuga di John Sturges ed era stato sostituito da Dean Martin.

Fammi posto tesoro venne distribuito nel dicembre 1963, esattamente un anno dopo l’uscita prevista per Something’s Got to Give: Marilyn Monroe non c’era più, ma ancora una volta lo spettacolo doveva continuare.

Locandina di Fammi posto tesoro

Il grande coltello (Robert Aldrich, 1955)

Il grande coltello (The Big Knife) è un film del 1955 prodotto e diretto da Robert Aldrich e interpretato da Jack Palance, Ida Lupino, Rod Steiger, Shelley Winters, Wendell Corey e Jean Hagen.

Charlie Castle (Palance) è una star di Hollywood all’apice del successo, ma nell’agiatezza della sua lussuosa villa di Bel Air è un’anima tormentata.

Sua moglie Marion (Lupino), stanca dei suoi vizi e della sua vita senza scopo, è andata via di casa con il loro bambino e medita il divorzio: Marion accusa Charlie di essersi venduto allo star system hollywoodiano e di aver rinunciato alle sue idealità in cambio di facili compensi, accettando ruoli scadenti ma di successo.

Il mezzo idealismo, Charlie, è la peritonite dell’anima.
Sono parole che hanno senso tra i vivi…

(Il grande coltello)

La vita di Charlie è a un bivio: il potente e spregevole boss degli Studios, Stanley Hoff (Steiger), gli impone un rinnovo di contratto di sette anni.

Charlie vorrebbe liberarsi da quell’opprimente giogo, ma ha le mani legate: Hoff e il suo scagnozzo Smiley Coy (Corey) sono a conoscenza dei retroscena di un drammatico episodio del suo passato, e sono disposti a ricattarlo pur di ottenere quanto vogliono. Marion, dal canto suo, non accetterà una riconciliazione se Charlie firmerà il contratto.

Charlie è con le spalle al muro: troverà la forza di affrontare Hoff per riscattare se stesso e riconquistare la propria famiglia?

Charlie e Marion

Un film in cui l’azione avanza non per il gioco dei sentimenti, né per quello delle azioni, ma per definizione morale dei personaggi.

(François Truffaut)

Secondo il critico cinematografico Jeff Stafford, “l’uso dei long take da parte del direttore della fotografia Ernest Laszlo accresce notevolmente la tensione claustrofobica del film e la mescolanza di nomi fittizi con quelli reali (Billy Wilder, Elia Kazan, William Wyler) durante i dialoghi conferisce a Il grande coltello un tono realistico, quasi documentaristico.

La potenza de Il grande coltello è evocata fin dai titoli di testa: l’angosciante immagine del protagonista con le mani tra i capelli per la disperazione, che si riduce poi in frantumi, proviene dal genio di uno dei più grandi illustratori nella storia del cinema, Saul Bass.

Un fotogramma dei titoli di testa

A quel tempo i titoli di testa passavano spesso inosservati: Bass fu il primo a individuarne le potenzialità creative e a utilizzarli per introdurre le atmosfere del film, come epilogo per spiegarne il senso, come prologo o per raccontare eventi precedenti alla narrazione. Egli riteneva che il pubblico dovesse essere coinvolto fin dal primo frame.

Tra le sue opere più celebri, i titoli di testa de L’uomo dal braccio d’oro e Anatomia di un omicidio di Otto Preminger, Il giro del mondo in 80 giorni di Michael Anderson, La donna che visse due volte, Intrigo internazionale e Psyco di Alfred Hitchcock, Spartacus di Stanley Kubrick, Alien di Ridley Scott, Quei bravi ragazzi di Martin Scorsese.

Saul Bass

Il grande coltello è tratto dall’omonimo dramma (The Big Knife, 1949) di Clifford Odets: la singola ambientazione (la villa di Charlie Castle), i toni e le gestualità della recitazione ne evidenziano fortemente la derivazione teatrale.

Drammaturgo, sceneggiatore, regista e attore teatrale, Clifford Odets è annoverato tra gli astri della letteratura statunitense del ‘900: le sue opere hanno ispirato autori come Arthur Miller (Death of a Salesman), Paddy Chayefsky (Network), Neil Simon (The Odd Couple) e David Mamet (Glengarry Glen Ross).

Clifford Odets

Considerato l’erede del premio Nobel per la letteratura Eugene O’Neill, Odets fece parte del Group Theatre, la compagnia teatrale diretta da Lee Strasberg celebre per aver introdotto negli Stati Uniti il Metodo Stanislavskij (basato sull’immedesimazione dell’attore nel personaggio da interpretare) e ritenuta una delle più influenti nella storia del teatro americano.

Non c’è nulla di più torturato sulla faccia della Terra, e non esisterà mai, di un uomo che ha venduto i suoi sogni ma non può dimenticarli.

(Il grande coltello)

Il grande coltello è un’allegoria sui devastanti effetti della fama e del denaro sulla personalità di un artista e una durissima critica al patinato mondo di Hollywood scagliata da chi vi ha vissuto gran parte della propria vita: Odets, infatti, ricevette i maggiori compensi scrivendo sceneggiature di film come Il generale morì all’alba, Il ribelle e Piombo rovente; per La ragazza di campagna, adattamento cinematografico di un suo soggetto, Grace Kelly vinse il suo unico Oscar come miglior attrice protagonista.

Sono ingenuo, eh?
Sì, ma è la tua qualità migliore.

(Il grande coltello)

In un film di dichiarato stampo teatrale in cui i personaggi sono molto più importanti della trama (forte è l’influenza di Anton Chekhov sull’autore) a esaltarsi è l’abilità degli attori.

Colpisce in particolare la mirabile interpretazione di Jack Palance nel ruolo del sofferente Charlie Castle: un belloccio che può avere tutto ciò che desidera, ma che ha rinunciato a tutto ciò che amava e che in fondo continua ad amare; un idealista, intellettuale, amante dell’arte e della musica, stritolato da una prigione d’oro che lo ha condotto ai più miseri compromessi, alle più subdole frequentazioni, a sguazzare nel marciume celato dietro l’abbagliante universo dell’industria cinematografica.

Jack Palance e Ida Lupino in una scena del film

La sua performance è resa ancora più straordinaria dall’insolito ruolo da protagonista: Volodymyr Palahniuk, in arte Jack Palance, è infatti ricordato soprattutto per i molti ruoli da cattivo, cui era stato relegato fin dagli inizi della carriera per i suoi lineamenti spigolosi. Nato in Pennsylvania da una famiglia di origine ucraina, dopo aver tentato la carriera da pugile professionista recitò in circa 130 pellicole tra cinema e televisione.

Nel 1992, conquistò il premio Oscar come miglior attore non protagonista per il film Scappo dalla città – La vita, l’amore e le vacche, a più di quarant’anni dal proprio debutto cinematografico: nel ritirare la statuetta, ricevette una standing ovation dal pubblico in sala praticando delle flessioni con un braccio solo alla tenera età di 73 anni.

Jack Palance ne Il grande coltello

A regalare un’altra indimenticabile interpretazione è l’ossigenato Rod Steiger nei panni dell’antagonista principale, il produttore Stanley Hoff: mefistofelico, spietato, patriota fanatico al punto da chiedere al protagonista di firmare il contratto con la penna del generale Douglas MacArthur, comandante dell’esercito statunitense durante la Seconda Guerra Mondiale.

Rod Steiger ne Il grande coltello

Il personaggio si ispira ad alcuni dei più potenti produttori cinematografici hollywoodiani, ancora in auge nel periodo in cui fu realizzato il film. I suoi finti pianti provengono da Louis B. Mayer, dispotico boss della Metro Goldwyn Mayer (esperto nel piangere a comando, secondo le fonti dell’epoca), ma la sua figura è modellata soprattutto sulle fattezze del feroce tycoon della Columbia Pictures, Harry Cohn: il produttore si accorse subito della voluta somiglianza e tentò senza successo di agire per vie legali contro il regista Robert Aldrich, minacciando di rovinargli la carriera.

Harry Cohn

Cohn era noto per i suoi modi autocratici e intimidatori. Quando divenne presidente della Columbia Pictures rimase anche a capo della produzione, acquisendo così un potere incontrastabile. Si diceva che avesse dispositivi di ascolto ovunque e che potesse sintonizzarsi su qualsiasi conversazione, per poi intervenire facendo risuonare la propria voce attraverso un altoparlante in caso non gradisse qualcosa.

Moe Howard, del trio comico The Three Stooges (conosciuto in Italia come I tre marmittoni), lo definiva un tipo alla Dr. Jekyll e Mr. Hyde, capace di urlare e imprecare contro attori e registi nel proprio ufficio tutto il pomeriggio e di salutarli poi cordialmente la stessa sera a cena.

Secondo il biografo Michael Fleming, Cohn obbligò un altro membro degli Stooges, Curly Howard, a continuare a lavorare dopo essere stato colpito da una serie di lievi ictus: poco tempo dopo Howard ne subì uno più grave, che lo costrinse al ritiro e lo portò a prematura morte.

Curly Howard

Cohn aveva anche stretti legami con la criminalità organizzata, in particolare amicizie di lunga data con i gangster John Roselli e Abner Zwillman. Questi rapporti vennero brutalmente alla luce per un abietto episodio di razzismo, intimidazione e violenza.

Nel 1957, l’attore, cantante e ballerino di colore Sammy Davis Jr. frequentava la biondissima attrice Kim Novak, in quel momento sotto contratto con la Columbia Pictures di Harry Cohn.

King Cohn (nomignolo che gli era stato affibbiato per l’assonanza col celebre gorilla) temeva che la relazione interraziale potesse danneggiare gli Studios e ingaggiò Roselli e i suoi uomini per spaventare Davis e imporgli di non vedere più la Novak.

Sammy Davis Jr.

I gangster lo rapirono per alcune ore e lo minacciarono di fargli perdere l’altro occhio (aveva un occhio di vetro avendo perso il sinistro tre anni prima in un grave incidente d’auto) e di fratturargli le gambe se non avesse sposato una donna di colore entro due giorni: Davis sposò la ballerina di colore Loray White nel 1958 e pagò per contrarre il matrimonio a condizione che si potesse sciogliere entro la fine dell’anno, divorziando poi ufficialmente nell’aprile 1959.

Cohn chiedeva rapporti sessuali alle attrici in cambio dei contratti. Due star come Rita Hayworth e Joan Crawford si rifiutarono platealmente, ma Cohn dovette mantenerle sotto contratto in quanto troppo preziose per la casa di produzione. Secondo lo scrittore Joseph McBride, l’attrice Jean Arthur lasciò il mondo del cinema a causa delle avances di Cohn.

Rita Hayworth e Harry Cohn

Oltre allo Stanley Hoff de Il grande coltello, i tratti caratteristici di Harry Cohn hanno ispirato personaggi di diversi film: il Willie Stark di Tutti gli uomini del re e l’Harry Brock di Nata ieri, entrambi interpretati da Broderick Crawford, e soprattutto il viscido produttore Jack Woltz ne Il padrino, interpretato da John Marley ed entrato nell’immaginario collettivo per la celeberrima scena della testa di cavallo mozzata.

Uno dei personaggi secondari che restano maggiormente impressi ne Il grande coltello è la Connie Bliss interpretata da Jean Hagen, moglie del migliore amico di Charlie Castle, Buddy Bliss: seducente, maliziosa, spregiudicata e soprattutto completamente diversa dalla smorfiosa e capricciosa diva del muto Lina Lamont di Cantando sotto la pioggia, ruolo per cui è più nota l’attrice.

Jean Hagen ne Il grande coltello

Non c’è dubbio che la rivelazione di Robert Aldrich sarà l’evento cinematografico del 1955, all’inizio dell’anno non conoscevamo nemmeno il suo nome.

(François Truffaut)

Il cuore pulsante de Il grande coltello è un regista anticonformista e indipendente: Robert Aldrich. Aldrich amava affrontare temi politici e sociali scomodi, sfidando lo strapotere delle grandi case di produzione cinematografica e scagliando espliciti atti d’accusa verso lo stile di vita americano. I suoi personaggi non sono mai eroi tutti d’un pezzo, ma perdenti, cinici e violenti; nei suoi film dominano avidità e sete di potere.

Fu grazie a lui che il pubblico americano degli Anni ’50 e ’60, tradizionalmente abituato a buoni sentimenti e ideali patriottici, venne di colpo riportato alla realtà da immagini e linguaggi del tutto nuovi per il cinema: non sorprende, quindi, che Aldrich sia considerato un punto di riferimento da intere generazioni di registi.

Robert Aldrich

Cresciuto in una famiglia di politici e banchieri imparentata con i Rockfeller, Aldrich approdò a Hollywood come addetto alla produzione per la RKO, diventando quindi assistente di registi del calibro di Charlie Chaplin, Jean Renoir, Joseph Losey, William A. Wellman, Jules Dassin, Edward Dmytryk e Lewis Milestone.

Per nove anni imparò il mestiere da maestri assoluti, acquisendo i fondamenti pratici ed estetici del cinema, dei quali riportò egli stesso alcuni esempi in varie interviste: le ambientazioni e le atmosfere da Jean Renoir, le tecniche per pianificare in anticipo una ripresa da Lewis Milestone, le scene d’azione da William A. Wellman, l’importanza della comunicazione con gli attori da Joseph Losey, l’empatia visiva tra telecamera e pubblico da Charlie Chaplin.

Molti di questi straordinari cineasti erano anche tra i primi sospettati di attività filocomuniste e sovversive durante la caccia alle streghe messa in atto dal senatore Joseph McCarthy, il cosiddetto maccartismo: sotto la loro influenza, Aldrich rifiutò le convenzioni morali e commerciali dell’epoca per intraprendere un percorso personale fuori dal coro.

Robert Aldrich riconoscibile subito dietro Charlie Chaplin sul set di Luci della ribalta

Aldrich iniziò la sua trentennale carriera di regista nel 1954 con due western: L’ultimo Apache, il primo film dichiaratamente dalla parte degli indiani d’America, e Vera Cruz, considerato il vero modello d’ispirazione per il western all’italiana (pare che il grande Sergio Leone lo conoscesse a memoria, al punto da saperlo raccontare inquadratura per inquadratura).

Nel 1955, pochi mesi prima di girare Il grande coltello, Aldrich approdò al noir con Un bacio e una pistola, adattamento di un romanzo di Mickey Spillane con protagonista l’investigatore privato Mike Hammer, definito dal critico Tim Dirks il film noir definitivo, apocalittico e nichilista.

Dopo i celebri Che fine ha fatto Baby Jane? e Piano… piano, dolce Carlotta, Aldrich diresse il memorabile Quella sporca dozzina, una delle sue pellicole di maggior successo e modello per i film d’azione dei decenni successivi, e Quella sporca ultima meta, sferzante denuncia contro il sistema carcerario statunitense.

Robert Aldrich con Lee Marvin e John Cassavetes sul set di Quella sporca dozzina

Oltre a presentare un affresco molto esatto di Hollywood, “Il grande coltello” è il film americano più raffinato e intelligente che abbiamo visto da molti mesi a questa parte.

(François Truffaut)

Con Il grande coltello, Aldrich vinse il Leone d’argento per la miglior regia alla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia e ottenne il plauso della critica europea: i Cahiers du Cinéma inclusero tre dei suoi film (L’ultimo Apache, Vera Cruz e, appunto, Il grande coltello) tra i dieci migliori dell’anno e lo accolsero come protagonista di una nuova rivoluzione autoriale.

Jack Palance e Rod Steiger ne Il grande coltello