Premi Oscar 2022

La 94ª edizione degli Academy Awards sarà purtroppo ricordata per quello che molti hanno definito il momento più brutto nella storia degli Oscar. Durante la presentazione del premio per il miglior documentario, il comico Chris Rock si è rivolto alla moglie di Will Smith, Jada Pinkett Smith, paragonandola alla Demi Moore del film Soldato Jane per la sua testa rasata. Pinkett Smith soffre di alopecia e il suo disappunto per la pessima battuta, all’insegna del body shaming, ha innescato la violenta e ingiustificabile reazione del marito Will Smith, che è salito sul palco e ha schiaffeggiato il presentatore.

Poco dopo, Smith ha ricevuto il suo primo Oscar in carriera come miglior attore protagonista: in lacrime durante il discorso di accettazione, l’attore si è scusato con l’Academy e con gli altri candidati per il proprio gesto sconsiderato, motivandolo con l’amore verso i propri cari e ricevendo dal pubblico una standing ovation decisamente fuori luogo.

Una famiglia vincente – King Richard

L’Oscar a Will Smith era il più scontato della serata: per il ruolo di Richard Williams nel biopic Una famiglia vincente – King Richard, storia del padre e allenatore delle sorelle campionesse di tennis Venus e Serena Williams, l’attore aveva già vinto i maggiori premi internazionali (Golden Globe, Screen Actors Guild Award, Critics Choice Award e BAFTA). Una lodevole interpretazione in un film godibile e ben costruito, seppur leggermente sminuito dall’etichetta di ennesimo stereotipo del sogno americano.

Nettamente sfavoriti alla vigilia gli altri candidati, nonostante l’eccellente performance di Benedict Cumberbatch (Il potere del cane) il momento d’oro di Andrew Garfield (Tick, Tick… Boom!) e il solito intramontabile Denzel Washington (Macbeth).

Il potere del cane

Il potere del cane ha conquistato l’altra statuetta ampiamente annunciata, la sua unica a fronte di 12 nomination (il numero più alto in questa edizione): l’Oscar al miglior regista è andato infatti alla neozelandese Jane Campion, prima donna a essere candidata più di una volta per il premio e già vincitrice del Leone d’argento alla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia. Dopo la vittoria dello scorso anno di Chloé Zhao con Nomadland, è la prima volta che l’Oscar viene assegnato a una donna per due edizioni consecutive.

Suggestive inquadrature e notevoli riprese dall’alto in un film solo all’apparenza definibile western: Il potere del cane è un dramma cupo e inquietante, con personaggi ambigui e un’atmosfera intrisa di perversione. Bravi gli attori (Kirsten Dunst, Jesse Plemons e il luciferino Kodi Smit-McPhee, oltre a Cumberbatch), tutti e quattro candidati all’Oscar.

CODA – I segni del cuore

Decisamente troppe le 10 pellicole candidate all’Oscar per il miglior film, la metà delle quali non aveva alcuna possibilità di vittoria. Il premio è infine andato con merito a un outsider: CODA – I segni del cuore. Remake de La famiglia Bélier (2014) di Éric Lartigau, CODA è l’acronimo di Child Of Deaf Adult, ossia persona udente cresciuta da genitore sordo: la protagonista Ruby Rossi (Emilia Jones) è l’unico membro udente della propria famiglia, avendo padre, madre e fratello sordi, e ha una grande passione per la musica.

La pellicola affronta una tematica delicata da un punto di vista originale e coinvolgente: la disabilità non è rappresentata come un dramma, ma come qualcosa di speciale come il legame che crea tra le persone. CODA pone luce con leggerezza e semplicità sulla difficoltà di comunicare in contesti ancora impreparati alla diversità e sulla caparbietà nel superarla. Un film allegro e allo stesso tempo emozionante, dal messaggio fortemente positivo, diverso da tutti gli altri in gara.

Marlee Matlin, la madre di Ruby nel film, è stata la prima interprete sorda a conquistare un Oscar e la donna più giovane a vincere la statuetta come miglior attrice protagonista per Figli di un dio minore (1986), debuttando all’età di 21 anni: lei e Troy Kotsur, premiato come miglior attore non protagonista per la magnifica interpretazione del padre di Ruby, sono quindi gli unici due attori sordi ad aver vinto un Oscar. Grande soddisfazione anche per la regista e sceneggiatrice Siân Heder, che si aggiudica il premio per la miglior sceneggiatura non originale. Un vero e proprio trionfo per CODA, che conquista tutti e tre gli Oscar per cui era candidato.

Gli occhi di Tammy Faye

Se l’Oscar al miglior attore era praticamente già assegnato, molto più tirata è stata la sfida per l’Oscar alla miglior attrice, dove il testa a testa tra Nicole Kidman e Jessica Chastain si è concluso con la vittoria di quest’ultima per Gli occhi di Tammy Faye, film biografico incentrato sulla vita della famosa telepredicatrice: una statuetta meritata in un film piuttosto lento e fiacco, trascinato quasi unicamente dalla sua performance; premiati con l’Oscar anche i trucchi e le acconciature, impeccabili al punto da rendere l’attrice irriconoscibile.

Nicole Kidman, già vincitrice del Golden Globe per A proposito dei Ricardo, è stata poco aiutata da un film abbastanza piatto e da un’interpretazione un po’ troppo asettica di quella Lucille Ball resa celebre dalla sensazionale mimica facciale e dalla strepitosa verve comica. Davvero difficile la scelta finale, considerato anche il livello delle altre tre candidate: la sorprendente Kristen Stewart nel ruolo di Lady Diana in Spencer, la splendida Penelope Cruz in Madres paralelas di Pedro Almodóvar e la sempre bravissima Olivia Colman ne La figlia oscura di Maggie Gyllenhaal, quest’ultima penalizzata forse dall’aver condiviso la scena con la stella emergente Jessie Buckley, a sua volta candidata come miglior attrice non protagonista.

West Side Story

Era davvero impossibile per West Side Story replicare il successo dell’omonimo capolavoro girato 60 anni prima (1961), vincitore di 10 Oscar e considerato uno dei migliori musical di tutti i tempi. La pellicola, diretta da Steven Spielberg, è riuscita però a ritagliarsi uno spazio importante in questa rassegna degli Academy Awards grazie alla statuetta conquistata da Ariana DeBose come miglior attrice non protagonista nel ruolo di Anita, entrando di diritto nella storia del cinema: l’attrice interprete di Anita nel film del 1961, Rita Moreno, aveva infatti vinto a sua volta l’Oscar come miglior attrice non protagonista.

Anita raggiunge quindi Don Corleone e Joker tra i personaggi le cui interpretazioni hanno guadagnato più di un Oscar, ma la sua doppietta è, se vogliamo, ancora più speciale: mentre gli altri compaiono in due distinte narrazioni (Il padrino e Il padrino – Parte II, Il cavaliere oscuro e Joker), in questo caso l’interpretazione dello stesso personaggio in entrambi gli adattamenti cinematografici della stessa opera viene premiata con lo stesso Oscar.

Belfast

Kenneth Branagh ha finalmente conquistato il suo primo Oscar in carriera per la sceneggiatura originale del semi-autobiografico Belfast: un degno riconoscimento per uno degli artisti più poliedrici del panorama cinematografico mondiale, come testimoniato dallo straordinario dettaglio delle 7 diverse nomination su 8 totali (film, regista, attore protagonista, attore non protagonista, sceneggiatura non originale, sceneggiatura originale, cortometraggio) in oltre 30 anni (la prima nel 1990).

Il suo Belfast è un film intenso e coraggioso sul conflitto nordirlandese tra cattolici e protestanti visto dalla prospettiva di un bambino, con un’iconica fotografia in bianco e nero e ottimi interpreti, piccoli e grandi, tra i quali spicca la performance di Ciarán Hinds nel ruolo del nonno.

Drive My Car

Quasi scontato l’Oscar come miglior film internazionale a Drive My Car di Ryūsuke Hamaguchi (Giappone), candidato anche nelle categorie Miglior film, Miglior regista e Miglior sceneggiatura non originale e dato per favorito rispetto a Flee (Danimarca), La persona peggiore del mondo (Norvegia) e al nostro È stata la mano di Dio di Paolo Sorrentino.

Già vincitore del Golden Globe per il miglior film in lingua straniera e del Prix du scénario (premio alla migliore sceneggiatura) al Festival di Cannes, Drive My Car è un dramma introspettivo sul rimpianto e l’accettazione di sé stessi, ma anche un omaggio al teatro, alla sua capacità di unire personalità e linguaggi diversi, al potere che esercita su chi vi si dedica. Un film impegnativo, ancora di più per la durata di quasi tre ore, ma senza dubbio da vedere.

Dune

A sorpresa, il film più premiato in questa edizione degli Academy Awards è stato Dune di Denis Villeneuve, prima parte dell’adattamento cinematografico dell’omonimo romanzo di Frank Herbert già portato sullo schermo nel 1984 da David Lynch, vincitore di 6 Oscar su 10 nomination: fotografia, montaggio, sonoro, scenografia, effetti speciali e colonna sonora al leggendario Hans Zimmer, alla seconda statuetta in carriera dopo quella per Il re leone (1995).

Un avvincente film di fantascienza supportato da un pregevole cast corale comprendente Timothée Chalamet, Rebecca Ferguson, Oscar Isaac, Zendaya, Jason Momoa, Josh Brolin, Stellan Skarsgård, Javier Bardem e Charlotte Rampling.

Il remake vince facilmente il confronto con il film originale, sommerso a suo tempo da critiche ben poco lusinghiere:

Molti dei personaggi di Dune sono sensitivi, il che li mette nella posizione unica di essere in grado di capire ciò che accade nel film.

Janet Maslin

Ci sono voluti a Dune circa nove minuti per spogliarmi completamente di ogni aspettativa.
Questo film è un vero casino, un’incomprensibile, brutta, non strutturata, inutile escursione nei reami più oscuri di una delle sceneggiature più confuse di tutti i tempi.

Roger Ebert

L’Oscar onorario è stato assegnato agli attori Samuel L. Jackson, Elaine May e Liv Ullmann, mentre Danny Glover ha ricevuto il Premio umanitario Jean Hersholt per il suo decennale impegno nella difesa della giustizia e dei diritti umani. Crudelia, reboot e prequel de La carica dei 101, premiato con l’Oscar per i migliori costumi. Miglior film d’animazione Encanto, 60° classico Disney, miglior canzone No Time To Die di Billie Eilish e Finneas O’Connell per l’omonimo film, 25° capitolo della saga di James Bond.

Zero Oscar!

Grande delusione, infine, per tante pellicole pluricandidate, alcune delle quali annunciate come possibili outsider: La figlia oscura, Licorice Pizza, La persona peggiore del mondo, A proposito dei Ricardo, Macbeth, Tick, Tick… Boom!, Madres paralelas, Don’t Look Up e La fiera delle illusioni – Nightmare Alley tornano a casa senza nemmeno una statuetta.

I soggetti di Pippo Fava

Dagli esordi come giornalista sportivo fino alle esperienze con il Giornale del Sud e la rivista I Siciliani, Pippo Fava è stato uno strenuo sostenitore del ruolo della stampa nel contrasto alla criminalità per “realizzare giustizia e difendere la libertà”. I suoi articoli e le sue inchieste lo hanno reso un’icona della lotta alla mafia.

Pippo Fava

Meno noto è, invece, il suo legame con il cinema e il teatro: la scrittura di soggetti e sceneggiature ha rappresentato un’altra strada per descrivere la condizione umana, il degrado e l’abbandono nella sua terra d’origine, le circostanze che hanno consentito alla mafia di proliferare, di prendersi tutto.

Due lavori su tutti, in particolare, sono diventati film: La violenza, dramma teatrale che ha ispirato La violenza: quinto potere (1972) di Florestano Vancini, e Passione di Michele, romanzo da cui è stato tratto il film Palermo o Wolfsburg (1980) di Werner Schroeter, Orso d’oro al Festival di Berlino (ex aequo con lo statunitense Heartland di Richard Pearce), alla cui sceneggiatura ha contribuito lo stesso Fava. 

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La violenza: quinto potere (Florestano Vancini, 1972)

Enrico Maria Salerno e Ciccio Ingrassia

In Sicilia, il progetto per la costruzione di una diga scatena una sanguinosa faida tra due cosche mafiose, facenti capo una al costruttore e l’altra al latifondista che non intende far distruggere i propri agrumeti.

Gli efferati delitti tra fazioni rivali coinvolgono presto poliziotti, politici, testimoni involontari e semplici passanti. Il processo, che vedrà imputati da entrambe le parti, farà emergere tutta l’impotenza dello Stato e della Giustizia nel trovare i reali colpevoli, la subdola e corrosiva ambiguità di avvocati difensori e politici collusi che negano il fenomeno mafioso, l’insanabile disperazione dei parenti delle vittime, il crudele destino riservato ai miserabili capri espiatori designati.

Il film ha un cast d’eccezione: Enrico Maria Salerno, Gastone Moschin, Riccardo Cucciolla, Aldo Giuffré, Mario Adorf, Mariangela Melato e Ciccio Ingrassia, qui in un’insolita e intensa veste drammatica.

Nel panorama dei film sulla mafia, spesso accusati di luoghi comuni, La violenza: quinto potere non concede ambiguità: è la sbarra stessa a determinare il suo manicheismo, che arriva crudo, intatto e cristallino allo spettatore.

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Palermo o Wolfsburg (Werner Schroeter, 1980)

Nicola Zarbo

A metà degli Anni ’70, un ragazzo siciliano originario di Palma di Montechiaro, comune in provincia di Agrigento, decide di trasferirsi a Wolfsburg, in Germania Ovest, per lavorare come operaio alla Volkswagen.

Qui si confronta con il disagio di vivere in un luogo così diverso dalla propria terra, con il contesto lavorativo alienante della fabbrica, con l’isolamento linguistico, con il feroce e cieco pregiudizio xenofobo. L’ingiustizia sociale culminerà in un gesto estremo, un raptus assassino: il tentativo disperato di un riscatto nella sua ricerca di dignità.

Come in altre sue opere, Fava pone l’accento sulla frustrante contraddizione di un territorio di inestimabile bellezza schiacciato dalla maledizione del degrado, dove i bambini muoiono ma rappresentano l’unica ricchezza e i giovani sono costretti a emigrare in cerca di lavoro: nella miseria di casa sua il protagonista era felice, mentre la Germania delle opportunità trasformerà la sua vita in un incubo.

Il romanzo Passione di Michele, da cui è tratto il film, nasce dall’incontro nel 1978 tra Fava e il regista tedesco Werner Schroeter, in Italia per girare il film Nel regno di Napoli. Insieme a Herzog, Fassbinder, Wenders e Schlöndorff, Schroeter è considerato uno dei promotori del Nuovo cinema tedesco e uno dei più importanti registi del cinema tedesco del Secondo dopoguerra.

Werner Schroeter

Oltre che a Berlino, il film è stato proiettato a Chicago, Lisbona, Salonicco, ma paradossalmente non è stato distribuito in Italia, dove è tuttora pressoché sconosciuto.

Non è un film semplice, né un film leggero. Un’opera espressionista e neorealista (un esempio su tutti: Nicola Zarbo, attore non professionista che dà il proprio nome al protagonista), della durata di quasi 3 ore, in cui l’incomunicabilità tra i personaggi viene resa mediante una Babele di lingue diverse che non sono mai la nostra. Non è per tutti e non nasce per piacere: nasce per far conoscere, per sensibilizzare. Un film che disturba e commuove nella sua amara denuncia sociale, poetico nel descrivere sottovoce l’attaccamento alla bellezza della terra natia e la nostalgia della propria casa. 

Il paese di Palma di Montechiaro viene citato più volte nelle opere di Fava, in particolare in Processo alla Sicilia e Mafia, come uno dei luoghi in cui “la tragedia meridionale -che secondo Fava nasce dalla concomitanza di miseria, ignoranza e assenza dello Stato- raggiunge una negativa perfezione”: mortalità infantile, povertà endemica e i pochi soldi spediti dai familiari emigrati come unica fonte di reddito della popolazione. Ma gli stessi luoghi della miseria un tempo sono stati usati per rappresentare la ricca aristocrazia: la Donnafugata del romanzo Il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa nella realtà non è il Castello di Donnafugata in provincia di Ragusa, ma è proprio Palma di Montechiaro, luogo caro all’autore che vi ha trascorso l’infanzia.

Giuseppe Tomasi di Lampedusa e Il Gattopardo

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Pippo Fava è stato ucciso dalla mafia il 5 gennaio 1984.

A decretare la sua condanna a morte, probabilmente, l’articolo I quattro cavalieri dell’apocalisse mafiosa: un’inchiesta-denuncia sui rapporti tra imprenditori e mafiosi catanesi pubblicata su I Siciliani.

Come ci dice Riccardo Orioles, giornalista e suo storico collaboratore: “Lui sapeva descrivere come nessun altro al mondo, puntava la luce sulla normalità. Uno così non si poteva lasciare vivere.”

L’ultima intervista (I parte, II parte), rilasciata a Enzo Biagi pochi giorni prima di essere assassinato, riesce a dare un’idea di chi fosse Pippo Fava.

Le sue ultime battaglie sono raccontate nel film TV Prima che la notte (2018) di Daniele Vicari, in cui Fava è interpretato da un magistrale Fabrizio Gifuni. 

Fabrizio Gifuni/Pippo Fava in Prima che la notte (2018)

La storia di Pippo Fava ricorda tanto quelle del conterraneo Peppino Impastato, degli “stranieri in terra straniera” Mauro De Mauro e Mauro Rostagno, del napoletano Giancarlo Siani: intellettuali, scrittori, giornalisti che hanno pagato con la vita il rifiuto di sottostare in silenzio alla soffocante morsa della malavita organizzata, denunciandone i soprusi e raccontando la verità, con la speranza di rendere migliore il posto in cui vivevano.