Il grande coltello (Robert Aldrich, 1955)

Il grande coltello (The Big Knife) è un film del 1955 prodotto e diretto da Robert Aldrich e interpretato da Jack Palance, Ida Lupino, Rod Steiger, Shelley Winters, Wendell Corey e Jean Hagen.

Charlie Castle (Palance) è una star di Hollywood all’apice del successo, ma nell’agiatezza della sua lussuosa villa di Bel Air è un’anima tormentata.

Sua moglie Marion (Lupino), stanca dei suoi vizi e della sua vita senza scopo, è andata via di casa con il loro bambino e medita il divorzio: Marion accusa Charlie di essersi venduto allo star system hollywoodiano e di aver rinunciato alle sue idealità in cambio di facili compensi, accettando ruoli scadenti ma di successo.

Il mezzo idealismo, Charlie, è la peritonite dell’anima.
Sono parole che hanno senso tra i vivi…

(Il grande coltello)

La vita di Charlie è a un bivio: il potente e spregevole boss degli Studios, Stanley Hoff (Steiger), gli impone un rinnovo di contratto di sette anni.

Charlie vorrebbe liberarsi da quell’opprimente giogo, ma ha le mani legate: Hoff e il suo scagnozzo Smiley Coy (Corey) sono a conoscenza dei retroscena di un drammatico episodio del suo passato, e sono disposti a ricattarlo pur di ottenere quanto vogliono. Marion, dal canto suo, non accetterà una riconciliazione se Charlie firmerà il contratto.

Charlie è con le spalle al muro: troverà la forza di affrontare Hoff per riscattare se stesso e riconquistare la propria famiglia?

Charlie e Marion

Un film in cui l’azione avanza non per il gioco dei sentimenti, né per quello delle azioni, ma per definizione morale dei personaggi.

(François Truffaut)

Secondo il critico cinematografico Jeff Stafford, “l’uso dei long take da parte del direttore della fotografia Ernest Laszlo accresce notevolmente la tensione claustrofobica del film e la mescolanza di nomi fittizi con quelli reali (Billy Wilder, Elia Kazan, William Wyler) durante i dialoghi conferisce a Il grande coltello un tono realistico, quasi documentaristico.

La potenza de Il grande coltello è evocata fin dai titoli di testa: l’angosciante immagine del protagonista con le mani tra i capelli per la disperazione, che si riduce poi in frantumi, proviene dal genio di uno dei più grandi illustratori nella storia del cinema, Saul Bass.

Un fotogramma dei titoli di testa

A quel tempo i titoli di testa passavano spesso inosservati: Bass fu il primo a individuarne le potenzialità creative e a utilizzarli per introdurre le atmosfere del film, come epilogo per spiegarne il senso, come prologo o per raccontare eventi precedenti alla narrazione. Egli riteneva che il pubblico dovesse essere coinvolto fin dal primo frame.

Tra le sue opere più celebri, i titoli di testa de L’uomo dal braccio d’oro e Anatomia di un omicidio di Otto Preminger, Il giro del mondo in 80 giorni di Michael Anderson, La donna che visse due volte, Intrigo internazionale e Psyco di Alfred Hitchcock, Spartacus di Stanley Kubrick, Alien di Ridley Scott, Quei bravi ragazzi di Martin Scorsese.

Saul Bass

Il grande coltello è tratto dall’omonimo dramma (The Big Knife, 1949) di Clifford Odets: la singola ambientazione (la villa di Charlie Castle), i toni e le gestualità della recitazione ne evidenziano fortemente la derivazione teatrale.

Drammaturgo, sceneggiatore, regista e attore teatrale, Clifford Odets è annoverato tra gli astri della letteratura statunitense del ‘900: le sue opere hanno ispirato autori come Arthur Miller (Death of a Salesman), Paddy Chayefsky (Network), Neil Simon (The Odd Couple) e David Mamet (Glengarry Glen Ross).

Clifford Odets

Considerato l’erede del premio Nobel per la letteratura Eugene O’Neill, Odets fece parte del Group Theatre, la compagnia teatrale diretta da Lee Strasberg celebre per aver introdotto negli Stati Uniti il Metodo Stanislavskij (basato sull’immedesimazione dell’attore nel personaggio da interpretare) e ritenuta una delle più influenti nella storia del teatro americano.

Non c’è nulla di più torturato sulla faccia della Terra, e non esisterà mai, di un uomo che ha venduto i suoi sogni ma non può dimenticarli.

(Il grande coltello)

Il grande coltello è un’allegoria sui devastanti effetti della fama e del denaro sulla personalità di un artista e una durissima critica al patinato mondo di Hollywood scagliata da chi vi ha vissuto gran parte della propria vita: Odets, infatti, ricevette i maggiori compensi scrivendo sceneggiature di film come Il generale morì all’alba, Il ribelle e Piombo rovente; per La ragazza di campagna, adattamento cinematografico di un suo soggetto, Grace Kelly vinse il suo unico Oscar come miglior attrice protagonista.

Sono ingenuo, eh?
Sì, ma è la tua qualità migliore.

(Il grande coltello)

In un film di dichiarato stampo teatrale in cui i personaggi sono molto più importanti della trama (forte è l’influenza di Anton Chekhov sull’autore) a esaltarsi è l’abilità degli attori.

Colpisce in particolare la mirabile interpretazione di Jack Palance nel ruolo del sofferente Charlie Castle: un belloccio che può avere tutto ciò che desidera, ma che ha rinunciato a tutto ciò che amava e che in fondo continua ad amare; un idealista, intellettuale, amante dell’arte e della musica, stritolato da una prigione d’oro che lo ha condotto ai più miseri compromessi, alle più subdole frequentazioni, a sguazzare nel marciume celato dietro l’abbagliante universo dell’industria cinematografica.

Jack Palance e Ida Lupino in una scena del film

La sua performance è resa ancora più straordinaria dall’insolito ruolo da protagonista: Volodymyr Palahniuk, in arte Jack Palance, è infatti ricordato soprattutto per i molti ruoli da cattivo, cui era stato relegato fin dagli inizi della carriera per i suoi lineamenti spigolosi. Nato in Pennsylvania da una famiglia di origine ucraina, dopo aver tentato la carriera da pugile professionista recitò in circa 130 pellicole tra cinema e televisione.

Nel 1992, conquistò il premio Oscar come miglior attore non protagonista per il film Scappo dalla città – La vita, l’amore e le vacche, a più di quarant’anni dal proprio debutto cinematografico: nel ritirare la statuetta, ricevette una standing ovation dal pubblico in sala praticando delle flessioni con un braccio solo alla tenera età di 73 anni.

Jack Palance ne Il grande coltello

A regalare un’altra indimenticabile interpretazione è l’ossigenato Rod Steiger nei panni dell’antagonista principale, il produttore Stanley Hoff: mefistofelico, spietato, patriota fanatico al punto da chiedere al protagonista di firmare il contratto con la penna del generale Douglas MacArthur, comandante dell’esercito statunitense durante la Seconda Guerra Mondiale.

Rod Steiger ne Il grande coltello

Il personaggio si ispira ad alcuni dei più potenti produttori cinematografici hollywoodiani, ancora in auge nel periodo in cui fu realizzato il film. I suoi finti pianti provengono da Louis B. Mayer, dispotico boss della Metro Goldwyn Mayer (esperto nel piangere a comando, secondo le fonti dell’epoca), ma la sua figura è modellata soprattutto sulle fattezze del feroce tycoon della Columbia Pictures, Harry Cohn: il produttore si accorse subito della voluta somiglianza e tentò senza successo di agire per vie legali contro il regista Robert Aldrich, minacciando di rovinargli la carriera.

Harry Cohn

Cohn era noto per i suoi modi autocratici e intimidatori. Quando divenne presidente della Columbia Pictures rimase anche a capo della produzione, acquisendo così un potere incontrastabile. Si diceva che avesse dispositivi di ascolto ovunque e che potesse sintonizzarsi su qualsiasi conversazione, per poi intervenire facendo risuonare la propria voce attraverso un altoparlante in caso non gradisse qualcosa.

Moe Howard, del trio comico The Three Stooges (conosciuto in Italia come I tre marmittoni), lo definiva un tipo alla Dr. Jekyll e Mr. Hyde, capace di urlare e imprecare contro attori e registi nel proprio ufficio tutto il pomeriggio e di salutarli poi cordialmente la stessa sera a cena.

Secondo il biografo Michael Fleming, Cohn obbligò un altro membro degli Stooges, Curly Howard, a continuare a lavorare dopo essere stato colpito da una serie di lievi ictus: poco tempo dopo Howard ne subì uno più grave, che lo costrinse al ritiro e lo portò a prematura morte.

Curly Howard

Cohn aveva anche stretti legami con la criminalità organizzata, in particolare amicizie di lunga data con i gangster John Roselli e Abner Zwillman. Questi rapporti vennero brutalmente alla luce per un abietto episodio di razzismo, intimidazione e violenza.

Nel 1957, l’attore, cantante e ballerino di colore Sammy Davis Jr. frequentava la biondissima attrice Kim Novak, in quel momento sotto contratto con la Columbia Pictures di Harry Cohn.

King Cohn (nomignolo che gli era stato affibbiato per l’assonanza col celebre gorilla) temeva che la relazione interraziale potesse danneggiare gli Studios e ingaggiò Roselli e i suoi uomini per spaventare Davis e imporgli di non vedere più la Novak.

Sammy Davis Jr.

I gangster lo rapirono per alcune ore e lo minacciarono di fargli perdere l’altro occhio (aveva un occhio di vetro avendo perso il sinistro tre anni prima in un grave incidente d’auto) e di fratturargli le gambe se non avesse sposato una donna di colore entro due giorni: Davis sposò la ballerina di colore Loray White nel 1958 e pagò per contrarre il matrimonio a condizione che si potesse sciogliere entro la fine dell’anno, divorziando poi ufficialmente nell’aprile 1959.

Cohn chiedeva rapporti sessuali alle attrici in cambio dei contratti. Due star come Rita Hayworth e Joan Crawford si rifiutarono platealmente, ma Cohn dovette mantenerle sotto contratto in quanto troppo preziose per la casa di produzione. Secondo lo scrittore Joseph McBride, l’attrice Jean Arthur lasciò il mondo del cinema a causa delle avances di Cohn.

Rita Hayworth e Harry Cohn

Oltre allo Stanley Hoff de Il grande coltello, i tratti caratteristici di Harry Cohn hanno ispirato personaggi di diversi film: il Willie Stark di Tutti gli uomini del re e l’Harry Brock di Nata ieri, entrambi interpretati da Broderick Crawford, e soprattutto il viscido produttore Jack Woltz ne Il padrino, interpretato da John Marley ed entrato nell’immaginario collettivo per la celeberrima scena della testa di cavallo mozzata.

Uno dei personaggi secondari che restano maggiormente impressi ne Il grande coltello è la Connie Bliss interpretata da Jean Hagen, moglie del migliore amico di Charlie Castle, Buddy Bliss: seducente, maliziosa, spregiudicata e soprattutto completamente diversa dalla smorfiosa e capricciosa diva del muto Lina Lamont di Cantando sotto la pioggia, ruolo per cui è più nota l’attrice.

Jean Hagen ne Il grande coltello

Non c’è dubbio che la rivelazione di Robert Aldrich sarà l’evento cinematografico del 1955, all’inizio dell’anno non conoscevamo nemmeno il suo nome.

(François Truffaut)

Il cuore pulsante de Il grande coltello è un regista anticonformista e indipendente: Robert Aldrich. Aldrich amava affrontare temi politici e sociali scomodi, sfidando lo strapotere delle grandi case di produzione cinematografica e scagliando espliciti atti d’accusa verso lo stile di vita americano. I suoi personaggi non sono mai eroi tutti d’un pezzo, ma perdenti, cinici e violenti; nei suoi film dominano avidità e sete di potere.

Fu grazie a lui che il pubblico americano degli Anni ’50 e ’60, tradizionalmente abituato a buoni sentimenti e ideali patriottici, venne di colpo riportato alla realtà da immagini e linguaggi del tutto nuovi per il cinema: non sorprende, quindi, che Aldrich sia considerato un punto di riferimento da intere generazioni di registi.

Robert Aldrich

Cresciuto in una famiglia di politici e banchieri imparentata con i Rockfeller, Aldrich approdò a Hollywood come addetto alla produzione per la RKO, diventando quindi assistente di registi del calibro di Charlie Chaplin, Jean Renoir, Joseph Losey, William A. Wellman, Jules Dassin, Edward Dmytryk e Lewis Milestone.

Per nove anni imparò il mestiere da maestri assoluti, acquisendo i fondamenti pratici ed estetici del cinema, dei quali riportò egli stesso alcuni esempi in varie interviste: le ambientazioni e le atmosfere da Jean Renoir, le tecniche per pianificare in anticipo una ripresa da Lewis Milestone, le scene d’azione da William A. Wellman, l’importanza della comunicazione con gli attori da Joseph Losey, l’empatia visiva tra telecamera e pubblico da Charlie Chaplin.

Molti di questi straordinari cineasti erano anche tra i primi sospettati di attività filocomuniste e sovversive durante la caccia alle streghe messa in atto dal senatore Joseph McCarthy, il cosiddetto maccartismo: sotto la loro influenza, Aldrich rifiutò le convenzioni morali e commerciali dell’epoca per intraprendere un percorso personale fuori dal coro.

Robert Aldrich riconoscibile subito dietro Charlie Chaplin sul set di Luci della ribalta

Aldrich iniziò la sua trentennale carriera di regista nel 1954 con due western: L’ultimo Apache, il primo film dichiaratamente dalla parte degli indiani d’America, e Vera Cruz, considerato il vero modello d’ispirazione per il western all’italiana (pare che il grande Sergio Leone lo conoscesse a memoria, al punto da saperlo raccontare inquadratura per inquadratura).

Nel 1955, pochi mesi prima di girare Il grande coltello, Aldrich approdò al noir con Un bacio e una pistola, adattamento di un romanzo di Mickey Spillane con protagonista l’investigatore privato Mike Hammer, definito dal critico Tim Dirks il film noir definitivo, apocalittico e nichilista.

Dopo i celebri Che fine ha fatto Baby Jane? e Piano… piano, dolce Carlotta, Aldrich diresse il memorabile Quella sporca dozzina, una delle sue pellicole di maggior successo e modello per i film d’azione dei decenni successivi, e Quella sporca ultima meta, sferzante denuncia contro il sistema carcerario statunitense.

Robert Aldrich con Lee Marvin e John Cassavetes sul set di Quella sporca dozzina

Oltre a presentare un affresco molto esatto di Hollywood, “Il grande coltello” è il film americano più raffinato e intelligente che abbiamo visto da molti mesi a questa parte.

(François Truffaut)

Con Il grande coltello, Aldrich vinse il Leone d’argento per la miglior regia alla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia e ottenne il plauso della critica europea: i Cahiers du Cinéma inclusero tre dei suoi film (L’ultimo Apache, Vera Cruz e, appunto, Il grande coltello) tra i dieci migliori dell’anno e lo accolsero come protagonista di una nuova rivoluzione autoriale.

Jack Palance e Rod Steiger ne Il grande coltello

U-Boot 96 (Wolfgang Petersen, 1981)

Eine Reise ans Ende des Verstandes”
“Un viaggio ai limiti della mente umana”

(Tagline del film)

U-Boot 96 (Das Boot) è un film di guerra tedesco del 1981 scritto e diretto da Wolfgang Petersen e interpretato da Jürgen Prochnow, Herbert Grönemeyer e Klaus Wennemann.

La pellicola è incentrata sull’U-96, un sommergibile della Marina militare tedesca (Kriegsmarine) in servizio durante la Seconda Guerra Mondiale (U-Boot è l’abbreviazione di Unterseeboot, letteralmente battello sottomarino) ed è tratta dall’omonimo romanzo di Lothar-Günther Buchheim Das Boot, pubblicato nel 1973 ed edito in Italia come U-Boot.

L’U-96 in una scena del film

La narrazione è immaginaria, ma si basa su episodi realmente accaduti al vero U-96: Buchheim, autore del romanzo, era salito a bordo del sommergibile nel 1941 come corrispondente di guerra per fotografare e descrivere un U-Boot in azione per scopi di propaganda; Heinrich Lehmann-Willenbrock, comandante dell’U-96 e sesto comandante tedesco per tonnellaggio nemico affondato (179125 tonnellate) nella Battaglia dell’Atlantico contro gli Alleati, fece da consulente alla regia insieme a Hans-Joachim Krug, comandante in seconda dell’U-219.

Il vero U-96 e il comandante Lehmann-Willenbrock

Nell’ottobre 1941, il tenente Werner si imbarca a La Rochelle come corrispondente di guerra a bordo del sommergibile tedesco U-96, in procinto di salpare per l’Atlantico a caccia di navi nemiche. L’U-96 ha come ufficiali più alti in grado l’autorevole comandante, soprannominato Der Alte (Il vecchio), e il valente direttore di macchina.

Werner entra rapidamente a contatto con le dure condizioni di vita all’interno del sommergibile, segnate da snervanti attese, sporcizia e promiscuità, che minano costantemente il morale dell’equipaggio.

Il comandante e il tenente Werner in una scena del film

Dopo giorni di navigazione viene segnalata la presenza di un convoglio Alleato e il comandante si lancia all’attacco, ma una fitta nebbia ribalta inaspettatamente lo scenario: l’U-96 viene individuato e bombardato da un cacciatorpediniere (una nave da guerra progettata appositamente per attaccare i sommergibili, equipaggiata con sonar e cariche di profondità) e da cacciatore diventa preda, riuscendo comunque ad allontanarsi.

La disillusione del comandante, diffidente riguardo all’attendibilità degli ordini ricevuti, trova conferma quando l’U-96 si imbatte in un’unità amica: un incontro così improbabile nell’immensità dell’oceano induce a sospettare che uno dei due sommergibili sia stato inviato nel posto sbagliato, palese testimonianza della superficialità dell’Alto Comando sui reali obiettivi delle missioni.

Una notte l’U-96 avvista un convoglio nemico e attacca lanciando tre siluri, nonostante il chiarore della Luna lo renda facilmente distinguibile: i siluri raggiungono i bersagli, ma il sommergibile viene individuato da un caccia di scorta alle navi e bombardato per ore, riuscendo miracolosamente a salvarsi.

Una scena del film

Quando il rientro sembra ormai imminente, un inatteso ordine impone al sommergibile un ultimo incarico, che si rivela essere una missione suicida: dirigersi verso la base di La Spezia passando attraverso lo stretto di Gibilterra presidiato dalla flotta britannica.

Durante l’insidiosa traversata, l’U-96 viene centrato da una bomba e tenta la fuga immergendosi rapidamente: il colpo ricevuto ha però danneggiato gli strumenti per regolare l’immersione e l’assetto del sommergibile, che continua a scendere senza più controllo.

Raggiunta la profondità di 270 metri, ben oltre il livello di tenuta del natante, un banco di sabbia arresta la mortale discesa: la pressione dell’acqua, tuttavia, fa cedere rivetti e parte della tubolatura, provocando l’apertura di falle e di vie d’acqua che inondano rapidamente il sommergibile.

Una scena del film

In una corsa contro il tempo, con sempre meno ossigeno e forze residue, l’equipaggio riesce strenuamente a chiudere le falle e, grazie all’ingegno del direttore di macchina, a riparare gli impianti danneggiati, rimettendo il sommergibile in condizione di emergere: dopo oltre 24 ore e senza quasi più ossigeno, l’U-96 riesce a tornare in superficie.

Il comandante rinuncia ad attraversare lo stretto e dà ordine di rientrare alla base, ma il destino sarà implacabile.

Il direttore di macchina (Wennemann), il comandante (Prochnow) e il tenente Werner (Grönemeyer) in una scena del film

Un film di guerra antimilitarista, un film tedesco antinazista

A parte il primo guardiamarina, giovane ufficiale e fervente nazista, l’equipaggio dell’U-96 è apolitico o, come nel caso del comandante, apertamente antinazista. Lo storico Michael Gannon conferma che nel 1941, anno in cui è ambientato il film, gli U-Boot erano uno dei rami meno filo-nazisti nelle forze armate tedesche. Nel suo libro Iron Coffins (Bare di ferro), l’ex comandante di U-Boot Herbert A. Werner sottolinea che la selezione del personale navale in base alla lealtà al partito durante la guerra avvenne solo dal 1943 in poi, quando gli U-Boot stavano subendo ingenti perdite, il morale dei soldati era ai minimi termini e iniziava a serpeggiare un crescente scetticismo verso il Führer e l’Alto Comando.

Una scena del film

L’originalità di U-Boot 96 è spiazzante fin dal soggetto: la vita all’interno di un sommergibile durante la Seconda Guerra Mondiale raccontata dal punto di vista dei soldati tedeschi, mostrati per la prima volta come esseri umani dotati di sentimenti e ingegno e non come fanatici sanguinari. Una prospettiva del tutto nuova per l’epoca: in un’industria cinematografica dominata dal colosso statunitense, la pellicola di produzione tedesca stravolse i canoni del cinema di guerra. Un’impresa titanica ed estremamente rischiosa, che richiese una maniacale attenzione ai particolari: la minima ambiguità avrebbe facilmente attirato accuse di revisionismo.

I protagonisti non vengono dipinti come eroi: sono semplicemente soldati chiamati ad affrontare paure e insidie in un contesto così estremo e claustrofobico, dove all’angosciosa frenesia delle battaglie fanno da contraltare i lunghi periodi di inattività. È questa la vera forza del film: la costante tensione e il notevole realismo catapultano lo spettatore a bordo e generano una potentissima empatia verso i personaggi, arrivando a rendere imprevedibile un epilogo in fondo annunciato.

Una scena del film

Curiosità

La realizzazione del film durò due anni, dal 1979 al 1981. Le scene all’interno del sommergibile furono girate tutte di seguito, per rendere l’aspetto degli attori il più realistico possibile: il caratteristico pallore di chi ha vissuto al chiuso per lunghi periodi, la barba e i capelli incolti, i vestiti sporchi e sdruciti. Agli attori fu inoltre impartita una formazione sul campo per imparare a muoversi rapidamente negli angusti spazi del sommergibile, senza inciampare o scontrarsi con i compagni, così da limitare al massimo incidenti ed eventuali interruzioni.

Gli ufficiali dell’U-Boot 96 in una scena del film

Non disponendo la produzione delle attrezzature all’avanguardia usate dal cinema hollywoodiano, nelle scene in cui i personaggi dovevano essere bagnati l’acqua non era riscaldata e gli attori tremavano realmente per il freddo.

Ogni dettaglio, dalle divise alle apparecchiature, dalle armi alle suppellettili, è storicamente accurato. Per riprodurre l’U-96 furono realizzati due modelli a grandezza naturale di un vero U-Boot Tipo VII-C: un sommergibile motorizzato e vuoto per gli esterni in mare e un tubo provvisto di tutti gli interni; quest’ultimo era montato su un simulatore di navigazione azionato da attuatori idraulici in modo da ricreare rollio e beccheggio, insieme agli scossoni prodotti dalle bombe di profondità.

Interni del modello: tavolo del timoniere (in alto a sinistra), camera di manovra (in alto a destra), sala siluri (in basso a destra), sala macchine (in basso a sinistra)

Il modello usato per le scene in emersione venne prestato a Steven Spielberg per I predatori dell’arca perduta, le cui riprese erano iniziate in quel periodo, e fu restituito in pessime condizioni, tanto da allarmare la produzione sulla sua effettiva capacità di galleggiare nelle ultime scene ancora da girare.

Un modello della torretta del vero U-96 con il celebre logo del pesce sega ghignante fu realizzato per gli esterni che non richiedevano la ripresa dell’intero scafo. La torretta fu posizionata in una piscina nei Bavaria Studios di Monaco: per simulare le onde venivano lanciati getti d’acqua.

In alto, l’U-995 (un U-Boot Tipo VII-C) in esposizione al Memoriale navale di Laboe; in basso il modello della torretta esposto ai Bavaria Studios di Monaco

U-Boot 96 fu la prima parte di rilievo per l’attore Jürgen Prochnow (il comandante), che da quel momento divenne uno dei caratteristi più richiesti a livello internazionale (Dune, Un’arida stagione bianca, Robin Hood – La leggenda, Il paziente inglese), recitando spesso in ruoli di villain autoritari, crudeli e sadici.

Jürgen Prochnow in U-Boot 96

Herbert Grönemeyer (il tenente Werner) è uno dei più popolari cantautori tedeschi: dal 1984 tutti i suoi album si sono posizionati al primo posto nelle classifiche nazionali e i suoi album Mensch e 4630 Bochum sono ancora oggi il primo e il terzo album più venduti di sempre in Germania.

Herbert Grönemeyer in U-Boot 96

Nel 1997 la pellicola è stata distribuita in una versione Director’s cut di 209 minuti che, rispetto alla versione cinematografica del 1981 (149 minuti), risulta essere molto più completa senza appesantire la narrazione. Poiché l’audio originale era andato perduto, furono richiamati gli attori originali che, dopo sedici anni, ridoppiarono l’intera pellicola. In modo simile fu ricreata l’imponente colonna sonora, a partire dalla registrazione originale conservata dal compositore Klaus Doldinger: l’audio su più canali consentì la distribuzione del film in Dolby Digital.

U-Boot 96 è considerato uno dei migliori film di guerra mai realizzati: un thriller mozzafiato dal realismo quasi documentaristico, intelligente e anticonformista. Acclamato dalla critica, ottenne 6 nomination ai premi Oscar (regia, sceneggiatura non originale, fotografia, montaggio, sonoro e montaggio sonoro), attuale record per una pellicola tedesca, ma non riuscì a conquistare neppure una statuetta. Il film ebbe inoltre uno straordinario successo di pubblico, specialmente in Germania e negli Stati Uniti: a fronte di un budget iniziale di 32 milioni di marchi (tuttora una delle produzioni tedesche più costose di sempre), incassò quasi 85 milioni di dollari in tutto il mondo. Due anni dopo, un’altra pellicola diretta da Wolfgang Petersen avrebbe raggiunto i 100 milioni di dollari di incassi: La storia infinita, il film tedesco più costoso del dopoguerra (60 milioni di marchi).

Sul set di U-Boot 96 (da destra a sinistra): l’attore Jürgen Prochnow, il regista Wolfgang Petersen, l’autore del romanzo Lothar-Günther Buchheim e il direttore della fotografia Jost Vacano

Concorrenza sleale (Ettore Scola, 2001)

Concorrenza sleale è un film del 2001 diretto da Ettore Scola e interpretato da Diego Abatantuono, Sergio Castellitto, Gérard Depardieu, Elio Germano, Sabrina Impacciatore, Jean-Claude Brialy e Claudio Bigagli.

A Roma, nel 1938, due commercianti di stoffa si fanno una concorrenza agguerrita: l’elegante boutique di Umberto Melchiorri (Diego Abatantuono), originario di Milano, realizza abiti su misura; il vivace negozio di Leone Della Rocca (Sergio Castellitto), ebreo romano, vende capi confezionati. I due cercano continuamente nuove strategie per attrarre i clienti, non sempre corrette, e spesso si azzuffano per futili motivi.

All’astio tra i capifamiglia fanno da contraltare la grande amicizia dei figli più piccoli, Pietro e Lele, e la storia d’amore tra i figli maggiori, Paolo (Elio Germano) e Susanna.

Il rapporto tra Umberto e Leone, giunto ormai ai limiti dell’odio personale, cambia radicalmente con la proclamazione delle leggi razziali: Umberto, non condividendone i principi e vedendo Leone ingiustamente maltrattato, inizia a guardare il rivale sotto una luce diversa.

Diego Abatantuono, Sergio Castellitto e Jean-Claude Brialy in Concorrenza sleale

Il cinema ha spesso fornito un contributo divulgativo essenziale sull’Olocausto, producendo capolavori senza tempo entrati ormai nell’immaginario collettivo. In Concorrenza sleale, Ettore Scola riesce a esprimere un punto di vista originale e sincero sull’argomento, senza mai ricadere nel lacrimevole: proprio laddove l’antipatia e il disprezzo personale sono più tangibili, non c’è nessun odio razziale. Anzi, dal nulla affiorano solidarietà, comprensione, rispetto, perché nemmeno l’odio pregresso può giustificare quello razziale.

La narrazione seguita da prospettive diverse (i bambini, i ragazzi, gli adulti) e la lente d’ingrandimento sui singoli rapporti umani generano nello spettatore una straordinaria empatia, una profonda condivisione dei sentimenti vissuti dai protagonisti. Il tono del film cambia all’improvviso da commedia a dramma, una sensazione spiazzante che rispecchia con accuratezza la triste realtà dei fatti: di fronte alla disumanità delle persecuzioni razziali, preoccupazioni e decisioni della vita di ogni giorno perdono di significato in un attimo.

Non può mancare il fiero e irriducibile antifascismo di Scola, affidato con un geniale tocco di classe ai personaggi secondari: il professor Angelo Melchiorri (Gérard Depardieu), fratello di Umberto, l’orologiaio, la moglie e il cognato di Umberto, la commessa della boutique (Sabrina Impacciatore), l’ispettore di polizia (Claudio Bigagli). Ognuno di loro rappresenta una diversa sfumatura della stigmatizzazione del fascismo, messo più volte alla berlina con quella sublime punta di comicità amara tipica di uno dei maestri della commedia all’italiana.

Ettore Scola

La scelta degli attori è perfetta, i ruoli estremamente calzanti: Diego Abatantuono torna a indossare i panni dell’altero ma bonario uomo del nord, ruolo in cui si è più volte esaltato sotto la direzione di Gabriele Salvatores e Pupi Avati, mentre la parte del simpatico e ingegnoso trafficone è scritta su misura per Sergio Castellitto; da segnalare una delle prime interpretazioni di rilievo di un giovanissimo Elio Germano.

La fotografia e la scenografia (premiata con il David di Donatello) ricreano in maniera fedele e suggestiva la realtà dell’epoca, tanto che alcune inquadrature sembrano dei dipinti. Alcuni set del film, girato interamente negli studi di Cinecittà, verranno poi riutilizzati l’anno successivo da Martin Scorsese per il suo Gangs of New York (2002).

Daniel Day-Lewis in Gangs of New York

Il cinema e le leggi razziali

L’ambientazione storica nell’Italia del biennio 1938-39 lega indissolubilmente Concorrenza sleale a capolavori del cinema italiano come Una giornata particolare, Il giardino dei Finzi Contini e La vita è bella, fervide e lucide testimonianze cinematografiche di uno dei capitoli più bui e infamanti della storia italiana: la proclamazione delle leggi razziali fasciste poco dopo la visita di Hitler in Italia, in un clima di esaltazione rasente la follia.

Una giornata particolare è un film del 1977 diretto dallo stesso Ettore Scola: il 6 maggio 1938, giorno in cui Adolf Hitler è in visita a Roma, in un casermone popolare della Capitale si intrecciano per qualche ora le vite di Antonietta (Sofia Loren), casalinga ignorante e madre di sei figli sposata con un fervente fascista, e Gabriele (Marcello Mastroianni), intellettuale ex radiocronista dell’EIAR (Ente Italiano per le Audizioni Radiofoniche), omosessuale e destinato al confino.

Dall’incontro di due anime infelici in quella giornata particolare emerge il dramma celato dalla normalità: l’amarezza di una donna esclusa da tutto ciò che la circonda, relegata alla servile routine giornaliera incoraggiata dal sistema; il tormento di un diverso, perseguito per le proprie opinioni e per il proprio orientamento sessuale non conformi con quanto imposto dall’ottusa ideologia fascista.

Sofia Loren e Marcello Mastroianni in Una giornata particolare

Il giardino dei Finzi Contini (1970), diretto da Vittorio De Sica e tratto dall’omonimo romanzo di Giorgio Bassani, è una delle pellicole più significative del XX secolo, premiata con l’Orso d’oro al Festival di Berlino e con l’Oscar per il miglior film straniero. Nella Ferrara del 1938, i Finzi Contini sono una facoltosa famiglia ebrea appartenente all’alta borghesia: il nucleo familiare è composto dal professor Ermanno, sua moglie Olga, i figli Micòl (Dominique Sanda) e Alberto (Helmut Berger) e la nonna Regina.

La promulgazione delle leggi razziali stravolge la vita della comunità ebraica. Quando Giorgio (Lino Capolicchio), ebreo amico di famiglia da sempre innamorato di Micòl, viene espulso dal circolo del tennis, i Finzi Contini consentono a lui e all’amico Giampiero Malnate (Fabio Testi), milanese comunista, di frequentare il campo da tennis all’interno del maestoso giardino della propria villa. Le frustrazioni e le umiliazioni perpetrate dalla crescente discriminazione razziale, cui fa da sfondo il tormentato rapporto tra Giorgio e Micòl, seguono l’inesorabile precipitare degli eventi, fino al tragico epilogo.

Lino Capolicchio e Dominique Sanda ne Il giardino dei Finzi Contini

La vita è bella (1997), diretto e interpretato da Roberto Benigni e vincitore di tre Premi Oscar (miglior film straniero, miglior attore protagonista a Benigni e miglior colonna sonora a Nicola Piovani), è diventato una vera e propria icona del cinema italiano nel mondo. Nel 1939 Guido Orefice (Benigni), ebreo di indole allegra e giocosa, giunge ad Arezzo per lavorare come cameriere nell’hotel in cui suo zio è maître e si innamora, ricambiato, di Dora (Nicoletta Braschi), una maestra elementare. Guido e Dora si sposano e dal loro amore nasce Giosuè.

Nel 1944 l’antisemitismo, cresciuto a dismisura negli anni, è ormai diventato persecuzione: gli ebrei sono trattati come appestati, le loro attività vengono boicottate, la libreria che ha aperto Guido è quasi sempre deserta. In questo contesto, Guido cerca di proteggere il figlio (Giorgio Cantarini) dalla crudeltà che lo circonda, trovando sempre un modo nuovo di scherzarci su (celeberrimo il dialogo tra i due originato dal cartello Vietato l’ingresso agli ebrei e ai cani esposto da un negozio). Poco tempo dopo, l’apice del dramma: Guido e la sua famiglia vengono deportati in un lager, ove Guido cercherà di salvare il figlio dagli orrori dell’Olocausto, facendogli credere che sia tutto parte di un gioco basato su prove durissime in vista di uno straordinario premio finale.

Roberto Benigni, Nicoletta Braschi e Giorgio Cantarini ne La vita è bella

La visione sequenziale delle quattro pellicole rispecchia idealmente il reale ordine cronologico degli eventi: se Una giornata particolare fa da preludio alla surreale tragedia che sta per consumarsi nella quotidianità del miope popolo italiano, Concorrenza sleale e Il giardino dei Finzi Contini descrivono accuratamente l’evoluzione e gli effetti della discriminazione razziale conseguente alla proclamazione delle leggi fasciste, mentre La vita è bella chiude il capitolo raggiungendo il proprio culmine nelle atrocità dei campi di concentramento.

Un particolare e potentissimo filo conduttore unisce i film: il risentimento improvviso e ingiustificato verso il proprio simile, la crudele e grottesca atmosfera di impotenza e vessazione che inizia a pervadere la vita delle persone di diversa razza, religione o orientamento sessuale.

Un contesto reso immortale da un noto componimento spesso erroneamente attribuito a Bertolt Brecht, un sermone del pastore Martin Niemöller contro l’apatia degli intellettuali tedeschi in seguito all’ascesa del nazismo e all’epurazione dei suoi obiettivi gruppo dopo gruppo: Prima vennero…

Prima di tutto vennero a prendere gli zingari, e fui contento, perché rubacchiavano.
Poi vennero a prendere gli ebrei, e stetti zitto, perché mi stavano antipatici.
Poi vennero a prendere gli omosessuali, e fui sollevato, perché mi erano fastidiosi.
Poi vennero a prendere i comunisti, e io non dissi niente, perché non ero comunista.
Un giorno vennero a prendere me, e non c’era rimasto nessuno a protestare.

(Martin Niemöller)