U-Boot 96 (Wolfgang Petersen, 1981)

Eine Reise ans Ende des Verstandes”
“Un viaggio ai limiti della mente umana”

(Tagline del film)

U-Boot 96 (Das Boot) è un film di guerra tedesco del 1981 scritto e diretto da Wolfgang Petersen e interpretato da Jürgen Prochnow, Herbert Grönemeyer e Klaus Wennemann.

La pellicola è incentrata sull’U-96, un sommergibile della Marina militare tedesca (Kriegsmarine) in servizio durante la Seconda Guerra Mondiale (U-Boot è l’abbreviazione di Unterseeboot, letteralmente battello sottomarino) ed è tratta dall’omonimo romanzo di Lothar-Günther Buchheim Das Boot, pubblicato nel 1973 ed edito in Italia come U-Boot.

L’U-96 in una scena del film

La narrazione è immaginaria, ma si basa su episodi realmente accaduti al vero U-96: Buchheim, autore del romanzo, era salito a bordo del sommergibile nel 1941 come corrispondente di guerra per fotografare e descrivere un U-Boot in azione per scopi di propaganda; Heinrich Lehmann-Willenbrock, comandante dell’U-96 e sesto comandante tedesco per tonnellaggio nemico affondato (179125 tonnellate) nella Battaglia dell’Atlantico contro gli Alleati, fece da consulente alla regia insieme a Hans-Joachim Krug, comandante in seconda dell’U-219.

Il vero U-96 e il comandante Lehmann-Willenbrock

Nell’ottobre 1941, il tenente Werner si imbarca a La Rochelle come corrispondente di guerra a bordo del sommergibile tedesco U-96, in procinto di salpare per l’Atlantico a caccia di navi nemiche. L’U-96 ha come ufficiali più alti in grado l’autorevole comandante, soprannominato Der Alte (Il vecchio), e il valente direttore di macchina.

Werner entra rapidamente a contatto con le dure condizioni di vita all’interno del sommergibile, segnate da snervanti attese, sporcizia e promiscuità, che minano costantemente il morale dell’equipaggio.

Il comandante e il tenente Werner in una scena del film

Dopo giorni di navigazione viene segnalata la presenza di un convoglio Alleato e il comandante si lancia all’attacco, ma una fitta nebbia ribalta inaspettatamente lo scenario: l’U-96 viene individuato e bombardato da un cacciatorpediniere (una nave da guerra progettata appositamente per attaccare i sommergibili, equipaggiata con sonar e cariche di profondità) e da cacciatore diventa preda, riuscendo comunque ad allontanarsi.

La disillusione del comandante, diffidente riguardo all’attendibilità degli ordini ricevuti, trova conferma quando l’U-96 si imbatte in un’unità amica: un incontro così improbabile nell’immensità dell’oceano induce a sospettare che uno dei due sommergibili sia stato inviato nel posto sbagliato, palese testimonianza della superficialità dell’Alto Comando sui reali obiettivi delle missioni.

Una notte l’U-96 avvista un convoglio nemico e attacca lanciando tre siluri, nonostante il chiarore della Luna lo renda facilmente distinguibile: i siluri raggiungono i bersagli, ma il sommergibile viene individuato da un caccia di scorta alle navi e bombardato per ore, riuscendo miracolosamente a salvarsi.

Una scena del film

Quando il rientro sembra ormai imminente, un inatteso ordine impone al sommergibile un ultimo incarico, che si rivela essere una missione suicida: dirigersi verso la base di La Spezia passando attraverso lo stretto di Gibilterra presidiato dalla flotta britannica.

Durante l’insidiosa traversata, l’U-96 viene centrato da una bomba e tenta la fuga immergendosi rapidamente: il colpo ricevuto ha però danneggiato gli strumenti per regolare l’immersione e l’assetto del sommergibile, che continua a scendere senza più controllo.

Raggiunta la profondità di 270 metri, ben oltre il livello di tenuta del natante, un banco di sabbia arresta la mortale discesa: la pressione dell’acqua, tuttavia, fa cedere rivetti e parte della tubolatura, provocando l’apertura di falle e di vie d’acqua che inondano rapidamente il sommergibile.

Una scena del film

In una corsa contro il tempo, con sempre meno ossigeno e forze residue, l’equipaggio riesce strenuamente a chiudere le falle e, grazie all’ingegno del direttore di macchina, a riparare gli impianti danneggiati, rimettendo il sommergibile in condizione di emergere: dopo oltre 24 ore e senza quasi più ossigeno, l’U-96 riesce a tornare in superficie.

Il comandante rinuncia ad attraversare lo stretto e dà ordine di rientrare alla base, ma il destino sarà implacabile.

Il direttore di macchina (Wennemann), il comandante (Prochnow) e il tenente Werner (Grönemeyer) in una scena del film

Un film di guerra antimilitarista, un film tedesco antinazista

A parte il primo guardiamarina, giovane ufficiale e fervente nazista, l’equipaggio dell’U-96 è apolitico o, come nel caso del comandante, apertamente antinazista. Lo storico Michael Gannon conferma che nel 1941, anno in cui è ambientato il film, gli U-Boot erano uno dei rami meno filo-nazisti nelle forze armate tedesche. Nel suo libro Iron Coffins (Bare di ferro), l’ex comandante di U-Boot Herbert A. Werner sottolinea che la selezione del personale navale in base alla lealtà al partito durante la guerra avvenne solo dal 1943 in poi, quando gli U-Boot stavano subendo ingenti perdite, il morale dei soldati era ai minimi termini e iniziava a serpeggiare un crescente scetticismo verso il Führer e l’Alto Comando.

Una scena del film

L’originalità di U-Boot 96 è spiazzante fin dal soggetto: la vita all’interno di un sommergibile durante la Seconda Guerra Mondiale raccontata dal punto di vista dei soldati tedeschi, mostrati per la prima volta come esseri umani dotati di sentimenti e ingegno e non come fanatici sanguinari. Una prospettiva del tutto nuova per l’epoca: in un’industria cinematografica dominata dal colosso statunitense, la pellicola di produzione tedesca stravolse i canoni del cinema di guerra. Un’impresa titanica ed estremamente rischiosa, che richiese una maniacale attenzione ai particolari: la minima ambiguità avrebbe facilmente attirato accuse di revisionismo.

I protagonisti non vengono dipinti come eroi: sono semplicemente soldati chiamati ad affrontare paure e insidie in un contesto così estremo e claustrofobico, dove all’angosciosa frenesia delle battaglie fanno da contraltare i lunghi periodi di inattività. È questa la vera forza del film: la costante tensione e il notevole realismo catapultano lo spettatore a bordo e generano una potentissima empatia verso i personaggi, arrivando a rendere imprevedibile un epilogo in fondo annunciato.

Una scena del film

Curiosità

La realizzazione del film durò due anni, dal 1979 al 1981. Le scene all’interno del sommergibile furono girate tutte di seguito, per rendere l’aspetto degli attori il più realistico possibile: il caratteristico pallore di chi ha vissuto al chiuso per lunghi periodi, la barba e i capelli incolti, i vestiti sporchi e sdruciti. Agli attori fu inoltre impartita una formazione sul campo per imparare a muoversi rapidamente negli angusti spazi del sommergibile, senza inciampare o scontrarsi con i compagni, così da limitare al massimo incidenti ed eventuali interruzioni.

Gli ufficiali dell’U-Boot 96 in una scena del film

Non disponendo la produzione delle attrezzature all’avanguardia usate dal cinema hollywoodiano, nelle scene in cui i personaggi dovevano essere bagnati l’acqua non era riscaldata e gli attori tremavano realmente per il freddo.

Ogni dettaglio, dalle divise alle apparecchiature, dalle armi alle suppellettili, è storicamente accurato. Per riprodurre l’U-96 furono realizzati due modelli a grandezza naturale di un vero U-Boot Tipo VII-C: un sommergibile motorizzato e vuoto per gli esterni in mare e un tubo provvisto di tutti gli interni; quest’ultimo era montato su un simulatore di navigazione azionato da attuatori idraulici in modo da ricreare rollio e beccheggio, insieme agli scossoni prodotti dalle bombe di profondità.

Interni del modello: tavolo del timoniere (in alto a sinistra), camera di manovra (in alto a destra), sala siluri (in basso a destra), sala macchine (in basso a sinistra)

Il modello usato per le scene in emersione venne prestato a Steven Spielberg per I predatori dell’arca perduta, le cui riprese erano iniziate in quel periodo, e fu restituito in pessime condizioni, tanto da allarmare la produzione sulla sua effettiva capacità di galleggiare nelle ultime scene ancora da girare.

Un modello della torretta del vero U-96 con il celebre logo del pesce sega ghignante fu realizzato per gli esterni che non richiedevano la ripresa dell’intero scafo. La torretta fu posizionata in una piscina nei Bavaria Studios di Monaco: per simulare le onde venivano lanciati getti d’acqua.

In alto, l’U-995 (un U-Boot Tipo VII-C) in esposizione al Memoriale navale di Laboe; in basso il modello della torretta esposto ai Bavaria Studios di Monaco

U-Boot 96 fu la prima parte di rilievo per l’attore Jürgen Prochnow (il comandante), che da quel momento divenne uno dei caratteristi più richiesti a livello internazionale (Dune, Un’arida stagione bianca, Robin Hood – La leggenda, Il paziente inglese), recitando spesso in ruoli di villain autoritari, crudeli e sadici.

Jürgen Prochnow in U-Boot 96

Herbert Grönemeyer (il tenente Werner) è uno dei più popolari cantautori tedeschi: dal 1984 tutti i suoi album si sono posizionati al primo posto nelle classifiche nazionali e i suoi album Mensch e 4630 Bochum sono ancora oggi il primo e il terzo album più venduti di sempre in Germania.

Herbert Grönemeyer in U-Boot 96

Nel 1997 la pellicola è stata distribuita in una versione Director’s cut di 209 minuti che, rispetto alla versione cinematografica del 1981 (149 minuti), risulta essere molto più completa senza appesantire la narrazione. Poiché l’audio originale era andato perduto, furono richiamati gli attori originali che, dopo sedici anni, ridoppiarono l’intera pellicola. In modo simile fu ricreata l’imponente colonna sonora, a partire dalla registrazione originale conservata dal compositore Klaus Doldinger: l’audio su più canali consentì la distribuzione del film in Dolby Digital.

U-Boot 96 è considerato uno dei migliori film di guerra mai realizzati: un thriller mozzafiato dal realismo quasi documentaristico, intelligente e anticonformista. Acclamato dalla critica, ottenne 6 nomination ai premi Oscar (regia, sceneggiatura non originale, fotografia, montaggio, sonoro e montaggio sonoro), attuale record per una pellicola tedesca, ma non riuscì a conquistare neppure una statuetta. Il film ebbe inoltre uno straordinario successo di pubblico, specialmente in Germania e negli Stati Uniti: a fronte di un budget iniziale di 32 milioni di marchi (tuttora una delle produzioni tedesche più costose di sempre), incassò quasi 85 milioni di dollari in tutto il mondo. Due anni dopo, un’altra pellicola diretta da Wolfgang Petersen avrebbe raggiunto i 100 milioni di dollari di incassi: La storia infinita, il film tedesco più costoso del dopoguerra (60 milioni di marchi).

Sul set di U-Boot 96 (da destra a sinistra): l’attore Jürgen Prochnow, il regista Wolfgang Petersen, l’autore del romanzo Lothar-Günther Buchheim e il direttore della fotografia Jost Vacano

Anastasia: origini di una leggenda

Anastasia è una commedia romantica del 1956 diretta da Anatole Litvak e interpretata da Ingrid Bergman, Yul Brynner, Helen Hayes e Akim Tamiroff.

A Parigi, nel 1928, il generale Bounine (Brynner) istruisce Anna Korev (Bergman), una giovane affetta da amnesia fuggita da un manicomio, sperando di farla passare per la granduchessa Anastasia, sopravvissuta secondo la leggenda all’eccidio della famiglia imperiale: l’obiettivo di Bounine è far riconoscere ufficialmente la donna da parenti e conoscenti sfruttando la notevole somiglianza fisica con la principessa e l’impossibilità di risalire alle sue vere origini, così da potersi impossessare del tesoro dei Romanov, custodito in una banca inglese.

Anastasia (1956)

Anna non solo riesce a recitare la parte alla perfezione ma, apparentemente grazie ai ricordi che ogni tanto riaffiorano nella sua mente, finisce col credere di essere davvero Anastasia. Dopo diversi tentativi la donna riesce a incontrare l’imperatrice madre Marija Fëdorovna (Hayes) che, dopo un’iniziale esitazione, riconosce in lei la nipote. Nel frattempo Bounine, innamoratosi di Anna, rinuncia a ogni pretesa sull’eredità: la donna, che ricambia i suoi sentimenti, dovrà quindi scegliere tra l’amore e i fasti della vita nobiliare.

A sinistra, il regista Anatole Litvak con Ingrid Bergman e Yul Brynner; a destra, i due attori in una scena del film

Anastasia fece guadagnare a Ingrid Bergman il suo secondo Oscar come miglior attrice, segnando il suo trionfale ritorno a Hollywood dopo gli anni di ostracismo a cui era stata sottoposta per la chiacchierata relazione con il regista Roberto Rossellini, iniziata nel 1950 durante le riprese di Stromboli (Terra di Dio) mentre entrambi erano sposati. La notizia della gravidanza della Bergman aveva suscitato grande scandalo nella bigotta e perbenista opinione pubblica americana: l’attrice dall’aspetto angelico era diventata improvvisamente “un’adultera da lapidare” e la stampa l’aveva definita “Hollywood’s apostle of degradation” (“apostolo della degradazione di Hollywood”), montando contro di lei una campagna denigratoria senza precedenti. Gli strascichi si erano protratti a tal punto da impedire alla Bergman di presenziare di persona alla cerimonia degli Oscar: la statuetta venne ritirata dal suo grande amico Cary Grant. Come la sua Anna Korev nel film, la Bergman rinacque in Anastasia.

Ingrid Bergman in Stromboli (Terra di Dio)

Il 1956 fu un anno trionfale anche per Yul Brynner, in quel momento all’apice della carriera: oltre al ruolo del generale Bounine in Anastasia, l’attore era reduce dal successo de Il re ed io di Walter Lang, per il quale era stato premiato con l’Oscar (Anastasia vanta quindi nel cast i due Premi Oscar come miglior attore e miglior attrice del 1957), e aveva offerto una memorabile interpretazione del faraone Ramesse II nel kolossal I dieci comandamenti di Cecil B. DeMille. Celebre per il capo rasato, divenuto un suo tratto caratteristico così come il suo sguardo penetrante, Brynner dava il meglio di sé nei ruoli esotico-orientali, esaltando le sue origini russe: in Anastasia (e nel successivo Karamazov di Richard Brooks del 1958) riemerge anche il suo passato di talentuoso chitarrista nei locali notturni parigini.

Yul Brynner alla cerimonia degli Oscar (in alto a sinistra), ne Il re ed io (in alto a destra), in Karamazov (in basso a destra), ne I dieci comandamenti (in basso a sinistra)

Nel 1997, la 20th Century Fox produsse il film d’animazione Anastasia, a sua volta basato sulla leggenda della principessa sopravvissuta. Inevitabilmente molto lontano dalla realtà storica, il cartone animato prende tuttavia spunto da un evento realmente accaduto: le celebrazioni per i trecento anni dall’insediamento della dinastia Romanov (l’anniversario fu nel 1913, non nel 1916 come riportato) erano state offuscate da oscuri presagi. Il monaco Grigorij Rasputin affermò che il potere dei Romanov sarebbe tramontato se fossero entrati in guerra e non sarebbe sopravvissuto due anni alla sua morte se alla base di questa ci fosse stato qualcuno dei membri della famiglia: due previsioni che si sarebbero avverate poco tempo dopo. Nel cartone animato, dietro la fine dei Romanov c’è proprio una maledizione di Rasputin, ma in realtà egli era già morto al momento dell’eccidio.

Anastasia (1997)

Vi sono diversi riferimenti alla vita del vero Rasputin: l’annegamento del monaco all’inizio del film rievoca l’ultimo atto dei suoi assassini, che lo gettarono nel fiume Neva dopo avergli sparato più volte, per essere sicuri di averlo eliminato; l’essere un non-morto che continua a vivere seppur ridotto a pezzi riprende le sue leggendarie capacità di sopravvivenza. Una delle maggiori inesattezze storiche è però proprio nella rappresentazione di Rasputin: la versione dell’uomo malvagio e assetato di potere è stata spesso sposata dai media (da citare Rasputin, il monaco folle del 1966 diretto da Don Sharp con Christopher Lee nei panni del protagonista), ma è basata sulle calunnie diffuse all’epoca dall’aristocrazia russa per diffamarlo. Molto probabilmente si trattava di un imbonitore che sfruttava la sua influenza sulla famiglia imperiale per il proprio tornaconto, non tanto diverso da altri santoni dell’epoca, e pertanto inviso alla casta nobiliare, invidiosa della sua posizione.

Christopher Lee in Rasputin, il monaco folle (1966)

La vicenda di Anna Anderson

Ma come mai proprio la granduchessa Anastasija Nikolaevna Romanova è divenuta leggenda?

Anastasija Nikolaevna Romanova

Il film Anastasia è incentrato sulla storia romanzata di Anna Anderson, il cui nome è utilizzato esplicitamente come pseudonimo della protagonista in una scena.

Ricoverata in un ospedale psichiatrico a Berlino nel febbraio 1920 in seguito a un tentativo di suicidio, Anna Anderson sostenne di essere la granduchessa Anastasija, quartogenita dello zar Nicola II Romanov. La notizia accese battaglie legali e giornalistiche tra detrattori e sostenitori della donna: su questi ultimi pesava il forte sospetto di interessi legati al recupero dell’ingente tesoro dei Romanov. Le dispute coinvolsero anche parenti e altri personaggi vicini alla famiglia dello zar, ma per anni non giunsero né conferme né smentite sulla reale identità della donna, non esistendo prove documentali dirette o evidenze fisiche inconfutabili. Tra l’altro la Anderson, affetta da seri disturbi psichici, si dimostrava tutt’altro che collaborativa.

Anna Anderson

La storia di Anna Anderson apparve da subito controversa. Alcuni sostenevano le sue pretese, suffragate da presunte coincidenze anatomiche (colore degli occhi, altezza e presenza di una piccola deformità ai piedi). I detrattori controbattevano che eventuali riconoscimenti da parte di parenti e conoscenti potevano essere facilmente influenzati dal desiderio di ritrovare viva la granduchessa. Inoltre, le somiglianze fisiche potevano essere comuni a più donne e la conoscenza della vita di corte era spiegata in dettaglio in molti libri e poteva dunque essere facilmente memorizzata anche nei particolari.

Sin dagli Anni ’20, molti personaggi di fantasia si sono ispirati alla vicenda di Anna Anderson. Nel 1953, l’autrice francese Marcelle Maurette scrisse Anastasia, una pièce basata su Anastasia, a Woman’s Fate as Mirror of the World Catastrophe della scrittrice tedesca Harriet von Rathlef e su La falsa Anastasia: storia di una presunta Gran Duchessa di Russia di Pierre Gilliard, precettore dei figli dello zar sopravvissuto al destino dei Romanov: la prima a sostegno della Anderson, il secondo tra i più strenui oppositori. È lo spettatore a decidere se credere o meno che la protagonista, Anna, sia davvero Anastasia. La commedia, con protagonista l’attrice Viveca Lindfors, fece il giro del mondo e riscosse tanto successo da essere riadattata in inglese da Guy Bolton per l’omonimo film del 1956.

A sinistra, la scrittrice Marcelle Maurette; a destra, le attrici Viveca Lindfors e Eugenie Leontovich nella pièce Anastasia

Anna Anderson sostenne di essere la granduchessa Anastasija fino alla sua morte, sopraggiunta nel 1984: solo nel 1994 le analisi del DNA confermarono che ella non poteva in alcun modo essere imparentata con la famiglia Romanov, ma che si trattava di Franziska Schanzkowski, una malata di mente di origine polacca scomparsa da un ospedale psichiatrico di Berlino nel 1919.

Ma cosa ha alimentato per quasi un secolo la leggenda di membri della famiglia imperiale russa sopravvissuti alla Rivoluzione?

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La storia dietro la leggenda

Nella Russia zarista di inizio ‘900 le drammatiche condizioni di vita spinsero la popolazione a manifestazioni di protesta sempre più frequenti e il tradizionale sistema di potere autocratico iniziò a mostrare le prime consistenti crepe, acuite dall’umiliante sconfitta nella guerra russo-giapponese (1904–1905).

Il 22 gennaio 1905, a San Pietroburgo, l’esercito imperiale represse nel sangue una manifestazione pacifica di operai e contadini, recatisi davanti al Palazzo d’Inverno per chiedere riforme allo zar Nicola II: la Domenica di sangue segnò l’inizio della Prima rivoluzione russa. I lavoratori, organizzatisi nei soviet, indissero uno sciopero nazionale e chiesero la proclamazione di una repubblica democratica. Un’ondata di rivolte paralizzò il Paese: tra queste, l’ammutinamento della corazzata Potëmkin, immortalato nell’indimenticabile capolavoro (1925) del cineasta sovietico Sergej Michajlovič Ėjzenštejn.

La corazzata Potëmkin (1925)

Sin dalla creazione dell’Impero russo, gli zar avevano sempre regnato come monarchi assoluti. Il 30 ottobre 1905, Nicola II firmò il Manifesto di ottobre, rinunciando al potere legislativo in favore di un parlamento elettivo, la Duma di Stato. Ben presto, però, essendo la Duma in costante disaccordo con lo zar, questi cambiò la legge elettorale concedendo il diritto di voto alle sole classi più abbienti. Il Paese ripiombò nel caos: per sedare scioperi e sommosse venne decretata la legge marziale.

Lo zar Nicola II Romanov era succeduto al padre Alessandro III, morto improvvisamente a 49 anni, nel 1894. Mancandogli una completa educazione al ruolo, si era attenuto alla linea politica paterna, rifiutando testardamente di comprendere una realtà del tutto diversa rispetto al passato. L’inesperienza, l’indolenza e il totale disinteresse per le questioni di carattere sociale resero lo zar facilmente influenzabile e sempre più impopolare: a ciò contribuì in maniera determinante sua moglie, la zarina Aleksandra Fëdorovna, oppressa dalla paura e dal senso di colpa per aver trasmesso l’emofilia all’unico figlio maschio ed erede, lo zarevic Aleksej, esposto al pericolo di forti emorragie per ogni minimo trauma. La costante preoccupazione per la precaria salute di Aleksej spinse la zarina verso un sempre più forte misticismo e la indusse ad affidarsi a santoni e presunti guaritori, il più importante dei quali divenne lo starec (mistico cristiano ortodosso) siberiano Grigorij Rasputin.

Rasputin riuscì più volte a salvare l’erede da gravi crisi, al punto da guadagnare la più completa fiducia della zarina, che col tempo arrivò a richiedere il suo parere anche in ambito politico e strategico, fino a diventare quasi del tutto dipendente dalla sua opinione. Nicola II e Aleksandra Fëdorovna ebbero cinque figli: le granduchesse Ol’ga, Tat’jana, Marija e Anastasija, e il granduca Aleksej. Il misticismo della zarina e la salute di Aleksej allontanarono sempre di più la famiglia imperiale dalla corte e dagli affari di Stato, alimentando le tensioni politiche e l’insofferenza di una popolazione già allo stremo.

La famiglia imperiale: in piedi, da sinistra, le granduchesse Tat’jana e Ol’ga; seduti, da sinistra, la granduchessa Marija, la zarina Aleksandra Fëdorovna, lo zarevic Aleksej, lo zar Nicola II, la granduchessa Anastasija

Nel 1914, la miccia decisiva: la Prima Guerra Mondiale. L’Impero russo entrò in guerra insieme alle altre potenze della Triplice Intesa contro gli Imperi centrali e, grazie alla numerosissima popolazione, fu in grado di schierare un esercito di gran lunga superiore alla totalità dei contingenti nemici riuniti. Ben presto, però, le carenze organizzative e la mancanza di rifornimenti e armamenti adeguati fecero emergere tutta l’arretratezza del sistema politico, economico e industriale russo: gli iniziali e irrilevanti successi lasciarono man mano spazio a pesanti sconfitte, finché l’esercito non fu costretto a ritirarsi per difendere i confini della stessa Russia.

Fanteria russa durante la Prima Guerra Mondiale

I disastri militari spinsero lo zar a prendere il comando diretto dell’esercito e a trasferirsi presso lo Stato Maggiore. La gestione del potere nella Capitale (rinominata Pietrogrado nel 1914 per volere dello zar) venne quindi lasciata alla zarina, già sospettata di essere filogermanica per le sue origini tedesche e in quel momento del tutto succube di Rasputin: il prestigio e la credibilità della famiglia imperiale subirono un colpo fatale. Al malumore delle truppe al fronte si aggiunse la sempre maggiore agitazione popolare, esacerbata dall’inflazione e dalla mancanza di generi alimentari e combustibili: scioperi e manifestazioni ripresero in molte città. Il 30 dicembre 1916, Rasputin venne assassinato in una congiura ordita da un gruppo di aristocratici nell’illusione di risollevare la reputazione dei Romanov, ma ormai era troppo tardi.

A sinistra, lo starec Grigorij Rasputin; a destra, una caricatura anonima di Rasputin con la coppia imperiale (1916).

L’8 marzo 1917 (23 febbraio secondo il calendario giuliano, allora vigente in Russia) a Pietrogrado il popolo insorse per la mancanza di viveri. Nel 1905, in una situazione simile, le truppe avevano sparato sui dimostranti, ma stavolta i soldati si unirono a loro: la Rivoluzione di febbraio rovesciò il regime zarista, costringendo Nicola II ad abdicare (15 marzo), e portò alla formazione di un governo provvisorio guidato da cadetti, menscevichi e socialisti rivoluzionari.

La Rivoluzione di febbraio consegnò tuttavia il potere a politici che intendevano continuare la guerra e che non avevano intenzione di cedere le proprietà personali: la situazione non appariva molto diversa alla maggioranza della popolazione. Sempre più persone iniziarono a seguire i bolscevichi, che si proponevano di trasferire tutto il potere ai soviet (i consigli dei delegati di operai, soldati e contadini) e di uscire immediatamente dal conflitto mondiale.

La notte tra il 6 e il 7 novembre 1917 (24 e 25 ottobre secondo il calendario giuliano) i bolscevichi occuparono i punti nevralgici della Capitale: la Rivoluzione di ottobre rovesciò il governo provvisorio e segnò la nascita della Repubblica Socialista Federativa Sovietica Russa. Il 3 marzo 1918 la Russia bolscevica firmò la pace di Brest-Litovsk con gli Imperi centrali, accettando di perdere Finlandia, Estonia, Lettonia, Lituania, Polonia, Bielorussia e Ucraina.

Soldati a Mosca durante la Rivoluzione di ottobre

Dopo l’abdicazione dello zar, la famiglia imperiale venne posta agli arresti domiciliari per poi essere trasferita a Ekaterinburg, nella regione degli Urali, e tenuta in isolamento a Casa Ipat’ev. Nel frattempo le forze contro-rivoluzionarie, sostenute dalle potenze straniere, si riorganizzarono e lanciarono l’attacco al potere bolscevico: fu l’inizio di una cruenta guerra civile che si sarebbe conclusa nel 1922 con la vittoria dell’Armata Rossa (bolscevichi) sull’Armata Bianca (contro-rivoluzionari) e che avrebbe portato alla nascita dell’Unione Sovietica.

L’avanzata dell’Armata Bianca nella regione degli Urali nelle prime fasi della guerra civile segnò un drammatico punto di svolta: i bolscevichi non volevano che i Romanov cadessero nelle mani dei contro-rivoluzionari, poiché qualsiasi membro della famiglia imperiale sarebbe potuto diventare un baluardo della resistenza ed essere considerato ancora il legittimo regnante di Russia da parte delle altre potenze europee. Fu quindi deciso di eliminare lo zar e la sua famiglia, che vennero fucilati il 17 luglio 1918 nello scantinato di Casa Ipat’ev. I corpi furono occultati nei boschi presso Ekaterinburg. La vita dell’ultimo zar di Russia è raccontata nel film Nicola e Alessandra di Franklin J. Schaffner (1971).

Una scena del film Nicola e Alessandra (1971)

Due giorni dopo l’eccidio, il giornale locale di Ekaterinburg annunciò che “lo zar era stato giustiziato mediante plotone d’esecuzione” e che “la sua famiglia era stata portata in un posto sicuro“. Il 20 luglio venne diramato alla popolazione il comunicato ufficiale dell’avvenuta esecuzione. I bolscevichi si limitarono quindi ad annunciare alla stampa la morte di Nicola II, mentendo sulla sorte degli altri membri della famiglia.

Il 25 luglio l’Armata Bianca conquistò Ekaterinburg e iniziò le indagini sull’esecuzione e le ricerche dei corpi della famiglia imperiale, non riuscendo però a individuare il luogo della sepoltura: il rapporto Sokolov (dal nome dell’investigatore incaricato) riunì fotografie e testimonianze raccolte durante l’inchiesta e, fino al 1989, sarebbe stato l’unico resoconto ufficiale sulla vicenda. Il rapporto scatenò sdegno in tutto il mondo e fu bandito dalle autorità bolsceviche, che furono tuttavia costrette ad ammettere l’esecuzione dei familiari dello zar. L’assoluto silenzio imposto dal regime sulla sorte dei Romanov fece nascere da subito fantasie su possibili sopravvissuti all’eccidio di Ekaterinburg: fin dal 1919 iniziarono a comparire frotte di impostori che sostenevano di essere legittimi figli dello zar.

Il luogo di sepoltura dei Romanov venne scoperto nel 1979 dal ricercatore amatoriale Aleksandr Avdonin e dal regista Gelij Rjabov, dopo anni di studi e ricerche sul campo. I due recuperarono tre teschi, ma nessun laboratorio accettò di esaminarli e, preoccupati dalle conseguenze della scoperta, decisero di riseppellirli. La nuova attitudine all’apertura e alla trasparenza (glasnost’) predicata dal presidente Michail Gorbačëv spinse Rjabov a rivelare la sua scoperta al giornale The Moscow News il 10 aprile 1989. Nel 1991 i corpi di cinque membri della famiglia imperiale (lo zar, la zarina e tre delle loro figlie) furono riesumati e sottoposti a indagini forensi e identificazione del DNA, che ne confermarono le identità. La mancanza di due corpi, presumibilmente Aleksej e una tra Marija e Anastasija, diede nuova linfa alla leggenda che qualcuno dei Romanov si fosse misteriosamente salvato.

Il 29 luglio 2007, un gruppo di ricercatori amatoriali trovò una piccola tomba non lontana dal sito dove erano stati scoperti gli altri corpi, contenente i resti di due ragazzi. Il 30 aprile 2008, in seguito alla pubblicazione dei test del DNA, vennero definitivamente identificati i corpi della granduchessa Marija e dello zarevic Aleksej. Lo stesso giorno le autorità russe comunicarono ufficialmente che l’intera famiglia imperiale era stata identificata.

I guerrieri della notte (Walter Hill, 1979)

I guerrieri della notte (The Warriors) è un film del 1979 diretto da Walter Hill e tratto dall’omonimo romanzo di Sol Yurick.

La sera del 13 luglio 1979 tutte le più importanti bande giovanili di New York vengono invitate a un raduno nel Bronx organizzato da Cyrus, carismatico leader dei Riffs, la più grande e potente gang della città. Viene quindi proclamata una tregua tra le bande, ognuna delle quali può partecipare al raduno con una delegazione disarmata di nove membri.

Cyrus (Roger Hill)

Cyrus propone di unire tutte le forze disponibili per assumere il controllo di ogni quartiere, sfruttando la preponderanza numerica sulla polizia, ma viene assassinato da Luther, psicopatico capo dei Rogues. Luther viene visto da uno dei Guerrieri (Warriors), una banda di Coney Island, e nella confusione che si genera fa ricadere la colpa sul loro leader, Cleon, che viene aggredito e probabilmente ucciso per ritorsione.

Senza il loro capo, gli otto Guerrieri rimasti (Swan, Ajax, Vermin, Cochise, Fox, Rembrandt, Snow e Cowboy) devono riattraversare la metropoli di notte fino a casa, dal Bronx (nord di Manhattan) a Coney Island (sud di Brooklyn), braccati da tutte le altre gang e inseguiti dalla polizia.

I Guerrieri (The Warriors)

Secondo il Morandini: “La dinamica geometria della loro attraversata assomiglia a quella di una partita di baseball dove i treni della metropolitana sono le basi. Superbo frutto dell’iperrealismo, è un film fantastico che ha la tensione visionaria di un incubo da droga, la struttura narrativa di un film di guerra e le cadenze, l’artificiosità di un cartoon, l’eleganza grafica e la coreografia di un musical.”

I Guerrieri (The Warriors)

All’uscita del film, nel 1979, New York era nel pieno di una grave crisi economica, profondamente segnata da disoccupazione, povertà e crimine. I massicci licenziamenti tra le forze dell’ordine generarono un’ondata di violenza e degrado nell’intera metropoli che trasformò le periferie in scenari apocalittici. Molti turisti furono accolti all’aeroporto con macabri volantini distribuiti da ex poliziotti disoccupati in aperta polemica con il governo, che consigliavano loro di non uscire di sera e di evitare la metropolitana e i quartieri malfamati.

Uno dei volantini distribuiti ai turisti

Questo clima di paura e rabbia influenzò notevolmente il cinema, che si spinse sempre più verso il crudo realismo, specchio di una società sordida e malsana, producendo pellicole che spesso non venivano comprese fino in fondo, né tantomeno accettate.

I guerrieri della notte venne massacrato dalla critica: Roger Ebert lo definì “un balletto di violenza maschile stilizzata”, un’opera manieristica con personaggi e dialoghi poco credibili ben lontana dal film d’azione tanto reclamizzato dagli slogan promozionali. Le recensioni negative non impedirono tuttavia al film di piazzarsi in cima alla top ten dei film più visti, incassando 3,5 milioni di dollari solo nel primo week-end.

I Guerrieri (The Warriors)

L’originale punto di vista sulle bande di strada fu oggetto delle critiche più feroci, ma secondo il regista Walter Hill fu anche uno dei principali motivi dello straordinario successo del film: “Per la prima volta qualcuno aveva fatto un film all’interno di Hollywood, della grande distribuzione, che parlava della situazione delle gang senza presentarla come un problema sociale, ma presentando aspetti neutrali o positivi nelle vite dei membri.”

Vermin, Cochise e Ajax in una scena del film

Dopo l’incredibile impatto mediatico iniziarono però a verificarsi incidenti in diverse sale in cui il film fu proiettato, tra cui atti vandalici e aggressioni, che causarono tre vittime: la pellicola sembrava inoltre attirare veri membri di gang rivali.

La casa produttrice decise di ridimensionare la promozione del film, si offrì di contribuire alle spese per potenziare la sicurezza di alcune sale e sollevò i cinema dagli obblighi contrattuali, lasciandoli liberi di non proiettare più la pellicola.

Il manifesto originale del film, accusato di enfatizzare la violenza delle bande di strada, fu ritirato per non intimorire il pubblico.

Il manifesto originale del film

Benché non ci sia spargimento di sangue né visibili conseguenze fisiche anche negli scontri più duri, I guerrieri della notte subì una severissima campagna contro la violenza al cinema, che non gli impedì tuttavia di incassare oltre 22 milioni di dollari, triplicando il budget speso per realizzarlo.

In breve tempo, il film è diventato un cult assoluto, autentica e coinvolgente testimonianza di una New York che non c’è più.

La ruota panoramica di Coney Island, uno dei simboli del film

L’Antica Grecia
Il romanzo da cui è tratto il film si ispira all’Anabasi, opera autobiografica dello storico greco Senofonte risalente al IV secolo a.C.
L’Anabasi narra della ritirata attraverso l’Impero persiano dei Diecimila, un’armata di mercenari ellenici di cui faceva parte lo stesso Senofonte.

Busto di Senofonte
(Bibliotheca Alexandrina)

I Diecimila erano stati assoldati da Ciro il Giovane (da cui prende il nome Cyrus, potente e rispettato leader dei Riffs di Gramercy Park) nel tentativo di usurpare il trono di Persia al fratello Artaserse II: la morte di Dario (404 a.C.), re di Persia e d’Egitto, aveva infatti scatenato la fratricida lotta di successione tra i due figli.

Durante la battaglia di Cunassa, nonostante la vittoria dei mercenari sul campo, Ciro il Giovane rimase ucciso e la sua morte privò di ogni senso la loro spedizione. Rimasti soli in pieno territorio nemico, i Greci decisero così di rientrare in patria, in un ripiegamento che si annunciava lunghissimo (circa 2800 km) e pieno di insidie.

I Diecimila durante la battaglia di Cunassa
(Jean-Adrien Guignet, Museo del Louvre)

I Diecimila rifiutarono di consegnare le armi al nemico, sostenendo che tale disonore non spettasse ai vincitori (nel film, i Guerrieri decidono con orgoglio di non abbandonare le proprie uniformi).

Fu allora proposta una tregua e venne proclamata la pace, ma il reale e vile intento dei Persiani era di eliminare i mercenari con ogni mezzo. Il satrapo Tissaferne, con cui essi avevano stipulato gli accordi, tentò quindi di provocarli più volte con l’inganno per giustificare un attacco contro di loro.

Il generale greco Clearco di Sparta, insieme ad alcuni suoi ufficiali, decise allora di dirimere le controversie andando a parlare con il satrapo nel suo accampamento: Tissaferne, dopo averli accolti amichevolmente, li fece catturare e uccidere tutti.

I Greci non si persero d’animo ed elessero dei nuovi capi, tra cui lo stesso Senofonte, riprendendo immediatamente la lunga ed estenuante ritirata, costantemente inseguiti e attaccati dai Persiani.

Dopo un anno e tre mesi (dal 401 al 399 a.C.) essi raggiunsero finalmente la costa del Mar Nero presso Trapezunte (Trebisonda): dalla sommità del monte Teche rividero per la prima volta il mare e accolsero l’ormai certa salvezza al celebre grido “Thálassa! Thálassa!” (“Mare! Mare!”).

Thálassa! Thálassa! (Mare! Mare!)
(Bernard Granville Baker)

Nel film, i Guerrieri devono compiere un’impresa analoga a quella dei Diecimila, costretti ad attraversare un territorio ostile basandosi solo sulle proprie forze, incalzati dalla polizia e dalle gang rivali.

Il loro fondatore e leader, Cleon (interpretato da Dorsey Wright), viene aggredito a tradimento e forse ucciso: il suo nome potrebbe sembrare un riferimento allo stratego ateniese Cleone, protagonista della Guerra del Peloponneso, ma il personaggio ricalca proprio il generale dei Diecimila Clearco, descritto nell’opera senofontiana come un comandante ideale, lucido nei momenti più difficili, severo e rispettato da tutti.

Cleon (Dorsey Wright)

Dopo la sua scomparsa, i Guerrieri eleggono Swan come loro capo e affrontano il difficile viaggio di ritorno a casa. Anche per loro, come per i Greci, la salvezza coinciderà con il raggiungimento del mare (la spiaggia di Coney Island): “When we see the ocean, we figure we’re home, we’re safe!” afferma Swan in una scena del film, citazione completamente stravolta dal doppiaggio italiano (“Coney Island è il nostro territorio e nessuno vi ha invitato, andatevene!”).

Il regista Walter Hill si è ispirato all’Anabasi anche per il film I guerrieri della palude silenziosa (Southern Comfort, 1981), in cui ripropone uno dei suoi schemi chiave: il leader del gruppo viene eliminato subito, costringendo gli altri a cavarsela da soli senza una figura di riferimento.

Keith Carradine e Powers Boothe ne I guerrieri della palude silenziosa

I guerrieri della notte contiene numerosi riferimenti ai miti greci e ai poemi omerici. Il più importante rimanda all’Odissea e coincide con il tema centrale del film: il viaggio di ritorno a casa.

Un’altra esplicita citazione del poema omerico è rappresentata dalle Lizzies, la gang tutta femminile che attende Vermin, Cochise e Rembrandt alla stazione di Union Square e li seduce nel tentativo di farli cadere in trappola ed ucciderli: una versione molto originale delle sirene.

Le Lizzies

Ajax, impulsivo e ribelle, aggressivo e violento, è il miglior combattente dei Guerrieri, esplicito riferimento all’eroe greco Aiace Telamonio cantato da Omero nell’Iliade. Ma l’accezione fortemente negativa del personaggio non può di certo ispirarsi al più valoroso condottiero acheo, secondo solo al cugino Achille ed emblema delle più alte virtù guerriere come forza, onore, coraggio, rispetto dei nemici, impegno e perseveranza.

Ajax (James Remar)

Un altro Aiace, anche lui protagonista del poema omerico, sembra piuttosto incarnare le peggiori attitudini del Guerriero: Aiace Oileo.

"Aiace, il migliore a far liti, senza buon senso, tu in tutto
resti inferiore agli Argivi, perché hai testa dura."
(Idomeneo, re di Creta. Omero, Iliade, libro XXIII, versi 483-484)

Celebre in tutta la Grecia per le abilità nel tiro con l’arco e nella corsa, ma anche per la sua rozzezza ed arroganza, Aiace Oileo fu tra i più valorosi guerrieri achei che combatterono a Troia, ma in battaglia si distinse soprattutto per l’efferata crudeltà e per la totale mancanza di pietà nei confronti del nemico. Durante la notte della presa di Troia usò violenza alla profetessa Cassandra profanando il tempio di Atena e scatenando quindi l’ira della dea, che punì tutti gli achei rendendo travagliato il loro ritorno in patria.

Nell’Odissea viene rivelato il suo tragico destino: nel tragitto verso casa, una tempesta fece affondare la sua nave. Poseidone lo salvò facendolo naufragare su uno scoglio, ma Aiace sfidò con arroganza gli dèi ad ucciderlo, gridando di essersi salvato solo grazie alle proprie forze: irato, il dio del mare affondò lo scoglio, facendolo annegare.

Ne I guerrieri della notte, Ajax pretende di essere nominato nuovo capo dopo la scomparsa di Cleon, ma è costretto ad accettare controvoglia la decisione del gruppo, che gli preferisce Swan; i suoi tentativi di molestie verso una donna, che si rivelerà poi una poliziotta in borghese, gli costeranno cari.

Per il ruolo di Ajax fu scelto James Remar: durante il provino, l’attore entrò talmente nella parte da sollevare il tavolo dietro cui erano seduti regista e produttori.

Ajax (James Remar)

Swan è il capoguerra: prende il comando dei Guerrieri dopo la morte di Cleon e li guida nel difficile ritorno a casa dimostrando orgoglio, lucidità e prontezza di riflessi. È a lui che, lungo il cammino, si unisce Mercy (Deborah Van Valkenburgh), che condivide la sua insofferenza alla vita di strada e la sua voglia di riscatto.

Il nome Swan (Cigno) trae probabilmente origine dal mito greco della nascita di Elena: la donna fatale fu generata dall’unione tra Leda, regina di Sparta, e Zeus, che aveva assunto la forma di un cigno. La scelta di Michael Beck per il ruolo di Swan fu del tutto casuale: il regista Walter Hill rimase impressionato dalla sua performance nel film Madman mentre stava valutando Sigourney Weaver per la parte della protagonista in Alien, pellicola di cui era co-produttore.

Swan (Michael Beck)

Le curiosità
Per il raduno delle gang nel Bronx all’inizio del film, il regista Walter Hill volle degli autentici membri di bande di strada tra la folla, controllati da poliziotti in borghese. Durante la scena nel cimitero di Brooklyn, per tenere al sicuro gli attori, la location venne chiusa con una recinzione. Alcuni collaboratori alla produzione ricevettero minacce di morte per via dell’esclusione di membri di gang locali nel cast: molti di questi arrivarono a sfidare gli attori a battersi, ma furono respinti dalla security.

Per proteggere i furgoni della produzione da eventuali furti e vandalismi vennero assoldati dei veri criminali, i membri di una banda chiamata Mongrels, a 500 dollari al giorno: ciò nonostante, durante una pausa una gang distrusse migliaia di dollari di attrezzatura.

Una delle gang rappresentate nel film aveva un look molto simile a quello di una vera banda di Coney Island dal nome ben poco rassicurante: The Homicides. Per l’incolumità del cast, la produzione vietò di andare in giro indossando gli abiti di scena, ma non tutti furono così rigorosi: le comparse interpreti dei Turnbull AC’s, temutissimi skinhead di Gun Hill (Bronx) che girano per la città a bordo di un furgone, si recavano in un fast food durante la pausa pranzo senza avere il tempo di togliersi i costumi. La loro presenza intimorì i gestori e terrorizzò i clienti del locale, convinti che si trattasse di una vera gang, fino a quando non si seppe che erano in corso le riprese del film.

I Turnbull AC’s

I Baseball Furies, la gang di Riverside Park dal volto dipinto equipaggiata con uniformi e mazze da baseball, sono un omaggio del regista alla propria passione per il baseball e per i Kiss, gruppo rock noto anche per il caratteristico make-up. I Baseball Furies si ispirano a una vera gang degli Anni ’70 legata al baseball, i Second Base. Nel film, questo riferimento è citato dalla speaker Dolly Bomba che aggiorna le altre bande sulla posizione dei Guerrieri: “I nostri amici sono in seconda base” è la delusa e provocatoria segnalazione del loro vittorioso scontro con i Baseball Furies.

Uno dei Baseball Furies

La famosa battuta “Warriors… come out to play!” (resa nel doppiaggio italiano con un improbabile: “Guerrieri… giochiamo a fare la guerra?”) cantilenata da Luther, il violento e disturbato capo dei Rogues di Hell’s Kitchen, fu improvvisata dall’attore David Patrick Kelly prendendo spunto dalle provocazioni subite da un vicino di casa quando era bambino.

Luther (David Patrick Kelly)

Le riprese furono piuttosto traumatiche per Deborah Van Valkenburgh, interprete di Mercy. Nella scena in cui lei e Fox (Thomas G. Waites) corrono inseguiti dai poliziotti all’interno della metropolitana, l’attrice si fratturò un polso. Da quel momento il suo personaggio compare con indosso un giubbotto, spiegando che serve a non farsi riconoscere dalla polizia: in realtà, fu utilizzato per coprire la fasciatura. In uno dei ciak della scena in cui Swan (Michael Beck) lancia una mazza da baseball verso un poliziotto, la Van Valkenburgh venne centrata in pieno viso e dovettero applicarle dei punti di sutura.

Mercy con il giubbotto e Swan mentre lancia la mazza da baseball

La prima sceneggiatura prevedeva una relazione sentimentale tra Mercy (Deborah Van Valkenburgh) e Fox (Thomas G. Waites), ma il regista Walter Hill si accorse presto che sul set Mercy aveva molta più intesa con Swan (Michael Beck): il copione fu dunque riscritto in modo da farli innamorare. Waites, che interpretava Fox, ebbe una violenta discussione con Hill per il cambio di programma: il suo personaggio venne fatto morire, lui fu licenziato dopo sole otto settimane di riprese e il suo nome non fu nemmeno inserito nei titoli di coda.

Mercy con Fox e Swan

Il titolo italiano I guerrieri della notte non rende giustizia all’originale The Warriors: sembrerebbe solo l’ennesimo azzardato tentativo di italianizzare per produrre fascino ed effetto a tutti i costi, in cui il bisogno di ulteriore creatività risulta forzato e ridondante. In realtà, a parziale giustificazione della decisione, non si poté procedere ad una semplice traduzione dall’originale poiché una scelta simile era stata fatta circa dieci anni prima per Kelly’s Heroes, film del 1970 diretto da Brian G. Hutton, il cui titolo italiano è proprio: I guerrieri.

Donald Sutherland, Clint Eastwood e Telly Savalas ne I guerrieri

La versione Director’s Cut, uscita nel 2005, introduce un elemento davvero notevole a livello visivo: i diversi capitoli del film vengono introdotti come pagine di fumetti. Walter Hill dovette a suo tempo rinunciarvi per motivi di budget. L’introduzione del Director’s Cut cita espressamente la battaglia di Cunassa e la storia dei Diecimila: come voce narrante, Hill avrebbe voluto Orson Welles.

Alcuni dei fumetti presenti nel Director’s Cut