L’ultima Marilyn

Nella storia del cinema esiste un prima e dopo Marilyn Monroe: l’attrice è stata una delle icone del XX secolo che più hanno influenzato l’immaginario collettivo rivoluzionando i canoni di moda e bellezza. Approfondendo la sua vita, non siamo sopraffatti solo dal suo fascino senza tempo e dalla sua sensualità, ma percepiamo la sua intima fragilità: quel barlume di umanità con il quale, a 60 anni dalla sua tragica scomparsa, è ancora in grado di instillare in noi ammiratori un profondo e irrazionale senso di colpa e rabbia per non essere riusciti a salvarla.

Marilyn Monroe fotografata da Alfred Eisenstaedt nel 1953

Se le circostanze della sua morte non sono mai state del tutto chiarite, il clamore e l’aura di mistero che hanno circondato l’evento hanno contribuito a diffondere speculazioni di ogni genere sulla sua tormentata esistenza: una polveriera di denaro, sesso e politica che ha coinvolto la famiglia Kennedy e che in tanti hanno cercato di insabbiare.

Non esiste ammiratore di Marilyn Monroe che non abbia sentito almeno una volta la necessità di ricostruire i suoi ultimi mesi di vita, non riuscendo ad accettare il suo destino né le controverse versioni delle autorità sulla sua fine senza darsi una personale e plausibile spiegazione: forse un ultimo tentativo di capire chi fosse e cosa provasse Marilyn in quel periodo per restituirne il ritratto più autentico possibile, come se ci sentissimo in debito con lei almeno della verità.

Testimonianze imprescindibili, così profondamente connesse alla sua sfera privata, le riprese degli ultimi due film in cui Marilyn ha recitato: Gli spostati (1961) e Something’s Got to Give (1962), rimasto incompiuto.

Marilyn Monroe fotografata da Baron nel 1954

Da Norma Jeane a Marilyn Monroe

Marilyn Monroe nacque come Norma Jeane Mortenson l’1 giugno 1926. Il cinema era già nel suo destino: sua madre, Gladys Pearl Monroe, lavorava come impiegata alla Consolidated Film Industries e aveva voluto darle i nomi delle attrici Norma Shearer e Jean Harlow.

Alla nascita di Norma Jeane, Gladys aveva già avuto due figli dal matrimonio con John Newton Baker, dal quale aveva poi divorziato, e si era separata dal secondo marito Martin Edward Mortenson, da cui Norma Jeane aveva preso il cognome. Norma Jeane non conobbe mai il proprio padre. Solo pochi mesi fa un test del DNA ne ha confermato l’identità in Charles Stanley Gifford, collega della madre che l’aveva lasciata non appena informato della gravidanza.

Gladys era mentalmente instabile e non in grado di prendersi cura finanziariamente di Norma Jeane: ricoverata in preda a esaurimento nervoso, le venne diagnosticata una schizofrenia paranoide e fu dichiarata incapace di intendere e di volere. Per tutta la vita, non seppe mai che la sua Norma Jeane era diventata Marilyn Monroe.

Gladys e Norma Jeane

Fin dall’infanzia, Norma Jeane fu mandata in orfanotrofio e data in affido a diverse famiglie, dove spesso subì abusi e molestie. Grace McKee, archivista di pellicole alla Columbia Pictures e migliore amica di sua madre, divenne la sua tutrice, avvicinandola al mondo del cinema e di Hollywood. Compiuti 16 anni, il 19 giugno 1942 Norma Jeane sposò James Dougherty, il figlio di un vicino: un matrimonio organizzato dalla sua tutrice per non farla tornare in orfanotrofio.

Nel 1944, in piena Seconda Guerra Mondiale, Dougherty si arruolò nella marina mercantile e Norma Jeane iniziò a lavorare da operaia alla Radioplane Company, inizialmente come impacchettatrice di paracadute e poi come addetta alla verniciatura delle fusoliere degli aerei. Nel 1945, il fotografo David Conover si recò presso lo stabilimento in cerca di ragazze che tenessero su il morale delle truppe al fronte per un servizio sulla rivista Yank e le scattò alcune foto, che riscossero un immediato successo, esortandola a intraprendere la carriera di modella.

Norma Jeane fotografata da David Conover nel 1945

Norma Jeane lasciò quindi la fabbrica e divenne una pin-up, comparendo in servizi fotografici su varie riviste. Le sue foto furono notate da Emmeline Snively, direttrice della Blu Book School of Charm and Modeling, una delle più importanti agenzie pubblicitarie di Hollywood. Snively cambiò per sempre il suo look: da allora, la rossa e riccia Norma Jeane avrebbe avuto capelli biondi e lisci.

Grazie ai servizi fotografici, nell’agosto 1946 Norma Jeane firmò con la 20th Century Fox il suo primo contratto cinematografico, della durata di sei mesi e con un compenso di 125 dollari a settimana. Nel settembre 1946 divorziò da Dougherty, contrario alla sua carriera. Ben Lyon, l’attore e dirigente della Fox che aveva organizzato il suo provino, le consigliò di cambiare nome: furono scelti il cognome da nubile di sua madre, Monroe, e il nome della stella di Broadway Marilyn Miller. Da quel momento Norma Jeane Mortenson divenne per tutti Marilyn Monroe.

Marilyn Monroe fotografata da Frank Powolny nel 1952

Come nasce una stella

Marilyn dedicò da subito il massimo impegno alle lezioni di recitazione, canto e danza, ma per più di tre anni rimbalzò tra la 20th Century Fox e la Columbia Pictures (dove i suoi capelli furono definitivamente tinti in biondo platino), accettando ruoli insignificanti e miseri contratti. La svolta arrivò solo nel 1950, quando riuscì a catturare l’attenzione di pubblico e critica con la sua interpretazione in Giungla d’asfalto (The Asphalt Jungle) di John Huston che lanciò, di fatto, la sua carriera cinematografica.

Marilyn in Giungla d’asfalto

Il 1953 proiettò Marilyn tra le star di Hollywood: le interpretazioni in Niagara, Gli uomini preferiscono le bionde (Gentlemen Prefer Blondes) e Come sposare un milionario (How to Marry a Millionaire) riscossero uno straordinario successo e consacrarono l’attrice come assoluto sex symbol. A dicembre comparve sulla copertina e nel paginone centrale del primo numero della rivista Playboy.

Marilyn sul set di Niagara

L’anno successivo, Marilyn raggiunse l’apice della popolarità. Il 14 gennaio 1954 sposò il campione di baseball Joe DiMaggio, ma il chiacchieratissimo matrimonio ebbe vita breve: la scena della gonna di Marilyn sollevata dallo spostamento d’aria della metropolitana in Quando la moglie è in vacanza (The Seven Year Itch) di Billy Wilder, che sarebbe divenuto uno dei maggiori successi della diva, inflisse il colpo di grazia a un’unione già scricchiolante per la feroce gelosia dello sportivo italoamericano. Marilyn e DiMaggio divorziarono il 27 ottobre dello stesso anno.

Un fotogramma della celebre scena di Quando la moglie è in vacanza

Il 29 giugno 1956 Marilyn sposò il drammaturgo Arthur Miller, celebre autore di opere come Il crogiuolo, Erano tutti miei figli e Morte di un commesso viaggiatore. I media non furono teneri con la coppia, sottolineando in ogni modo l’antitesi tra la sex symbol e il letterato. La rivista Variety titolò Egghead Weds Hourglass: nello slang statunitense, letteralmente, Testa d’uovo (intellettuale) sposa clessidra (donna tutte curve).

Marilyn e Arthur Miller

Marilyn aveva appena compiuto 30 anni e già affermava di odiare Hollywood e di desiderare una famiglia e una vita normale, lontana dai riflettori. La sua carriera iniziava a mostrare i segni di un precoce declino. Voleva un figlio, ma in diverse occasioni non riuscì a portare a termine la gravidanza, in parte a causa dell’endometriosi di cui soffriva. Rientrata dall’Inghilterra dopo aver girato Il principe e la ballerina (The Prince and the Showgirl, 1957), che fu un totale insuccesso, ebbe una gravidanza ectopica; l’anno successivo, poco dopo aver concluso le riprese di A qualcuno piace caldo (Some Like It Hot, 1958) ebbe un aborto spontaneo. Nella sua vita, Marilyn ebbe in totale almeno 12 aborti.

Marilyn e Laurence Olivier ne Il principe e la ballerina

A qualcuno piace caldo, diretto da Billy Wilder e co-interpretato da Jack Lemmon e Tony Curtis, ebbe un successo straordinario e fu acclamato da pubblico e critica: sembrava la scintilla ideale per rilanciare la carriera di Marilyn, che vinse il Golden Globe come miglior attrice in un film commedia o musicale. La produzione del film, però, fu estremamente travagliata: Marilyn dimenticava spesso il copione, non seguiva le direttive del regista e chiedeva di rigirare le scene dozzine di volte, al punto che Tony Curtis dichiarò che baciarla era come baciare Hitler. Il regista Billy Wilder, nonostante i leggendari litigi sul set, in seguito descrisse il film come il suo più grande successo e dichiarò che lavorare con Marilyn era così difficile perché era del tutto imprevedibile, definendola un genio assoluto come attrice comica.

Marilyn in A qualcuno piace caldo

Marilyn si prese una pausa fino alla fine del 1959, quando accettò di recitare in Facciamo l’amore (Let’s Make Love) di George Cukor per rispettare il contratto con la 20th Century Fox. Durante le riprese ebbe una breve relazione col co-protagonista Yves Montand, marito dell’attrice Simone Signoret. Marilyn smentì pubblicamente il flirt, ma la stampa lo reclamizzò al punto da renderlo parte della campagna pubblicitaria del film, che si rivelò comunque un flop.

In quel periodo Marilyn iniziò a vedere uno psichiatra, il dottor Ralph Greenson: soffriva di insonnia e ingeriva eccessive dosi di farmaci, dai quali stava sviluppando una forte dipendenza. Secondo Greenson, il suo stato era dovuto al deteriorarsi del rapporto con il marito, verso il quale era sempre più insofferente.

Marilyn e Yves Montand in Facciamo l’amore

Gli spostati

Gli spostati (The Misfits, 1961) di John Huston, sceneggiato da Arthur Miller e co-interpretato da Clark Gable, Eli Wallach e Montgomery Clift, è un’analisi del malessere nella società statunitense attraverso la storia di una piccola comunità di sbandati che si illudono di essere dei ribelli senza padrone.

A Reno (Nevada) per divorziare dal marito assente, la bella e vulnerabile Roslyn (Marilyn) stringe amicizia con Gay (Gable), cowboy di mezza età, Guido (Wallach), meccanico e aviatore, e Perce (Clift), cowboy da rodeo. I tre, turbando la sensibilità di Roslyn, vanno a caccia di cavalli selvaggi da vendere a peso per farne cibo per cani. Roslyn si innamora, ricambiata, di Gay, che libera in suo omaggio lo splendido stallone catturato e domato a prezzo di una lotta furiosa.

Marilyn tra Montgomery Clift e Clark Gable sul set de Gli spostati

Arthur Miller aveva scritto la sceneggiatura del film come regalo di San Valentino per Marilyn, con un ruolo creato appositamente per lei, ma pochi mesi dopo il loro matrimonio era già naufragato: Marilyn odiava il fatto che il marito avesse basato sulla sua vita il personaggio di Roslyn, considerandolo inoltre inferiore alle parti maschili, e non sopportava la sua abitudine di riscrivere le scene la notte prima di girarle. In questa sorta di ritratto indiretto, tuttavia, Marilyn diede finalmente prova del proprio talento drammatico.

Marilyn con Clift, Gable, Wallach, Huston e Miller sul set de Gli spostati

Il rapporto con Miller si era comunque già da tempo incrinato per l’incompatibilità di carattere tra i due, che sarebbe poi diventata la motivazione ufficiale del loro divorzio. Marilyn, sul set come nella vita privata, era in quel periodo particolarmente instabile per l’abuso di alcool e farmaci, tra i problemi di salute cronici e le continue interruzioni di gravidanza.

Lo scrittore Truman Capote avrebbe voluto lei per interpretare Holly Golightly nell’adattamento cinematografico del suo Colazione da Tiffany (Breakfast at Tiffany’s), le cui riprese sarebbero iniziate nell’ottobre 1960, ma i produttori temevano che Marilyn avrebbe creato complicazioni e il ruolo andò ad Audrey Hepburn.

Le riprese de Gli spostati ebbero il via nel luglio 1960, nel torrido deserto del Nevada. Marilyn soffriva di calcoli biliari e assumeva farmaci sia per riposare che per svegliarsi, al punto che di solito veniva truccata mentre dormiva sotto l’effetto dei barbiturici. La sua dipendenza era talmente grave che nell’agosto 1960 il regista John Huston interruppe le riprese per due settimane per permetterle di disintossicarsi in ospedale.

Marilyn e il regista John Huston

Nel 1950 Huston aveva lanciato Marilyn nel suo primo ruolo di rilievo in Giungla d’asfalto e ne aveva visto poi crescere il mito: per un amaro scherzo del destino, diresse anche il suo ultimo film. Anni dopo, dichiarò di essere assolutamente certo che Marilyn fosse condannata: C’erano prove davanti a me quasi ogni giorno. Non poteva salvarsi o essere salvata da qualcun altro. I suoi dannati dottori l’avevano resa dipendente dai sonniferi.

Marilyn aveva problemi a ricordare le battute e non arrivava mai sul set prima delle 11:30, oltre due ore di ritardo rispetto a quanto stabilito; regista e attori, spazientiti, decisero di posticipare a quell’orario l’inizio delle riprese. Il più insofferente era Clark Gable, che per contratto lavorava solo dalle 9:00 alle 17:00 per poi tornare a casa dalla moglie incinta.

Marilyn e Gable ne Gli spostati

Benché da tempo malato di cuore e accanito fumatore, Gable rifiutò la controfigura in quasi tutte le scene più pericolose, in quella che sarebbe stata considerata una delle sue migliori interpretazioni. Le riprese terminarono il 4 novembre 1960; Gable ebbe un infarto due giorni dopo e morì il 16 novembre a soli 59 anni. La vedova dichiarò aspramente che lo stato di eterna attesa di Marilyn aveva contribuito alla prematura morte del marito.

Gli spostati fu quindi sia l’ultimo film completo di Marilyn che l’ultimo film di Gable, idolo d’infanzia della diva: in una delle sue ultime interviste, Marilyn confessò di aver fantasticato spesso che Gable fosse il padre che non aveva mai conosciuto.

Marilyn e Gable ne Gli spostati

L’11 novembre Marilyn e Arthur Miller si separarono ufficialmente, per poi divorziare il 24 gennaio 1961 a Ciudad Juárez, in Messico, dopo cinque anni di matrimonio. Gli spostati venne distribuito l’1 febbraio 1961 e fu un disastro al botteghino, ma la critica elogiò la sceneggiatura e le interpretazioni del quartetto di attori principali; la pellicola è stata recentemente rivalutata, tanto da essere considerata un cult degli Anni ’60.

Marilyn era ormai al limite: il 7 febbraio 1961, sempre più spesso preda di turbe psichiche, si recò volontariamente al Payne Whitney Psychiatric Clinic, l’ospedale psichiatrico di New York, sotto il falso nome di Faye Miller. Ben presto la casa di cura divenne per lei una prigione: chiese aiuto all’ex marito Joe DiMaggio, con cui aveva ristabilito un rapporto di amicizia, che riuscì a farla uscire e trasferire al Columbian Presbyterian, da cui venne dimessa poco dopo.

Marilyn e Joe DiMaggio all’epoca del loro matrimonio

A maggio subì un intervento chirurgico per l’endometriosi, a giugno una colecistectomia: dimessa l’11 luglio, fu colpita da un microfono durante l’assalto dei giornalisti. Non girò alcun film per tutto il 1961. Nel frattempo aveva iniziato una relazione con l’amico di lunga data Frank Sinatra, che durò diversi mesi: Sinatra aveva promesso di sposarla, ma nel gennaio 1962 la lasciò definitivamente annunciando il proprio matrimonio con l’attrice e ballerina Juliet Prowse, che poi non avvenne.

Marilyn e Frank Sinatra

Something’s Got to Give, i Kennedy e la morte

Something’s Got to Give (1962), diretto da George Cukor per la 20th Century Fox, doveva essere il remake della screwball comedy Le mie due mogli (My Favorite Wife, 1940) di Garson Kanin, con Cary Grant e Irene Dunne: oltre a Marilyn, il cast comprendeva Dean Martin e Cyd Charisse.

La fotografa Ellen Arden (Marilyn), moglie di Nick (Martin) e madre di due bambini, è dispersa in mare da cinque anni. Nick la fa dichiarare legalmente morta e si risposa con Bianca Russell (Charisse), ma proprio allora Ellen viene ritrovata su un’isola deserta e torna a casa. I figli non la riconoscono, ma la prendono in simpatia e la invitano a restare. Venuta a conoscenza del matrimonio di Nick e decisa a riconquistare la propria famiglia, Ellen decide di rivelarsi facendosi passare per la nuova tata svedese Ingrid Tic, catapultando Nick in un delicatissimo triangolo amoroso.

Marilyn sul set di Something’s Got to Give

Assente dallo schermo da oltre un anno, da tempo in precarie condizioni di salute e reduce dall’intervento alla cistifellea, Marilyn aveva perso più di 11 kg, raggiungendo il peso più basso della sua vita adulta. L’inizio delle riprese di Something’s Got to Give, previsto per gennaio 1962, era stato quindi posticipato a fine aprile per permetterle un pieno recupero.

Il 9 aprile 1962 Marilyn informò il produttore di Something’s Got to Give, Henry T. Weinstein, che la Casa Bianca le aveva chiesto di esibirsi in occasione del compleanno del Presidente John Fitzgerald Kennedy, a maggio: Weinstein l’aveva autorizzata, credendo che non ci sarebbero stati problemi sul set. Marilyn e JFK erano amanti probabilmente fin dal 1957, quando lui era ancora senatore del Massachusetts. Intermediari per i loro incontri erano stati Frank Sinatra e l’attore Peter Lawford, cognato del Presidente: Lawford aveva messo più volte la propria casa a loro disposizione.

Peter Lawford e JFK

Il 23 aprile, primo giorno di riprese, Marilyn telefonò a Weinstein per avvisarlo che non sarebbe stata presente a causa di una sinusite, contratta probabilmente dopo essersi recata all’Actors Studio di New York dall’insegnante di recitazione Lee Strasberg, per rivedere insieme la parte. La diagnosi del medico inviato dallo studio avrebbe posticipato le riprese del film di un altro mese, ma il regista George Cukor si rifiutò di aspettare e riorganizzò il programma in modo da iniziare a girare le scene in cui non compariva Marilyn.

Marilyn e il regista George Cukor sul set di Something’s Got to Give

Nel mese successivo le riprese proseguirono per lo più senza Marilyn, quasi sempre assente a causa di febbre, mal di testa, sinusite cronica e bronchite, e si accumularono altri 10 giorni di ritardo. La produzione era già fuori budget e la sceneggiatura, ancora in divenire, veniva riscritta ogni notte, costringendo una sempre più frustrata Marilyn a dover memorizzare nuove scene ogni giorno. Con l’avvicinarsi del compleanno del Presidente Kennedy (29 maggio), nessuno pensava che Marilyn avrebbe mantenuto il suo impegno con la Casa Bianca.

Il 19 maggio, invece, Marilyn partecipò ai festeggiamenti anticipati per il 45° compleanno del Presidente al Madison Square Garden di New York indossando l’iconico abito attillato in tessuto trasparente color carne con 2.500 strass cuciti all’esterno, che la faceva apparire nuda. Davanti a circa 15.000 persone, rivolgendosi al Presidente con voce intima e sensuale, cantò la celebre Happy Birthday, Mr. President, sostituendo Mr. President al nome di Kennedy nel tradizionale testo di Happy Birthday to You.

Happy Birthday, Mr. President

Il Presidente la ringraziò affermando che dopo aver ascoltato degli auguri di compleanno tanto dolci, poteva anche ritirarsi dalla politica, ma già da tempo aveva preso le distanze dall’attrice: il regalo di compleanno di Marilyn, un Rolex d’oro con incisa la frase Jack, with love as always from Marilyn, May 29th 1962 (Jack, con amore come sempre da Marilyn, 29 maggio 1962), venne donato a un dipendente. La performance di Marilyn fu una delle sue ultime apparizioni pubbliche di rilievo prima della sua morte, avvenuta meno di tre mesi dopo.

Marilyn tra Robert Kennedy e John Fitzgerald Kennedy

Il viaggio a New York aveva ulteriormente inasprito i rapporti con i dirigenti della 20th Century Fox, ma al suo ritorno Marilyn decise di dare a Something’s Got to Give una sensazionale spinta pubblicitaria facendo qualcosa che nessuna grande attrice di Hollywood aveva mai fatto prima.

In una scena del film, Ellen (Marilyn) nuota in piscina di notte, vede Nick (Martin) alla finestra e lo invita a unirsi a lei; Nick le chiede di uscire dalla piscina, quando si rende conto che Ellen è nuda. Marilyn avrebbe dovuto indossare un body, ma lo tolse subito per nuotare solo con lo slip di un bikini color carne. Se Something’s Got to Give fosse stato completato e distribuito come previsto, Marilyn sarebbe stata la prima stella del cinema a comparire in topless in un film di Hollywood nell’era del sonoro; un primato che spetterà invece all’attrice Jayne Mansfield nel misconosciuto Promises! Promises! dell’anno successivo (1963).

Marilyn in Something’s Got to Give

Quel 23 maggio sul set dovevano essere presenti solo i membri della troupe necessari a girare la scena, ma Marilyn aveva fatto entrare diversi fotografi, che l’avevano immortalata con e senza costume da bagno. Volendo spingere Liz Taylor fuori dalle copertine, nei mesi successivi permise a diverse riviste di pubblicare foto di lei parzialmente nuda. La copertina della rivista Life del 22 giugno mostrava Marilyn avvolta in un accappatoio di spugna blu con il titolo: A skinny dip you’ll never see on the screen (Un bagno nudo che non vedrete mai al cinema).

Marilyn sulla copertina di Life

L’1 giugno 1962, giorno del suo 36° compleanno, Marilyn girò una scena in giardino con Dean Martin e Wally Cox: sarà il suo ultimo giorno su un set cinematografico. Il 4 giugno Marilyn telefonò al produttore Weinstein per notificargli la propria assenza quel giorno, lamentando febbre e il riacutizzarsi della sinusite: fino a quel momento, era stata presente solo 12 giorni su 35.

Marilyn festeggia il proprio compleanno sul set col regista George Cukor

L’8 giugno la 20th Century Fox decise di licenziarla, fortemente appoggiata del regista Cukor, intentando contro di lei una causa da oltre mezzo milione di dollari. La decisione di licenziare Marilyn fu senza dubbio influenzata dalla massiccia debacle finanziaria in cui versava in quel periodo la 20th Century Fox per le riprese di Cleopatra (1963) di Joseph L. Mankiewicz, ancora oggi il film più costoso della storia del cinema: a fronte dei 2 milioni di dollari stimati inizialmente per la sua realizzazione, la pellicola ne avrebbe richiesti 44 (corrispondenti a 372 milioni di dollari attuali), rischiando di far fallire la casa di produzione.

Locandina di Cleopatra

I dirigenti della 20th Century Fox avevano pianificato l’uscita di Something’s Got to Give durante le vacanze di Natale di quell’anno proprio per compensare i costi di Cleopatra: alla disperata ricerca di un capro espiatorio per salvare la faccia, iniziarono una campagna denigratoria a mezzo stampa scandalistica contro Marilyn, additando la sua sregolatezza come causa di un millantato sforamento del budget di oltre 1 milione di dollari, accusandola di aver finto di essere malata e diffondendo addirittura la voce che fosse mentalmente disturbata.

Il ruolo di Marilyn fu offerto a Kim Novak e Shirley MacLaine, ma entrambe rifiutarono; trapelò il nome di Lee Remick, che aveva provato gli abiti di scena ed era stata fotografata con il regista, ma la notizia si rivelò una montatura della stampa. Dean Martin si rifiutò di continuare senza Marilyn e minacciò di abbandonare il film.

Marilyn e Martin in Something’s Got to Give

Per riscattare la propria immagine pubblica, Marilyn si lanciò in una serie di iniziative pubblicitarie, tra cui varie interviste per le riviste Life e Cosmopolitan e due servizi fotografici con Bert Stern per Vogue: uno doveva essere un classico editoriale di moda, nell’altro Marilyn posò nuda. Nei tre giorni di lavoro all’Hotel Bel-Air di Hollywood, Stern le scattò in totale 2.571 foto, che pubblicò solo nel 1982 raccogliendole nel libro The Last Sitting.

Marilyn fotografata da Bert Stern

Le riprese di Something’s Got to Give avevano ormai raggiunto una rovinosa fase di stallo. La 20th Century Fox pensò addirittura di utilizzare il materiale già girato con Marilyn aggiungendo solo una controfigura per le scene mancanti, ma presto si pentì di averla licenziata, riaprì le negoziazioni verso fine giugno e dovette sottostare alle sue condizioni: Marilyn avrebbe ricevuto 500.000 dollari per Something’s Got to Give, le cui riprese sarebbero state posticipate a ottobre, e altrettanti per un altro film, più bonus se completati in tempo; George Cukor sarebbe stato sostituito alla regia da Jean Negulesco, che aveva diretto Marilyn in Come sposare un milionario.

Il 13 luglio 1962, Marilyn posò sulla spiaggia di Santa Monica per il fotografo e amico George Barris, con cui aveva lavorato 8 anni prima in Quando la moglie è in vacanza. Le foto, che per anni Barris rifiutò di pubblicare, vedono Marilyn in bikini arancione, avvolta in un telo da mare verde e con indosso un pullover di lana a maglia larga: saranno gli ultimi scatti della diva.

Marilyn fotografata da George Barris

Col passare del tempo, faceva sempre più freddo. Marilyn voleva smettere.
Questa è l’ultima. -le dissi-
Ok, George. -rispose lei- Questa è solo per te.
Si sporse in avanti e mandò un bacio alla telecamera. Era l’ultima foto che le avrei mai scattato.

(George Barris sull’ultima foto di Marilyn)
L’ultima foto di Marilyn

In quel periodo Marilyn viveva nella sua residenza di Brentwood, a Los Angeles, che aveva acquistato a gennaio di quell’anno. Dopo la fine della relazione col Presidente Kennedy era divenuta amante di suo fratello Robert, allora Procuratore generale, e aveva confidato ad amici e perfino giornalisti che presto avrebbe sposato un uomo molto importante, dichiarando inoltre di essere incinta. Non si conosceva l’identità del padre del nascituro, ma si presumeva potesse essere proprio Robert Kennedy.

Nel frattempo, l’attore e cognato di Kennedy Peter Lawford aveva assunto l’investigatore privato Fred Otash per spiarla, registrandone le conversazioni: secondo Otash, Marilyn era davvero incinta e aveva poi abortito in Messico, forse costretta, con l’aiuto di un medico statunitense che l’aveva seguita oltre confine. L’1 agosto Marilyn firmò il nuovo contratto con la 20th Century Fox.

Peter Lawford e Robert Kennedy

La notte del 5 agosto 1962 la domestica Eunice Murray si svegliò verso le 3:00 e vide la luce accesa sotto la porta della camera da letto di Marilyn: provò a chiamarla, ma nessuno rispose; la porta era chiusa a chiave dall’interno. Alle 3:30 la domestica telefonò allo psichiatra di Marilyn, il dottor Greenson, che arrivò poco dopo e riuscì a entrare nella camera da una finestra: Marilyn giaceva morta nel suo letto, nuda e con in mano la cornetta del telefono. Aveva 36 anni. Alle 3:50 circa il suo medico personale, Hyman Engelberg, ne dichiarò la morte. La polizia di Los Angeles fu avvisata alle 4:25.

Il dottor Thomas Noguchi, medico legale della contea di Los Angeles, eseguì l’autopsia sul cadavere: Marilyn era morta tra le 20:30 e le 22:30 del 4 agosto per avvelenamento acuto da barbiturici. Nel sangue aveva 8 mg% (milligrammi per 100 millilitri di soluzione) di idrato di cloralio e 4,5 mg% di pentobarbital, nel fegato 13 mg% di pentobarbital: quantità di gran lunga superiori al dosaggio letale, che esclusero immediatamente l’ipotesi di un’overdose accidentale.

Noguchi fu assistito dal Los Angeles Suicide Prevention Team. I medici di Marilyn affermarono che l’attrice era soggetta a gravi fobie e frequenti depressioni con cambiamenti d’umore improvvisi e imprevedibili e che era andata diverse volte in overdose di farmaci in passato, forse intenzionalmente. Noguchi classificò quindi la sua morte come probabile suicidio.

Thomas Noguchi

L’incerta ricostruzione degli eventi, il tempo trascorso tra la morte e la denuncia alla polizia, le incongruenze nelle dichiarazioni dei testimoni e il frettoloso referto autoptico hanno alimentato nel tempo varie teorie alternative secondo le quali Marilyn non si sarebbe suicidata, ma sarebbe stata assassinata. Tali ipotesi si basano soprattutto sulle possibili rivelazioni di Marilyn sulle sue relazioni coi Kennedy, considerate una seria minaccia per la loro carriera politica, o su una vendetta della mafia statunitense nei confronti della famiglia Kennedy per le promesse fatte in campagna elettorale e non mantenute.

Già all’epoca si diffuse la voce che Robert Kennedy e Peter Lawford fossero nella casa dell’attrice poche ore prima della sua morte, confermata solo 10 anni fa dalla divulgazione degli archivi segreti dell’investigatore Fred Otash. Nei dossier, Otash parla di una violenta discussione tra Marilyn e Robert Kennedy sulla loro relazione, sull’impegno che lui aveva preso con lei, sul fatto che i Kennedy e i loro amici l’avessero resa un oggetto sessuale da passarsi l’un l’altro: Marilyn gridava disperata, mentre Kennedy e Lawford cercavano di calmarla.

Otash avrebbe saputo della morte di Marilyn solo nelle prime ore del giorno successivo, quando Lawford lo avrebbe chiamato chiedendogli di rimuovere qualsiasi elemento incriminante dalla casa: prove di cui da allora non v’è alcuna traccia, compresi i presunti nastri delle conversazioni. Nel 1982 un’indagine formale del procuratore generale della contea di Los Angeles John Van de Kamp si concluse in un nulla di fatto.

Fred Otash

A oggi non esiste alcuna evidenza di omicidio, ma neppure un’inconfutabile prova che Marilyn si sia suicidata: la fragilità psichica, le dipendenze dai farmaci e le relazioni con uomini di potere l’avevano resa un pericolo per sé stessa, ma l’avevano anche esposta alla mercé di persone senza scrupoli.

Il film Something’s Got to Give non fu mai portato a termine. Per anni non si seppe più nulla nemmeno del footage, che raccoglie le ultime scene in cui compare Marilyn: 9 ore di riprese e parti sonore rimasero inutilizzate negli archivi della 20th Century Fox fino al 1989, quando vennero ritrovate dalla Fox Entertainment News e assemblate in un documentario di un’ora intitolato Marilyn: Something’s Got to Give. L’1 giugno 2001, in occasione del 75° compleanno di Marilyn, un segmento di 37 minuti del documentario venne trasmesso dal canale satellitare AMC col titolo Marilyn Monroe: The Final Days ed è attualmente disponibile su YouTube.

Marilyn Monroe: The Final Days

Dopo la morte di Marilyn, la 20th Century Fox riprese immediatamente il progetto di Something’s Got to Give, mantenendo la trama e riutilizzando gran parte dei set, insieme ad acconciature e costumi in precedenza ideati per la diva. Furono invece rinnovati troupe, cast e titolo: Fammi posto tesoro (Move Over, Darling), diretto da Michael Gordon, vide Doris Day e James Garner nei ruoli di Marilyn Monroe e Dean Martin. Garner era stato a suo tempo la scelta iniziale per la parte, ma aveva preferito recitare ne La grande fuga di John Sturges ed era stato sostituito da Dean Martin.

Fammi posto tesoro venne distribuito nel dicembre 1963, esattamente un anno dopo l’uscita prevista per Something’s Got to Give: Marilyn Monroe non c’era più, ma ancora una volta lo spettacolo doveva continuare.

Locandina di Fammi posto tesoro

“Nata libera”: quando il cinema iniziò a parlare dei diritti degli animali

A volte un film aiuta ad aprire una finestra su vicende sconosciute, a volte fa scoccare una scintilla in chi non aspettava altro, innescando meccanismi imprevedibili: la magia del cinema è che può accadere anche con un basso budget e poche pretese di celebrità. Nata libera (Born Free), film del 1966 diretto da James Hill e interpretato da Virginia McKenna e Bill Travers, è riuscito a riunire da solo tutto questo in nome di un principio sacro: l’amore per la natura.

Il soggetto di Nata libera è tratto dal romanzo autobiografico Born Free (1960) di Joy Adamson, edito in Italia come Nata libera: la straordinaria avventura della leonessa Elsa e best seller internazionale negli Anni ’60.

Nel 1956, i coniugi Joy e George Adamson vivono in Kenya, a quel tempo colonia britannica: Joy è una pittrice, George lavora come guardacaccia nel Northern Frontier District. Un giorno, George è inviato a sopprimere un leone che ha aggredito e ucciso una donna nei pressi di un villaggio. Dopo aver eliminato il leone, il guardacaccia è costretto a uccidere anche una leonessa che l’aveva improvvisamente assalito nell’estremo tentativo di difendere i propri cuccioli: quando George si accorge dei tre leoncini, nati solo da poche settimane, decide di adottarli e di allevarli insieme alla moglie.

Virginia McKenna e Bill Travers in Nata libera

Joy si affeziona particolarmente a Elsa, la più piccola della cucciolata. I piccoli crescono rapidamente e diventano presto ingestibili, tanto che i primi due (Lustica e Big One) vengono inviati allo zoo di Rotterdam: Joy, però, non vuole separarsi da Elsa e, d’accordo con George, decide di tenerla come un animale domestico. Col sopraggiungere dell’età adulta, per la leonessa iniziano i problemi: prima rischia di essere uccisa per sbaglio da un cacciatore durante un safari, poi provoca la fuga disordinata di un branco di elefanti che distrugge alcune coltivazioni suscitando l’ira dei locali.

Una scena di Nata libera

Il superiore di George impone ai coniugi di inviare Elsa presso uno zoo, ma Joy si oppone con forza, sostenendo che la leonessa debba vivere libera, essendo nata libera: nonostante Elsa sia ormai addomesticata e non più in grado di vivere nella natura selvaggia, Joy decide caparbiamente di tentare in pochi mesi un graduale reinserimento del felino nel suo habitat naturale.

«È nata libera e ha il diritto di vivere libera.»

(Joy Adamson)
Una scena di Nata libera

La sceneggiatura del film è opera di Lester Cole, scrittore statunitense inserito nella lista nera di Hollywood durante il maccartismo, la caccia alle streghe lanciata nei primi Anni ’50 dal senatore Joseph McCarthy contro persone sospettate di essere filocomuniste e sovversive. Accuse infondate e attacchi personali coinvolsero molte personalità di spicco della politica, della cultura e del mondo dello spettacolo. Cole e altri nove colleghi (i cosiddetti Hollywood Ten) si rifiutarono di testimoniare davanti alla Commissione per le attività antiamericane e furono pertanto ostracizzati dall’industria cinematografica.

Solo tre delle sue sceneggiature sono divenute film, ognuna firmata con un diverso pseudonimo: Nata libera è accreditato a Gerald L. C. Copley. Come in molti dei film sceneggiati dal più celebre collega Dalton Trumbo (Vacanze romane, Spartacus e Papillon, solo per citarne alcuni), nel soggetto su cui ha lavorato Cole alberga un ardente desiderio di libertà: quella stessa libertà che era stata loro ingiustamente preclusa.

Lester Cole (a destra) con il collega Ring Lardner Jr.

Nata libera conquistò i premi Oscar per la miglior colonna sonora (John Barry) e per la miglior canzone (Born Free, di John Barry e Don Black, cantata da Matt Monro). Quasi vent’anni dopo, il maestro John Barry avrebbe vinto la sua quarta statuetta per la struggente colonna sonora di un altro film legato all’Africa e al Kenya, ben più celebre del precedente: La mia Africa (Out of Africa, 1985), di Sydney Pollack, ispirato all’omonimo romanzo autobiografico di Karen Blixen e interpretato da Meryl Streep e Robert Redford, vincitore di 7 premi Oscar (miglior film, miglior regia, miglior sceneggiatura non originale, miglior fotografia, miglior scenografia, miglior sonoro e, appunto, miglior colonna sonora).

Meryl Streep (Karen Blixen) e Robert Redford (Denys Finch-Hatton) ne La mia Africa

Gli attori Bill Travers e Virginia McKenna, protagonisti del film Nata libera e coniugi anche nella vita, divennero intimi amici dei veri George e Joy Adamson. La realizzazione del film cambiò per sempre la vita dei due attori, che divennero attivisti per i diritti degli animali e continuarono nei decenni successivi a battersi per la protezione degli animali selvatici africani e per la salvaguardia del loro habitat naturale.

Bill Travers e Virginia McKenna in una scena di Nata libera

Travers e McKenna recitarono in un’altra pellicola per famiglie a sfondo animalista, An Elephant Called Slowly (1969), basato stavolta sulle reali avventure della coppia con tre giovani elefanti africani, in Kenya. Nel film compaiono il vero George Adamson e l’elefantina Pole Pole (Piano piano in swahili), donata allo zoo di Londra alla fine delle riprese. Quando nel 1982 la coppia andò a trovare l’elefantessa e vide in che condizioni viveva, iniziò una campagna per spostarla in un luogo più adatto, ma durante il trasferimento Pole Pole morì: la disgrazia spinse i coniugi a fondare nel 1984 l’organizzazione Zoo Check. Nello stesso anno, McKenna fu coinvolta nella protesta contro le cattive condizioni dello zoo di Southampton, che fu chiuso un anno dopo.

Nel 1991, la Zoo Check divenne la Born Free Foundation, un ente di beneficenza internazionale per la salvaguardia della fauna selvatica il cui attuale presidente esecutivo è Will Travers, figlio maggiore della coppia. Per i meriti artistici e l’impegno profuso nella salvaguardia degli animali e della natura, nel 2004 Virginia McKenna è stata nominata Ufficiale dell’Ordine dell’Impero Britannico.

Bill Travers e Virginia McKenna visitano l’elefantessa Pole Pole allo zoo di Londra (1982)

«Non torno a Londra se non ho abbattuto un elefante!»

Nata libera rappresenta una delle prime opere cinematografiche che affrontano il tema della salvaguardia della natura e, in uno stile ancora grezzo ma genuino, si rivolge a un pubblico di tutte le età.

Sono gli anni in cui viene fondato il WWF (1961), ancora oggi la più grande organizzazione internazionale non governativa per la protezione ambientale, e in cui si registrano decisivi passi in avanti nell’etologia, grazie alla diffusione degli studi di Konrad Lorenz sul comportamento animale: tutto ciò produce finalmente interesse e sensibilizzazione a livello globale, soprattutto riguardo a preservazione della biodiversità, sostenibilità nell’utilizzo delle risorse naturali e riduzione dell’inquinamento.

Jane Goodall

Nel 1960, in Tanzania, l’etologa inglese Jane Goodall inizia le sue ricerche sulla vita sociale e familiare degli scimpanzé. Tempo dopo, in Ruanda, la zoologa statunitense Dian Fossey avrebbe seguito il suo esempio dedicandosi all’osservazione e allo studio dei gorilla: la sua vita è immortalata in Gorilla nella nebbia (Gorillas in the Mist, 1988) di Michael Apted, in cui la Fossey è interpretata da una straordinaria Sigourney Weaver.

Dian Fossey

Nata libera è allo stesso tempo una testimonianza intatta di quanto l’essere umano stesse iniziando solo allora a sviluppare una reale consapevolezza riguardo a determinati concetti etici: un leone considerato pericoloso per una comunità che viene abbattuto senza remore, un turista che durante un safari afferma che “non tornerà a Londra se non avrà abbattuto un elefante”.

A conferma di ciò, solo pochi anni prima era stato prodotto Hatari!, avventuroso film del grande Howard Hawks interpretato tra gli altri da John Wayne, Elsa Martinelli, Hardy Krüger e Bruce Cabot: i protagonisti sono una squadra di cacciatori professionisti che, in Tanzania, si occupa della cattura di animali esotici della savana, destinati alla vendita all’estero presso zoo e riserve naturali.

Elsa Martinelli in una scena di Hatari!

Il film, ritenuto da molti un capolavoro, è conosciuto anche per la celebre scena del bagno degli elefantini sulle note di Baby Elephant Walk, uno dei motivi composti da Henry Mancini per la colonna sonora.

«Era la storia di un gruppo di persone che catturavano animali, e non avevo intenzione di metterci altro.»

(Howard Hawks)

Molto popolare soprattutto tra i più piccoli, grazie alla presenza di molti animali esotici, la pellicola aveva avuto un ottimo riscontro dalla critica internazionale, affascinata dal suo carattere utopico e dall’armonia tra le sensazionali scene di cattura degli animali e le sequenze ambientate al campo, in cui le vicende personali dei protagonisti vengono narrate con garbo e ironia. Il film ha un tono quasi fiabesco: un mondo fuori dal tempo in cui i protagonisti vivono in armonia e complicità con tanti animali selvaggi.

John Wayne in Hatari!

Secondo Todd McCarthy, biografo di Howard Hawks, Hatari! è addirittura il più geniale film del mondo: inizia come film d’avventura, si trasforma in film d’amore, termina come film per bambini.

Visto oggi, Hatari! non può non risultare eticamente ambiguo. Nelle riprese di caccia furono utilizzati sempre animali vivi, liberi e selvaggi: inseguirli e catturarli, anche per poi liberarli, sarebbe oggi assolutamente vietato e severamente punito, per lo stress causato e le possibili conseguenze sulla salute degli animali, in particolare per le specie protette o in via di estinzione.

John Wayne in Hatari!

Tale leggerezza su una questione così delicata non può tuttavia sorprendere: il safari a scopo venatorio, infatti, è attualmente consentito in quasi tutti i Paesi sub-sahariani tranne che in Kenya, nel cui territorio la caccia è vietata fin dal 1977. In molte riserve di caccia statali e terreni privati è ancora legale abbattere animali protetti come leoni, elefanti e rinoceronti previo pagamento, nella maggior parte dei casi appannaggio di personaggi facoltosi senza scrupoli.

Eppure, oggi sappiamo che perfino un affascinante safari fotografico in riserve e parchi nazionali, all’apparenza innocuo, può avere un impatto negativo sull’ambiente: la presenza di turisti può infatti disturbare le attività da cui dipende la sopravvivenza degli animali (l’efficienza di caccia dei leoni nelle aree più frequentate da turisti è molto inferiore, spesso appena sufficiente al sostentamento; ancora maggiore è il danno ai predatori prevalentemente diurni come il ghepardo). L’unico contributo positivo del turismo all’ambiente è di tipo indiretto: spesso i governi locali hanno difficoltà a sorvegliare territori così vasti e la presenza di turisti può aiutare a controllare e, in certi casi, a scoraggiare il bracconaggio.

La cattura di una giraffa in una scena di Hatari!

Elsa, George e Joy Adamson

Il successo del romanzo Born Free convinse Joy Adamson a pubblicare due sequel: Living Free (1961) e Forever Free (1963). Prima dell’uscita del film Nata libera, il naturalista Sir David Attenborough aveva già realizzato per la BBC un documentario sulla leonessa Elsa: Elsa the Lioness (1961). La storia di Elsa e degli Adamson ha ispirato numerosi altri documentari, un sequel (Living Free, 1972), una serie televisiva (Nata libera, 1974), un film TV (Born Free: A New Adventure, 1996) e il film To Walk with Lions di Carl Schultz (1999) con Richard Harris, Honor Blackman, Ian Bannen e Geraldine Chaplin, sugli ultimi anni di vita di George Adamson.

La leonessa Elsa con Joy Adamson

Elsa fu la prima leonessa a essere rimessa con successo in libertà, la prima a stabilire un contatto e ad avere una cucciolata dopo essere stata messa in libertà. Morì nel 1961 di babesiosi, una malattia infettiva provocata dal morso di zecca. I suoi cuccioli divennero presto una minaccia per il bestiame dei locali e, per la loro sicurezza, furono trasferiti dagli Adamson nel Parco nazionale del Serengeti, in Tanzania.

Nello stesso anno, George Adamson andò in pensione come guardacaccia per potersi dedicare completamente all’attività di naturalista e agli studi sui leoni: Baba ya Simba (Il padre dei leoni in swahili) fece da capo consulente tecnico per il film Nata libera ed è oggi considerato uno dei padri fondatori della conservazione della fauna selvatica.

George Adamson

«Chi si prenderà cura degli animali, per quelli che non sono autosufficienti?
Ci sono giovani uomini e giovani donne disposti ad assumere questo incarico?
Chi farà sentire la sua voce, quando la mia sarà stata portata via dal vento, chi aiuterà la causa?»

(George Adamson)

In seguito, i diversi interessi portarono George e Joy a separarsi, pur rimanendo in buoni rapporti: George continuò a occuparsi dei leoni, mentre Joy decise di dedicarsi ai ghepardi. Joy passò gli anni successivi a raccogliere fondi per la fauna selvatica, grazie anche al successo del libro e del film, e riuscì a rimettere in libertà un ghepardo e un leopardo.

Joy Adamson

Il leone Christian

Nel 1969, John Rendall e Anthony Bourke, due amici australiani che lavoravano in un negozio di mobili a Londra, acquistarono un cucciolo di leone maschio, Christian, nel reparto animali esotici del grande magazzino londinese Harrods, preoccupati per le sue condizioni e per il suo destino: il cucciolo era stato separato dai suoi genitori a causa della vendita dello zoo di Ilfracombe, in Inghilterra, in cui vivevano. Christian venne allevato nel seminterrato del negozio e il vicario locale permise ai due ragazzi di lasciarlo libero per qualche ora al giorno sul prato del cimitero adiacente. Destino volle che l’anno dopo, quando il cucciolo aveva ormai raggiunto una grande stazza, gli attori Bill Travers e Virginia McKenna si recassero proprio in quel negozio per acquistare una scrivania. McKenna raccontò loro la storia della leonessa Elsa e li mise in contatto con George Adamson, per tentare anche con Christian una reintroduzione alla vita selvaggia in Africa.

Virginia McKenna e Bill Travers con John Rendall, Anthony Bourke e il leone Christian

I due ragazzi accettarono la proposta e nel corso dell’anno organizzarono la spedizione in Kenya per Christian, avvertiti comunque da Adamson che la sua reintroduzione sarebbe stata molto più difficile di quella di Elsa e che probabilmente l’esperimento sarebbe fallito: Elsa, infatti, era nata in Kenya e quindi era sempre vissuta nel suo habitat naturale, anche se domestico, mentre Christian aveva vissuto sempre in città, i suoi stessi genitori erano nati in cattività e non era quindi abituato neanche al clima africano.

John Rendall, Anthony Bourke e il leone Christian

Adamson volle tentare la reintegrazione del leone in una colonia già esistente. Data la difficoltà di integrare un maschio in una comunità con un capobranco già attribuito, decise di aiutarsi con un altro leone maschio addomesticato di nome Boy, che aveva preso parte al film Nata libera. Adamson intendeva stabilire un legame tra i due che li rendesse i leader di un nuovo nucleo. Nonostante gli iniziali screzi, l’esperimento riuscì perfettamente e i due leoni divennero inseparabili. Il secondo passo fu l’affiancamento di una femmina, di nome Katania, per provare a estendere la nuova colonia.

Da questo momento, iniziò una serie di tragedie che misero a serio rischio la riuscita del progetto: Katania venne attaccata da un coccodrillo in prossimità di una pozza d’acqua e un’altra femmina venne uccisa da un altro branco di leoni. Stanley, uno chef della riserva allontanatosi dal campo alla ricerca di miele selvatico senza misure di sicurezza, fu attaccato da Boy, che si trovava libero nelle vicinanze: Adamson, accorso in aiuto, fu costretto a sparare all’amato leone, uccidendolo, ma non fece in tempo a salvare l’uomo, che morì per le ferite riportate.

Il clamore della tragedia sembrò segnare la fine del progetto, ma Adamson non si scoraggiò e, grazie all’aiuto di altri naturalisti riuscì finalmente a raggiungere lo scopo: Christian aveva preso possesso di una colonia di cui era divenuto il leader, aveva avuto dei cuccioli con due femmine e, dopo la sua reintegrazione nella natura, si avvicinava raramente al campo e agli uomini.

Appresa la notizia, Rendall e Bourke decisero di intraprendere un ultimo viaggio in Kenya per poter osservare di persona la reintegrazione del leone e per tentare di salutarlo un’ultima volta. Adamson li avvertì che il loro viaggio sarebbe stato probabilmente inutile, poiché Christian non si faceva vedere da almeno nove mesi, ma i due decisero ugualmente di partire.

Arrivati alla riserva, Adamson andò loro incontro con una novità: la notte prima, Christian era tornato nelle vicinanze del campo con le sue compagne e i suoi cuccioli.

«Christian è arrivato ieri sera.
È qui con le sue leonesse e i loro cuccioli.
È appostato sulla sua roccia preferita al di fuori del campo.
Vi sta aspettando.»

(George Adamson)

George e Joy Adamson avevano spesso parlato nei loro scritti di una sorta di sesto senso dei leoni, soprattutto nei confronti degli esseri umani, definendo ciò come una sorta di capacità telepatica.

Rendall e Bourke furono avvertiti del fatto che il leone avrebbe potuto non riconoscerli e, conseguentemente, attaccarli: i due, però, non si persero d’animo e vollero comunque incontrarlo. Ciò che avvenne fu talmente incredibile da stupire perfino Adamson: a distanza di tanto tempo, Christian non solo riconobbe immediatamente i due ragazzi, ma gli corse incontro come se non si fosse mai allontanato da loro buttandogli le zampe intorno al collo in una sorta di abbraccio. Il commovente filmato dell’incontro, condiviso su internet trent’anni dopo, è diventato virale.

La storia di Christian è stata raccontata in un libro (scritto da Rendall e Bourke) e in un documentario (Christian, The Lion at World’s End), e ha ispirato un libro per bambini (Christian, the Hugging Lion).

Il leone Christian

«L’animale più pericoloso è l’uomo»

Il 3 gennaio 1980, poche settimane prima di compiere 70 anni, Joy Adamson fu trovata morta nella Shaba National Reserve, in Kenya, uccisa da un suo ex dipendente. Nove anni dopo, il 20 agosto 1989, George Adamson fu assassinato nel Parco Nazionale di Kora, in Kenya, nel salvare il suo assistente e un turista europeo da un gruppo di banditi somali: aveva 83 anni.

Sia Joy che George vollero farsi seppellire con i loro adorati leoni, in Kenya: Joy fu sepolta con la leonessa Elsa nel Meru National Park, mentre George coi leoni Boy, Super Cub e Mugie nel Kora National Park.

George Adamson

Nei suoi scritti, George aveva sempre ribadito che l’animale più pericoloso al mondo è l’uomo e che il leone non è solo un predatore, ma un essere vivente capace di sviluppare una varietà di comportamenti.

Le esperienze e gli studi di George e Joy Adamson sono stati fonte di ispirazione per tanti altri naturalisti e hanno dato un contributo essenziale nell’interazione con un mondo fino ad allora quasi sconosciuto e considerato solo selvaggio.

Joy e George Adamson

…e tutti risero (Peter Bogdanovich, 1981)

Alcuni anni fa, due mostri sacri della regia come Quentin Tarantino e Wes Anderson inserirono tra i propri film preferiti …e tutti risero (1981) di Peter Bogdanovich, sorprendendo critici e appassionati. Capita spesso che un insuccesso commerciale salga alla ribalta come “cult” dopo simili investiture. Per circostanze straordinarie, tragiche o paradossali, alcuni di questi film diventano addirittura leggendari.
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È il caso di …e tutti risero, condannato a un titolo beffardo dai tristi eventi che ne hanno costellato la realizzazione e impedito, di fatto, la diffusione. Una commedia romantica che parla d’amore con tenerezza e leggerezza ma che, una volta conosciuta la sua storia, non può fare a meno di suscitare profonda tristezza.
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Cast di ...e tutti risero (1981)
Il cast di …e tutti risero (1981): Colleen Camp, Blaine Novak, Patti Hansen, Ben Gazzara, Audrey Hepburn, John Ritter, Dorothy Stratten, George Morfogen

Il film ha come protagonisti degli investigatori privati di un’agenzia di New York con la poco professionale abitudine di innamorarsi delle donne che dovrebbero sorvegliare. Per due di loro, la situazione si complica: John Russo (Ben Gazzara) ha una relazione con la moglie di un diplomatico (Audrey Hepburn), mentre Charles Rutledge (John Ritter) perde la testa per una giovane donna (Dorothy Stratten) fatta pedinare dal marito geloso.
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In un film senza cattivi, la trama era il drammatico specchio delle vite di attori e regista.
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Audrey Hepburn stava attraversando un periodo difficile con il suo secondo marito, lo psichiatra Andrea Dotti, con cui era rimasta solo per loro figlio. Ben Gazzara era ormai vicino a concludere il proprio rapporto con la seconda moglie, l’attrice Janice Rule.
Prima dell’inizio delle riprese, durante la realizzazione del film Linea di sangue (1979), Hepburn e Gazzara avevano avuto una storia d’amore, che era finita male: Gazzara si era infatti innamorato della modella Elke Krivat, che avrebbe poi sposato, e aveva iniziato le pratiche del divorzio dalla moglie.
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La tensione tra Hepburn e Gazzara, oltre a portare imbarazzo e tristezza sul set, compromise inevitabilmente la chimica tra i due personaggi, nonostante le eccezionali capacità degli attori.
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Fu l’ultimo ruolo principale di Audrey Hepburn in un film per il cinema.
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Ben Gazzara e Audrey Hepburn (...e tutti risero, 1981)
Audrey Hepburn e Ben Gazzara (…e tutti risero, 1981)

La ventenne Dorothy Stratten era al primo ruolo di rilievo in carriera. A causa della precaria situazione economica familiare, aveva iniziato a lavorare in un locale a soli 14 anni. Qui aveva incontrato Paul Snider, un impresario più vecchio di lei di nove anni, con cui aveva intrapreso una relazione e che l’aveva introdotta nel mondo della rivista Playboy, dove sarebbe diventata Playmate dell’Anno 1980. Dopo i primi successi di lei, i due si erano sposati.
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Durante le riprese di …e tutti risero, la Stratten si legò sentimentalmente al regista Peter Bogdanovich e i due andarono a vivere insieme. Nessuno poteva immaginare che le vicende del suo personaggio, che nel film tradisce il marito per poi lasciarlo per uno dei protagonisti, sarebbero state il preludio alla sua tragica fine.
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Stratten e Bogdanovich
Dorothy Stratten e Peter Bogdanovich

A riprese ultimate, sottovalutando la morbosa gelosia del marito (che era arrivato ad assoldare un detective privato per sorvegliarla), la Stratten decise di incontrarlo un’ultima volta per concludere gli accordi economici per la separazione. Durante questo incontro, Paul Snider la uccise sparandole con un fucile e, poco dopo, si suicidò. Era il 14 agosto 1980.
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La storia di Dorothy Stratten è raccontata nel film Star 80 (1983), di Bob Fosse.
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La pubblicità negativa provocata dalla tragedia limitò la distribuzione della pellicola. Bogdanovich non poteva accettare quella sorte per l’unico film da lui girato con la Stratten. Decise pertanto di acquistarne i diritti, pagando di tasca propria la riedizione. Arrivò a spendere cinque milioni di dollari, incassandone meno di uno: nel 1985 dichiarò bancarotta.
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Il flop al botteghino di …e tutti risero, insieme agli insuccessi di Cruising, I cancelli del cielo e Un sogno lungo un giorno, concluse il periodo degli Anni ’70 definito New Hollywood, durante il quale i film venivano gestiti completamente dai registi. Da allora, gli studios di Hollywood raramente finanziano dei film affidandone il pieno controllo ai registi.
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Bogdanovich descrisse il periodo della realizzazione del film e i tragici fatti legati all’omicidio della Stratten nel libro The Killing of the Unicorn, pubblicato nel 1984.
Nella mente del regista c’era un film personale sull’amore e sulla battaglia tra i sessi, nascosto dietro un genere di copertina, detective privati: il tema dominante era la libera espressione di amori e desideri latenti.
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Charles (Ritter), che nel film sorveglia Dolores (Stratten) per amore e non più solo per lavoro, indossa occhiali oversize con montatura di plastica, marchio di fabbrica del regista Peter Bogdanovich: forse un riferimento all’iniziale senso di colpa di Bogdanovich e alla successiva accettazione del suo amore per la Stratten. O forse solo una tenera allusione ai suoi sentimenti per lei, in un momento da lui definito come “il più felice della sua vita”.
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Dolores (Stratten) e Charles (Ritter) in ...e tutti risero (1981)
Dolores (Stratten) e Charles (Ritter) in …e tutti risero

Dai Golden Turkey Awards a Tim Burton

Golden Turkey Awards (The Worst Achievements in Hollywood History) è un libro scritto nel 1980 dai fratelli Michael e Harry Medved.
Grandi appassionati di B-movie, i Medved decisero di creare un premio fittizio denominato Golden Turkey sulla falsariga del Premio Oscar, da assegnare ai peggiori film ed attori. A tale scopo, scrissero un saggio elencando quale fosse, secondo loro, il peggio del peggio di Hollywood: nel libro sono presenti liste di vari “riconoscimenti” a film, registi, attori, ecc. ritenuti i peggiori della storia del cinema.
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Golden Turkey Awards
Golden Turkey Awards (The Worst Achievements in Hollywood History), Michael e Harry Medved

Nella prefazione del libro, gli autori dichiarano che le loro scelte possono non essere condivise da tutti, e che, esistendo “un numero enorme di brutti film, pessimi registi ed attori tremendi”, le liste sono soggette a continui aggiornamenti. Essendo gli autori anglofoni, la lista è molto sbilanciata sul cinema americano, tralasciando quello europeo e di altri Paesi.
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Alcuni vincitori del Golden Turkey sono davvero singolari, come ad esempio il peggior credito nei titoli assegnato alla versione del 1929 de La bisbetica domata di William Shakespeare, dove appare la dicitura “with additional dialogue by Sam Taylor” (“dialoghi supplementari aggiunti da Sam Taylor”, come se Shakespeare avesse bisogno di “dialoghi supplementari”…).
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La bisbetica domata (1929)
La bisbetica domata (Sam Taylor, 1929)

Il riconoscimento più controverso, al limite del paradossale, è senza dubbio il Golden Turkey come peggior attore a Richard Burton, attore shakespeariano più volte candidato all’Oscar e considerato tra i più grandi attori della storia del cinema. L’assegnazione del premio, tuttavia, è stata motivata quasi esclusivamente dalle discutibili scelte dei ruoli cinematografici interpretati in carriera e dalla partecipazione ad un elevato numero di film ritenuti scadenti.
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Richard Burton
Richard Burton

In ogni caso, come per gli Oscar, a destare maggiore curiosità sono inevitabilmente i premi per il peggior film e il peggior regista.
Le due categorie risaltano ancor di più in quanto intimamente collegate: il peggior film, Plan 9 from Outer Space, è stato diretto dal peggior regista, Edward D. Wood Jr.
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Plan 9 from Outer Space è un horror fantascientifico del 1959, ignorato dalla critica fino alla morte del regista Edward D. Wood Jr. nel 1978, quando tornò in auge proprio con la definizione di “peggior film di tutti i tempi”. Ciò ha contribuito a renderlo un film di culto, in cui a risaltare sono soprattutto gli effetti speciali, considerati ridicoli anche per l’epoca: modellini di astronavi sorretti da fili visibili, sfondi finti su cui gli attori proiettano le proprie ombre, e così via. Secondo il Morandini, questo “non gli impedisce di essere assai divertente, almeno per chi sa apprezzarne lo spudorato dilettantismo, le strampalate scenografie, i dialoghi tremendi, l’assurda logica narrativa”.
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Plan 9 from outer space_1
Plan 9 from Outer Space (1959)

Edward D. Wood Jr. è stato un uomo di cinema: regista, sceneggiatore, produttore cinematografico, attore, montatore. Emarginato dal mainstream hollywoodiano sia per l’etichetta di “diverso” e “bizzarro” (era un crossdresser con un feticismo per i golfini d’angora da donna), sia per le proprie idee eccentriche, ha avuto a disposizione sempre e solo budget irrisori e tempi di realizzazione ridicoli. La costante mancanza di mezzi, a cui faceva da contraltare solo la grande passione per il cinema, ha inesorabilmente influenzato la sua intera produzione cinematografica: tutti i suoi film sono caratterizzati da una trama estremamente approssimativa e da un’irrealistica rapidità nel girare le scene. Quasi sempre erano sufficienti pochi giorni e singoli ciak per il completamento di un film.
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Edward D. Wood Jr.
Edward D. Wood Jr.

A rendere leggendario il nome di Edward D. Wood Jr. ha contribuito il suo più celebre collega Tim Burton, che gli ha reso omaggio con il film biografico Ed Wood (1994), il cui cast comprende un intenso Johnny Depp ed uno straordinario Martin Landau, premiato con l’Oscar.
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Johnny Depp e Martin Landau in Ed Wood (1994)

Burton, da sempre fan di Wood, ebbe modo di leggere alcune sue lettere e fu colpito dalla considerazione che egli aveva dei propri film, come se fossero dei capolavori assoluti, mentre i suoi contemporanei li reputavano i peggiori film di sempre.
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Glen or Glenda (1953) e La sposa del mostro (1955)

A riprova del grande rispetto di Burton per Wood, il biopic è intriso di ammirazione (in modo partecipato ed esagerato, a detta dello stesso regista), più che finalizzato alla derisione del lavoro del protagonista. Burton riconobbe infatti di aver probabilmente rappresentato Wood ed il suo staff con troppa indulgenza, affermando di “non voler ridicolizzare persone che sono già state ridicolizzate per un considerevole periodo della loro vita”. Il regista ha inoltre affermato che, nel film Edward mani di forbice (1990), il protagonista si chiama Edward in onore di Wood.
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Edward mani di forbice (1990)

Uno dei punti focali nella vita di Edward D. Wood Jr., così come nel film Ed Wood, è la sua profonda amicizia con Bela Lugosi, attore ungherese sulla via del declino ed un tempo indiscussa star di Hollywood, per il quale Wood aveva una sconfinata ammirazione.
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Wood e Lugosi sul set di Glen or Glenda, Depp e Landau in Ed Wood

Il rapporto tra Ed Wood e Bela Lugosi ne ricorda molto un altro: quello tra il regista Tim Burton e il suo idolo di sempre, l’attore Vincent Price. In un’intervista, Burton disse: “incontrare Vincent ebbe un impatto incredibile per me, lo stesso impatto che deve aver avuto su Ed incontrare il suo idolo e lavorare con lui”.
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Tim Burton e Vincent Price

A Vincent Price, eccellente attore dall’aspetto aristocratico, icona del cinema horror degli Anni ’50 e ’60, Tim Burton ha dedicato il film Edward mani di forbice, in cui Price recita per l’ultima volta.
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Vincent Price
Vincent Price (in primo piano e insieme a Tim Burton e Johnny Depp sul set di Edward mani di forbice)