Premi Oscar 2022

La 94ª edizione degli Academy Awards sarà purtroppo ricordata per quello che molti hanno definito il momento più brutto nella storia degli Oscar. Durante la presentazione del premio per il miglior documentario, il comico Chris Rock si è rivolto alla moglie di Will Smith, Jada Pinkett Smith, paragonandola alla Demi Moore del film Soldato Jane per la sua testa rasata. Pinkett Smith soffre di alopecia e il suo disappunto per la pessima battuta, all’insegna del body shaming, ha innescato la violenta e ingiustificabile reazione del marito Will Smith, che è salito sul palco e ha schiaffeggiato il presentatore.

Poco dopo, Smith ha ricevuto il suo primo Oscar in carriera come miglior attore protagonista: in lacrime durante il discorso di accettazione, l’attore si è scusato con l’Academy e con gli altri candidati per il proprio gesto sconsiderato, motivandolo con l’amore verso i propri cari e ricevendo dal pubblico una standing ovation decisamente fuori luogo.

Una famiglia vincente – King Richard

L’Oscar a Will Smith era il più scontato della serata: per il ruolo di Richard Williams nel biopic Una famiglia vincente – King Richard, storia del padre e allenatore delle sorelle campionesse di tennis Venus e Serena Williams, l’attore aveva già vinto i maggiori premi internazionali (Golden Globe, Screen Actors Guild Award, Critics Choice Award e BAFTA). Una lodevole interpretazione in un film godibile e ben costruito, seppur leggermente sminuito dall’etichetta di ennesimo stereotipo del sogno americano.

Nettamente sfavoriti alla vigilia gli altri candidati, nonostante l’eccellente performance di Benedict Cumberbatch (Il potere del cane) il momento d’oro di Andrew Garfield (Tick, Tick… Boom!) e il solito intramontabile Denzel Washington (Macbeth).

Il potere del cane

Il potere del cane ha conquistato l’altra statuetta ampiamente annunciata, la sua unica a fronte di 12 nomination (il numero più alto in questa edizione): l’Oscar al miglior regista è andato infatti alla neozelandese Jane Campion, prima donna a essere candidata più di una volta per il premio e già vincitrice del Leone d’argento alla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia. Dopo la vittoria dello scorso anno di Chloé Zhao con Nomadland, è la prima volta che l’Oscar viene assegnato a una donna per due edizioni consecutive.

Suggestive inquadrature e notevoli riprese dall’alto in un film solo all’apparenza definibile western: Il potere del cane è un dramma cupo e inquietante, con personaggi ambigui e un’atmosfera intrisa di perversione. Bravi gli attori (Kirsten Dunst, Jesse Plemons e il luciferino Kodi Smit-McPhee, oltre a Cumberbatch), tutti e quattro candidati all’Oscar.

CODA – I segni del cuore

Decisamente troppe le 10 pellicole candidate all’Oscar per il miglior film, la metà delle quali non aveva alcuna possibilità di vittoria. Il premio è infine andato con merito a un outsider: CODA – I segni del cuore. Remake de La famiglia Bélier (2014) di Éric Lartigau, CODA è l’acronimo di Child Of Deaf Adult, ossia persona udente cresciuta da genitore sordo: la protagonista Ruby Rossi (Emilia Jones) è l’unico membro udente della propria famiglia, avendo padre, madre e fratello sordi, e ha una grande passione per la musica.

La pellicola affronta una tematica delicata da un punto di vista originale e coinvolgente: la disabilità non è rappresentata come un dramma, ma come qualcosa di speciale come il legame che crea tra le persone. CODA pone luce con leggerezza e semplicità sulla difficoltà di comunicare in contesti ancora impreparati alla diversità e sulla caparbietà nel superarla. Un film allegro e allo stesso tempo emozionante, dal messaggio fortemente positivo, diverso da tutti gli altri in gara.

Marlee Matlin, la madre di Ruby nel film, è stata la prima interprete sorda a conquistare un Oscar e la donna più giovane a vincere la statuetta come miglior attrice protagonista per Figli di un dio minore (1986), debuttando all’età di 21 anni: lei e Troy Kotsur, premiato come miglior attore non protagonista per la magnifica interpretazione del padre di Ruby, sono quindi gli unici due attori sordi ad aver vinto un Oscar. Grande soddisfazione anche per la regista e sceneggiatrice Siân Heder, che si aggiudica il premio per la miglior sceneggiatura non originale. Un vero e proprio trionfo per CODA, che conquista tutti e tre gli Oscar per cui era candidato.

Gli occhi di Tammy Faye

Se l’Oscar al miglior attore era praticamente già assegnato, molto più tirata è stata la sfida per l’Oscar alla miglior attrice, dove il testa a testa tra Nicole Kidman e Jessica Chastain si è concluso con la vittoria di quest’ultima per Gli occhi di Tammy Faye, film biografico incentrato sulla vita della famosa telepredicatrice: una statuetta meritata in un film piuttosto lento e fiacco, trascinato quasi unicamente dalla sua performance; premiati con l’Oscar anche i trucchi e le acconciature, impeccabili al punto da rendere l’attrice irriconoscibile.

Nicole Kidman, già vincitrice del Golden Globe per A proposito dei Ricardo, è stata poco aiutata da un film abbastanza piatto e da un’interpretazione un po’ troppo asettica di quella Lucille Ball resa celebre dalla sensazionale mimica facciale e dalla strepitosa verve comica. Davvero difficile la scelta finale, considerato anche il livello delle altre tre candidate: la sorprendente Kristen Stewart nel ruolo di Lady Diana in Spencer, la splendida Penelope Cruz in Madres paralelas di Pedro Almodóvar e la sempre bravissima Olivia Colman ne La figlia oscura di Maggie Gyllenhaal, quest’ultima penalizzata forse dall’aver condiviso la scena con la stella emergente Jessie Buckley, a sua volta candidata come miglior attrice non protagonista.

West Side Story

Era davvero impossibile per West Side Story replicare il successo dell’omonimo capolavoro girato 60 anni prima (1961), vincitore di 10 Oscar e considerato uno dei migliori musical di tutti i tempi. La pellicola, diretta da Steven Spielberg, è riuscita però a ritagliarsi uno spazio importante in questa rassegna degli Academy Awards grazie alla statuetta conquistata da Ariana DeBose come miglior attrice non protagonista nel ruolo di Anita, entrando di diritto nella storia del cinema: l’attrice interprete di Anita nel film del 1961, Rita Moreno, aveva infatti vinto a sua volta l’Oscar come miglior attrice non protagonista.

Anita raggiunge quindi Don Corleone e Joker tra i personaggi le cui interpretazioni hanno guadagnato più di un Oscar, ma la sua doppietta è, se vogliamo, ancora più speciale: mentre gli altri compaiono in due distinte narrazioni (Il padrino e Il padrino – Parte II, Il cavaliere oscuro e Joker), in questo caso l’interpretazione dello stesso personaggio in entrambi gli adattamenti cinematografici della stessa opera viene premiata con lo stesso Oscar.

Belfast

Kenneth Branagh ha finalmente conquistato il suo primo Oscar in carriera per la sceneggiatura originale del semi-autobiografico Belfast: un degno riconoscimento per uno degli artisti più poliedrici del panorama cinematografico mondiale, come testimoniato dallo straordinario dettaglio delle 7 diverse nomination su 8 totali (film, regista, attore protagonista, attore non protagonista, sceneggiatura non originale, sceneggiatura originale, cortometraggio) in oltre 30 anni (la prima nel 1990).

Il suo Belfast è un film intenso e coraggioso sul conflitto nordirlandese tra cattolici e protestanti visto dalla prospettiva di un bambino, con un’iconica fotografia in bianco e nero e ottimi interpreti, piccoli e grandi, tra i quali spicca la performance di Ciarán Hinds nel ruolo del nonno.

Drive My Car

Quasi scontato l’Oscar come miglior film internazionale a Drive My Car di Ryūsuke Hamaguchi (Giappone), candidato anche nelle categorie Miglior film, Miglior regista e Miglior sceneggiatura non originale e dato per favorito rispetto a Flee (Danimarca), La persona peggiore del mondo (Norvegia) e al nostro È stata la mano di Dio di Paolo Sorrentino.

Già vincitore del Golden Globe per il miglior film in lingua straniera e del Prix du scénario (premio alla migliore sceneggiatura) al Festival di Cannes, Drive My Car è un dramma introspettivo sul rimpianto e l’accettazione di sé stessi, ma anche un omaggio al teatro, alla sua capacità di unire personalità e linguaggi diversi, al potere che esercita su chi vi si dedica. Un film impegnativo, ancora di più per la durata di quasi tre ore, ma senza dubbio da vedere.

Dune

A sorpresa, il film più premiato in questa edizione degli Academy Awards è stato Dune di Denis Villeneuve, prima parte dell’adattamento cinematografico dell’omonimo romanzo di Frank Herbert già portato sullo schermo nel 1984 da David Lynch, vincitore di 6 Oscar su 10 nomination: fotografia, montaggio, sonoro, scenografia, effetti speciali e colonna sonora al leggendario Hans Zimmer, alla seconda statuetta in carriera dopo quella per Il re leone (1995).

Un avvincente film di fantascienza supportato da un pregevole cast corale comprendente Timothée Chalamet, Rebecca Ferguson, Oscar Isaac, Zendaya, Jason Momoa, Josh Brolin, Stellan Skarsgård, Javier Bardem e Charlotte Rampling.

Il remake vince facilmente il confronto con il film originale, sommerso a suo tempo da critiche ben poco lusinghiere:

Molti dei personaggi di Dune sono sensitivi, il che li mette nella posizione unica di essere in grado di capire ciò che accade nel film.

Janet Maslin

Ci sono voluti a Dune circa nove minuti per spogliarmi completamente di ogni aspettativa.
Questo film è un vero casino, un’incomprensibile, brutta, non strutturata, inutile escursione nei reami più oscuri di una delle sceneggiature più confuse di tutti i tempi.

Roger Ebert

L’Oscar onorario è stato assegnato agli attori Samuel L. Jackson, Elaine May e Liv Ullmann, mentre Danny Glover ha ricevuto il Premio umanitario Jean Hersholt per il suo decennale impegno nella difesa della giustizia e dei diritti umani. Crudelia, reboot e prequel de La carica dei 101, premiato con l’Oscar per i migliori costumi. Miglior film d’animazione Encanto, 60° classico Disney, miglior canzone No Time To Die di Billie Eilish e Finneas O’Connell per l’omonimo film, 25° capitolo della saga di James Bond.

Zero Oscar!

Grande delusione, infine, per tante pellicole pluricandidate, alcune delle quali annunciate come possibili outsider: La figlia oscura, Licorice Pizza, La persona peggiore del mondo, A proposito dei Ricardo, Macbeth, Tick, Tick… Boom!, Madres paralelas, Don’t Look Up e La fiera delle illusioni – Nightmare Alley tornano a casa senza nemmeno una statuetta.

Anastasia: origini di una leggenda

Anastasia è una commedia romantica del 1956 diretta da Anatole Litvak e interpretata da Ingrid Bergman, Yul Brynner, Helen Hayes e Akim Tamiroff.

A Parigi, nel 1928, il generale Bounine (Brynner) istruisce Anna Korev (Bergman), una giovane affetta da amnesia fuggita da un manicomio, sperando di farla passare per la granduchessa Anastasia, sopravvissuta secondo la leggenda all’eccidio della famiglia imperiale: l’obiettivo di Bounine è far riconoscere ufficialmente la donna da parenti e conoscenti sfruttando la notevole somiglianza fisica con la principessa e l’impossibilità di risalire alle sue vere origini, così da potersi impossessare del tesoro dei Romanov, custodito in una banca inglese.

Anastasia (1956)

Anna non solo riesce a recitare la parte alla perfezione ma, apparentemente grazie ai ricordi che ogni tanto riaffiorano nella sua mente, finisce col credere di essere davvero Anastasia. Dopo diversi tentativi la donna riesce a incontrare l’imperatrice madre Marija Fëdorovna (Hayes) che, dopo un’iniziale esitazione, riconosce in lei la nipote. Nel frattempo Bounine, innamoratosi di Anna, rinuncia a ogni pretesa sull’eredità: la donna, che ricambia i suoi sentimenti, dovrà quindi scegliere tra l’amore e i fasti della vita nobiliare.

A sinistra, il regista Anatole Litvak con Ingrid Bergman e Yul Brynner; a destra, i due attori in una scena del film

Anastasia fece guadagnare a Ingrid Bergman il suo secondo Oscar come miglior attrice, segnando il suo trionfale ritorno a Hollywood dopo gli anni di ostracismo a cui era stata sottoposta per la chiacchierata relazione con il regista Roberto Rossellini, iniziata nel 1950 durante le riprese di Stromboli (Terra di Dio) mentre entrambi erano sposati. La notizia della gravidanza della Bergman aveva suscitato grande scandalo nella bigotta e perbenista opinione pubblica americana: l’attrice dall’aspetto angelico era diventata improvvisamente “un’adultera da lapidare” e la stampa l’aveva definita “Hollywood’s apostle of degradation” (“apostolo della degradazione di Hollywood”), montando contro di lei una campagna denigratoria senza precedenti. Gli strascichi si erano protratti a tal punto da impedire alla Bergman di presenziare di persona alla cerimonia degli Oscar: la statuetta venne ritirata dal suo grande amico Cary Grant. Come la sua Anna Korev nel film, la Bergman rinacque in Anastasia.

Ingrid Bergman in Stromboli (Terra di Dio)

Il 1956 fu un anno trionfale anche per Yul Brynner, in quel momento all’apice della carriera: oltre al ruolo del generale Bounine in Anastasia, l’attore era reduce dal successo de Il re ed io di Walter Lang, per il quale era stato premiato con l’Oscar (Anastasia vanta quindi nel cast i due Premi Oscar come miglior attore e miglior attrice del 1957), e aveva offerto una memorabile interpretazione del faraone Ramesse II nel kolossal I dieci comandamenti di Cecil B. DeMille. Celebre per il capo rasato, divenuto un suo tratto caratteristico così come il suo sguardo penetrante, Brynner dava il meglio di sé nei ruoli esotico-orientali, esaltando le sue origini russe: in Anastasia (e nel successivo Karamazov di Richard Brooks del 1958) riemerge anche il suo passato di talentuoso chitarrista nei locali notturni parigini.

Yul Brynner alla cerimonia degli Oscar (in alto a sinistra), ne Il re ed io (in alto a destra), in Karamazov (in basso a destra), ne I dieci comandamenti (in basso a sinistra)

Nel 1997, la 20th Century Fox produsse il film d’animazione Anastasia, a sua volta basato sulla leggenda della principessa sopravvissuta. Inevitabilmente molto lontano dalla realtà storica, il cartone animato prende tuttavia spunto da un evento realmente accaduto: le celebrazioni per i trecento anni dall’insediamento della dinastia Romanov (l’anniversario fu nel 1913, non nel 1916 come riportato) erano state offuscate da oscuri presagi. Il monaco Grigorij Rasputin affermò che il potere dei Romanov sarebbe tramontato se fossero entrati in guerra e non sarebbe sopravvissuto due anni alla sua morte se alla base di questa ci fosse stato qualcuno dei membri della famiglia: due previsioni che si sarebbero avverate poco tempo dopo. Nel cartone animato, dietro la fine dei Romanov c’è proprio una maledizione di Rasputin, ma in realtà egli era già morto al momento dell’eccidio.

Anastasia (1997)

Vi sono diversi riferimenti alla vita del vero Rasputin: l’annegamento del monaco all’inizio del film rievoca l’ultimo atto dei suoi assassini, che lo gettarono nel fiume Neva dopo avergli sparato più volte, per essere sicuri di averlo eliminato; l’essere un non-morto che continua a vivere seppur ridotto a pezzi riprende le sue leggendarie capacità di sopravvivenza. Una delle maggiori inesattezze storiche è però proprio nella rappresentazione di Rasputin: la versione dell’uomo malvagio e assetato di potere è stata spesso sposata dai media (da citare Rasputin, il monaco folle del 1966 diretto da Don Sharp con Christopher Lee nei panni del protagonista), ma è basata sulle calunnie diffuse all’epoca dall’aristocrazia russa per diffamarlo. Molto probabilmente si trattava di un imbonitore che sfruttava la sua influenza sulla famiglia imperiale per il proprio tornaconto, non tanto diverso da altri santoni dell’epoca, e pertanto inviso alla casta nobiliare, invidiosa della sua posizione.

Christopher Lee in Rasputin, il monaco folle (1966)

La vicenda di Anna Anderson

Ma come mai proprio la granduchessa Anastasija Nikolaevna Romanova è divenuta leggenda?

Anastasija Nikolaevna Romanova

Il film Anastasia è incentrato sulla storia romanzata di Anna Anderson, il cui nome è utilizzato esplicitamente come pseudonimo della protagonista in una scena.

Ricoverata in un ospedale psichiatrico a Berlino nel febbraio 1920 in seguito a un tentativo di suicidio, Anna Anderson sostenne di essere la granduchessa Anastasija, quartogenita dello zar Nicola II Romanov. La notizia accese battaglie legali e giornalistiche tra detrattori e sostenitori della donna: su questi ultimi pesava il forte sospetto di interessi legati al recupero dell’ingente tesoro dei Romanov. Le dispute coinvolsero anche parenti e altri personaggi vicini alla famiglia dello zar, ma per anni non giunsero né conferme né smentite sulla reale identità della donna, non esistendo prove documentali dirette o evidenze fisiche inconfutabili. Tra l’altro la Anderson, affetta da seri disturbi psichici, si dimostrava tutt’altro che collaborativa.

Anna Anderson

La storia di Anna Anderson apparve da subito controversa. Alcuni sostenevano le sue pretese, suffragate da presunte coincidenze anatomiche (colore degli occhi, altezza e presenza di una piccola deformità ai piedi). I detrattori controbattevano che eventuali riconoscimenti da parte di parenti e conoscenti potevano essere facilmente influenzati dal desiderio di ritrovare viva la granduchessa. Inoltre, le somiglianze fisiche potevano essere comuni a più donne e la conoscenza della vita di corte era spiegata in dettaglio in molti libri e poteva dunque essere facilmente memorizzata anche nei particolari.

Sin dagli Anni ’20, molti personaggi di fantasia si sono ispirati alla vicenda di Anna Anderson. Nel 1953, l’autrice francese Marcelle Maurette scrisse Anastasia, una pièce basata su Anastasia, a Woman’s Fate as Mirror of the World Catastrophe della scrittrice tedesca Harriet von Rathlef e su La falsa Anastasia: storia di una presunta Gran Duchessa di Russia di Pierre Gilliard, precettore dei figli dello zar sopravvissuto al destino dei Romanov: la prima a sostegno della Anderson, il secondo tra i più strenui oppositori. È lo spettatore a decidere se credere o meno che la protagonista, Anna, sia davvero Anastasia. La commedia, con protagonista l’attrice Viveca Lindfors, fece il giro del mondo e riscosse tanto successo da essere riadattata in inglese da Guy Bolton per l’omonimo film del 1956.

A sinistra, la scrittrice Marcelle Maurette; a destra, le attrici Viveca Lindfors e Eugenie Leontovich nella pièce Anastasia

Anna Anderson sostenne di essere la granduchessa Anastasija fino alla sua morte, sopraggiunta nel 1984: solo nel 1994 le analisi del DNA confermarono che ella non poteva in alcun modo essere imparentata con la famiglia Romanov, ma che si trattava di Franziska Schanzkowski, una malata di mente di origine polacca scomparsa da un ospedale psichiatrico di Berlino nel 1919.

Ma cosa ha alimentato per quasi un secolo la leggenda di membri della famiglia imperiale russa sopravvissuti alla Rivoluzione?

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La storia dietro la leggenda

Nella Russia zarista di inizio ‘900 le drammatiche condizioni di vita spinsero la popolazione a manifestazioni di protesta sempre più frequenti e il tradizionale sistema di potere autocratico iniziò a mostrare le prime consistenti crepe, acuite dall’umiliante sconfitta nella guerra russo-giapponese (1904–1905).

Il 22 gennaio 1905, a San Pietroburgo, l’esercito imperiale represse nel sangue una manifestazione pacifica di operai e contadini, recatisi davanti al Palazzo d’Inverno per chiedere riforme allo zar Nicola II: la Domenica di sangue segnò l’inizio della Prima rivoluzione russa. I lavoratori, organizzatisi nei soviet, indissero uno sciopero nazionale e chiesero la proclamazione di una repubblica democratica. Un’ondata di rivolte paralizzò il Paese: tra queste, l’ammutinamento della corazzata Potëmkin, immortalato nell’indimenticabile capolavoro (1925) del cineasta sovietico Sergej Michajlovič Ėjzenštejn.

La corazzata Potëmkin (1925)

Sin dalla creazione dell’Impero russo, gli zar avevano sempre regnato come monarchi assoluti. Il 30 ottobre 1905, Nicola II firmò il Manifesto di ottobre, rinunciando al potere legislativo in favore di un parlamento elettivo, la Duma di Stato. Ben presto, però, essendo la Duma in costante disaccordo con lo zar, questi cambiò la legge elettorale concedendo il diritto di voto alle sole classi più abbienti. Il Paese ripiombò nel caos: per sedare scioperi e sommosse venne decretata la legge marziale.

Lo zar Nicola II Romanov era succeduto al padre Alessandro III, morto improvvisamente a 49 anni, nel 1894. Mancandogli una completa educazione al ruolo, si era attenuto alla linea politica paterna, rifiutando testardamente di comprendere una realtà del tutto diversa rispetto al passato. L’inesperienza, l’indolenza e il totale disinteresse per le questioni di carattere sociale resero lo zar facilmente influenzabile e sempre più impopolare: a ciò contribuì in maniera determinante sua moglie, la zarina Aleksandra Fëdorovna, oppressa dalla paura e dal senso di colpa per aver trasmesso l’emofilia all’unico figlio maschio ed erede, lo zarevic Aleksej, esposto al pericolo di forti emorragie per ogni minimo trauma. La costante preoccupazione per la precaria salute di Aleksej spinse la zarina verso un sempre più forte misticismo e la indusse ad affidarsi a santoni e presunti guaritori, il più importante dei quali divenne lo starec (mistico cristiano ortodosso) siberiano Grigorij Rasputin.

Rasputin riuscì più volte a salvare l’erede da gravi crisi, al punto da guadagnare la più completa fiducia della zarina, che col tempo arrivò a richiedere il suo parere anche in ambito politico e strategico, fino a diventare quasi del tutto dipendente dalla sua opinione. Nicola II e Aleksandra Fëdorovna ebbero cinque figli: le granduchesse Ol’ga, Tat’jana, Marija e Anastasija, e il granduca Aleksej. Il misticismo della zarina e la salute di Aleksej allontanarono sempre di più la famiglia imperiale dalla corte e dagli affari di Stato, alimentando le tensioni politiche e l’insofferenza di una popolazione già allo stremo.

La famiglia imperiale: in piedi, da sinistra, le granduchesse Tat’jana e Ol’ga; seduti, da sinistra, la granduchessa Marija, la zarina Aleksandra Fëdorovna, lo zarevic Aleksej, lo zar Nicola II, la granduchessa Anastasija

Nel 1914, la miccia decisiva: la Prima Guerra Mondiale. L’Impero russo entrò in guerra insieme alle altre potenze della Triplice Intesa contro gli Imperi centrali e, grazie alla numerosissima popolazione, fu in grado di schierare un esercito di gran lunga superiore alla totalità dei contingenti nemici riuniti. Ben presto, però, le carenze organizzative e la mancanza di rifornimenti e armamenti adeguati fecero emergere tutta l’arretratezza del sistema politico, economico e industriale russo: gli iniziali e irrilevanti successi lasciarono man mano spazio a pesanti sconfitte, finché l’esercito non fu costretto a ritirarsi per difendere i confini della stessa Russia.

Fanteria russa durante la Prima Guerra Mondiale

I disastri militari spinsero lo zar a prendere il comando diretto dell’esercito e a trasferirsi presso lo Stato Maggiore. La gestione del potere nella Capitale (rinominata Pietrogrado nel 1914 per volere dello zar) venne quindi lasciata alla zarina, già sospettata di essere filogermanica per le sue origini tedesche e in quel momento del tutto succube di Rasputin: il prestigio e la credibilità della famiglia imperiale subirono un colpo fatale. Al malumore delle truppe al fronte si aggiunse la sempre maggiore agitazione popolare, esacerbata dall’inflazione e dalla mancanza di generi alimentari e combustibili: scioperi e manifestazioni ripresero in molte città. Il 30 dicembre 1916, Rasputin venne assassinato in una congiura ordita da un gruppo di aristocratici nell’illusione di risollevare la reputazione dei Romanov, ma ormai era troppo tardi.

A sinistra, lo starec Grigorij Rasputin; a destra, una caricatura anonima di Rasputin con la coppia imperiale (1916).

L’8 marzo 1917 (23 febbraio secondo il calendario giuliano, allora vigente in Russia) a Pietrogrado il popolo insorse per la mancanza di viveri. Nel 1905, in una situazione simile, le truppe avevano sparato sui dimostranti, ma stavolta i soldati si unirono a loro: la Rivoluzione di febbraio rovesciò il regime zarista, costringendo Nicola II ad abdicare (15 marzo), e portò alla formazione di un governo provvisorio guidato da cadetti, menscevichi e socialisti rivoluzionari.

La Rivoluzione di febbraio consegnò tuttavia il potere a politici che intendevano continuare la guerra e che non avevano intenzione di cedere le proprietà personali: la situazione non appariva molto diversa alla maggioranza della popolazione. Sempre più persone iniziarono a seguire i bolscevichi, che si proponevano di trasferire tutto il potere ai soviet (i consigli dei delegati di operai, soldati e contadini) e di uscire immediatamente dal conflitto mondiale.

La notte tra il 6 e il 7 novembre 1917 (24 e 25 ottobre secondo il calendario giuliano) i bolscevichi occuparono i punti nevralgici della Capitale: la Rivoluzione di ottobre rovesciò il governo provvisorio e segnò la nascita della Repubblica Socialista Federativa Sovietica Russa. Il 3 marzo 1918 la Russia bolscevica firmò la pace di Brest-Litovsk con gli Imperi centrali, accettando di perdere Finlandia, Estonia, Lettonia, Lituania, Polonia, Bielorussia e Ucraina.

Soldati a Mosca durante la Rivoluzione di ottobre

Dopo l’abdicazione dello zar, la famiglia imperiale venne posta agli arresti domiciliari per poi essere trasferita a Ekaterinburg, nella regione degli Urali, e tenuta in isolamento a Casa Ipat’ev. Nel frattempo le forze contro-rivoluzionarie, sostenute dalle potenze straniere, si riorganizzarono e lanciarono l’attacco al potere bolscevico: fu l’inizio di una cruenta guerra civile che si sarebbe conclusa nel 1922 con la vittoria dell’Armata Rossa (bolscevichi) sull’Armata Bianca (contro-rivoluzionari) e che avrebbe portato alla nascita dell’Unione Sovietica.

L’avanzata dell’Armata Bianca nella regione degli Urali nelle prime fasi della guerra civile segnò un drammatico punto di svolta: i bolscevichi non volevano che i Romanov cadessero nelle mani dei contro-rivoluzionari, poiché qualsiasi membro della famiglia imperiale sarebbe potuto diventare un baluardo della resistenza ed essere considerato ancora il legittimo regnante di Russia da parte delle altre potenze europee. Fu quindi deciso di eliminare lo zar e la sua famiglia, che vennero fucilati il 17 luglio 1918 nello scantinato di Casa Ipat’ev. I corpi furono occultati nei boschi presso Ekaterinburg. La vita dell’ultimo zar di Russia è raccontata nel film Nicola e Alessandra di Franklin J. Schaffner (1971).

Una scena del film Nicola e Alessandra (1971)

Due giorni dopo l’eccidio, il giornale locale di Ekaterinburg annunciò che “lo zar era stato giustiziato mediante plotone d’esecuzione” e che “la sua famiglia era stata portata in un posto sicuro“. Il 20 luglio venne diramato alla popolazione il comunicato ufficiale dell’avvenuta esecuzione. I bolscevichi si limitarono quindi ad annunciare alla stampa la morte di Nicola II, mentendo sulla sorte degli altri membri della famiglia.

Il 25 luglio l’Armata Bianca conquistò Ekaterinburg e iniziò le indagini sull’esecuzione e le ricerche dei corpi della famiglia imperiale, non riuscendo però a individuare il luogo della sepoltura: il rapporto Sokolov (dal nome dell’investigatore incaricato) riunì fotografie e testimonianze raccolte durante l’inchiesta e, fino al 1989, sarebbe stato l’unico resoconto ufficiale sulla vicenda. Il rapporto scatenò sdegno in tutto il mondo e fu bandito dalle autorità bolsceviche, che furono tuttavia costrette ad ammettere l’esecuzione dei familiari dello zar. L’assoluto silenzio imposto dal regime sulla sorte dei Romanov fece nascere da subito fantasie su possibili sopravvissuti all’eccidio di Ekaterinburg: fin dal 1919 iniziarono a comparire frotte di impostori che sostenevano di essere legittimi figli dello zar.

Il luogo di sepoltura dei Romanov venne scoperto nel 1979 dal ricercatore amatoriale Aleksandr Avdonin e dal regista Gelij Rjabov, dopo anni di studi e ricerche sul campo. I due recuperarono tre teschi, ma nessun laboratorio accettò di esaminarli e, preoccupati dalle conseguenze della scoperta, decisero di riseppellirli. La nuova attitudine all’apertura e alla trasparenza (glasnost’) predicata dal presidente Michail Gorbačëv spinse Rjabov a rivelare la sua scoperta al giornale The Moscow News il 10 aprile 1989. Nel 1991 i corpi di cinque membri della famiglia imperiale (lo zar, la zarina e tre delle loro figlie) furono riesumati e sottoposti a indagini forensi e identificazione del DNA, che ne confermarono le identità. La mancanza di due corpi, presumibilmente Aleksej e una tra Marija e Anastasija, diede nuova linfa alla leggenda che qualcuno dei Romanov si fosse misteriosamente salvato.

Il 29 luglio 2007, un gruppo di ricercatori amatoriali trovò una piccola tomba non lontana dal sito dove erano stati scoperti gli altri corpi, contenente i resti di due ragazzi. Il 30 aprile 2008, in seguito alla pubblicazione dei test del DNA, vennero definitivamente identificati i corpi della granduchessa Marija e dello zarevic Aleksej. Lo stesso giorno le autorità russe comunicarono ufficialmente che l’intera famiglia imperiale era stata identificata.