L’ultima Marilyn

Nella storia del cinema esiste un prima e dopo Marilyn Monroe: l’attrice è stata una delle icone del XX secolo che più hanno influenzato l’immaginario collettivo rivoluzionando i canoni di moda e bellezza. Approfondendo la sua vita, non siamo sopraffatti solo dal suo fascino senza tempo e dalla sua sensualità, ma percepiamo la sua intima fragilità: quel barlume di umanità con il quale, a 60 anni dalla sua tragica scomparsa, è ancora in grado di instillare in noi ammiratori un profondo e irrazionale senso di colpa e rabbia per non essere riusciti a salvarla.

Marilyn Monroe fotografata da Alfred Eisenstaedt nel 1953

Se le circostanze della sua morte non sono mai state del tutto chiarite, il clamore e l’aura di mistero che hanno circondato l’evento hanno contribuito a diffondere speculazioni di ogni genere sulla sua tormentata esistenza: una polveriera di denaro, sesso e politica che ha coinvolto la famiglia Kennedy e che in tanti hanno cercato di insabbiare.

Non esiste ammiratore di Marilyn Monroe che non abbia sentito almeno una volta la necessità di ricostruire i suoi ultimi mesi di vita, non riuscendo ad accettare il suo destino né le controverse versioni delle autorità sulla sua fine senza darsi una personale e plausibile spiegazione: forse un ultimo tentativo di capire chi fosse e cosa provasse Marilyn in quel periodo per restituirne il ritratto più autentico possibile, come se ci sentissimo in debito con lei almeno della verità.

Testimonianze imprescindibili, così profondamente connesse alla sua sfera privata, le riprese degli ultimi due film in cui Marilyn ha recitato: Gli spostati (1961) e Something’s Got to Give (1962), rimasto incompiuto.

Marilyn Monroe fotografata da Baron nel 1954

Da Norma Jeane a Marilyn Monroe

Marilyn Monroe nacque come Norma Jeane Mortenson l’1 giugno 1926. Il cinema era già nel suo destino: sua madre, Gladys Pearl Monroe, lavorava come impiegata alla Consolidated Film Industries e aveva voluto darle i nomi delle attrici Norma Shearer e Jean Harlow.

Alla nascita di Norma Jeane, Gladys aveva già avuto due figli dal matrimonio con John Newton Baker, dal quale aveva poi divorziato, e si era separata dal secondo marito Martin Edward Mortenson, da cui Norma Jeane aveva preso il cognome. Norma Jeane non conobbe mai il proprio padre. Solo pochi mesi fa un test del DNA ne ha confermato l’identità in Charles Stanley Gifford, collega della madre che l’aveva lasciata non appena informato della gravidanza.

Gladys era mentalmente instabile e non in grado di prendersi cura finanziariamente di Norma Jeane: ricoverata in preda a esaurimento nervoso, le venne diagnosticata una schizofrenia paranoide e fu dichiarata incapace di intendere e di volere. Per tutta la vita, non seppe mai che la sua Norma Jeane era diventata Marilyn Monroe.

Gladys e Norma Jeane

Fin dall’infanzia, Norma Jeane fu mandata in orfanotrofio e data in affido a diverse famiglie, dove spesso subì abusi e molestie. Grace McKee, archivista di pellicole alla Columbia Pictures e migliore amica di sua madre, divenne la sua tutrice, avvicinandola al mondo del cinema e di Hollywood. Compiuti 16 anni, il 19 giugno 1942 Norma Jeane sposò James Dougherty, il figlio di un vicino: un matrimonio organizzato dalla sua tutrice per non farla tornare in orfanotrofio.

Nel 1944, in piena Seconda Guerra Mondiale, Dougherty si arruolò nella marina mercantile e Norma Jeane iniziò a lavorare da operaia alla Radioplane Company, inizialmente come impacchettatrice di paracadute e poi come addetta alla verniciatura delle fusoliere degli aerei. Nel 1945, il fotografo David Conover si recò presso lo stabilimento in cerca di ragazze che tenessero su il morale delle truppe al fronte per un servizio sulla rivista Yank e le scattò alcune foto, che riscossero un immediato successo, esortandola a intraprendere la carriera di modella.

Norma Jeane fotografata da David Conover nel 1945

Norma Jeane lasciò quindi la fabbrica e divenne una pin-up, comparendo in servizi fotografici su varie riviste. Le sue foto furono notate da Emmeline Snively, direttrice della Blu Book School of Charm and Modeling, una delle più importanti agenzie pubblicitarie di Hollywood. Snively cambiò per sempre il suo look: da allora, la rossa e riccia Norma Jeane avrebbe avuto capelli biondi e lisci.

Grazie ai servizi fotografici, nell’agosto 1946 Norma Jeane firmò con la 20th Century Fox il suo primo contratto cinematografico, della durata di sei mesi e con un compenso di 125 dollari a settimana. Nel settembre 1946 divorziò da Dougherty, contrario alla sua carriera. Ben Lyon, l’attore e dirigente della Fox che aveva organizzato il suo provino, le consigliò di cambiare nome: furono scelti il cognome da nubile di sua madre, Monroe, e il nome della stella di Broadway Marilyn Miller. Da quel momento Norma Jeane Mortenson divenne per tutti Marilyn Monroe.

Marilyn Monroe fotografata da Frank Powolny nel 1952

Come nasce una stella

Marilyn dedicò da subito il massimo impegno alle lezioni di recitazione, canto e danza, ma per più di tre anni rimbalzò tra la 20th Century Fox e la Columbia Pictures (dove i suoi capelli furono definitivamente tinti in biondo platino), accettando ruoli insignificanti e miseri contratti. La svolta arrivò solo nel 1950, quando riuscì a catturare l’attenzione di pubblico e critica con la sua interpretazione in Giungla d’asfalto (The Asphalt Jungle) di John Huston che lanciò, di fatto, la sua carriera cinematografica.

Marilyn in Giungla d’asfalto

Il 1953 proiettò Marilyn tra le star di Hollywood: le interpretazioni in Niagara, Gli uomini preferiscono le bionde (Gentlemen Prefer Blondes) e Come sposare un milionario (How to Marry a Millionaire) riscossero uno straordinario successo e consacrarono l’attrice come assoluto sex symbol. A dicembre comparve sulla copertina e nel paginone centrale del primo numero della rivista Playboy.

Marilyn sul set di Niagara

L’anno successivo, Marilyn raggiunse l’apice della popolarità. Il 14 gennaio 1954 sposò il campione di baseball Joe DiMaggio, ma il chiacchieratissimo matrimonio ebbe vita breve: la scena della gonna di Marilyn sollevata dallo spostamento d’aria della metropolitana in Quando la moglie è in vacanza (The Seven Year Itch) di Billy Wilder, che sarebbe divenuto uno dei maggiori successi della diva, inflisse il colpo di grazia a un’unione già scricchiolante per la feroce gelosia dello sportivo italoamericano. Marilyn e DiMaggio divorziarono il 27 ottobre dello stesso anno.

Un fotogramma della celebre scena di Quando la moglie è in vacanza

Il 29 giugno 1956 Marilyn sposò il drammaturgo Arthur Miller, celebre autore di opere come Il crogiuolo, Erano tutti miei figli e Morte di un commesso viaggiatore. I media non furono teneri con la coppia, sottolineando in ogni modo l’antitesi tra la sex symbol e il letterato. La rivista Variety titolò Egghead Weds Hourglass: nello slang statunitense, letteralmente, Testa d’uovo (intellettuale) sposa clessidra (donna tutte curve).

Marilyn e Arthur Miller

Marilyn aveva appena compiuto 30 anni e già affermava di odiare Hollywood e di desiderare una famiglia e una vita normale, lontana dai riflettori. La sua carriera iniziava a mostrare i segni di un precoce declino. Voleva un figlio, ma in diverse occasioni non riuscì a portare a termine la gravidanza, in parte a causa dell’endometriosi di cui soffriva. Rientrata dall’Inghilterra dopo aver girato Il principe e la ballerina (The Prince and the Showgirl, 1957), che fu un totale insuccesso, ebbe una gravidanza ectopica; l’anno successivo, poco dopo aver concluso le riprese di A qualcuno piace caldo (Some Like It Hot, 1958) ebbe un aborto spontaneo. Nella sua vita, Marilyn ebbe in totale almeno 12 aborti.

Marilyn e Laurence Olivier ne Il principe e la ballerina

A qualcuno piace caldo, diretto da Billy Wilder e co-interpretato da Jack Lemmon e Tony Curtis, ebbe un successo straordinario e fu acclamato da pubblico e critica: sembrava la scintilla ideale per rilanciare la carriera di Marilyn, che vinse il Golden Globe come miglior attrice in un film commedia o musicale. La produzione del film, però, fu estremamente travagliata: Marilyn dimenticava spesso il copione, non seguiva le direttive del regista e chiedeva di rigirare le scene dozzine di volte, al punto che Tony Curtis dichiarò che baciarla era come baciare Hitler. Il regista Billy Wilder, nonostante i leggendari litigi sul set, in seguito descrisse il film come il suo più grande successo e dichiarò che lavorare con Marilyn era così difficile perché era del tutto imprevedibile, definendola un genio assoluto come attrice comica.

Marilyn in A qualcuno piace caldo

Marilyn si prese una pausa fino alla fine del 1959, quando accettò di recitare in Facciamo l’amore (Let’s Make Love) di George Cukor per rispettare il contratto con la 20th Century Fox. Durante le riprese ebbe una breve relazione col co-protagonista Yves Montand, marito dell’attrice Simone Signoret. Marilyn smentì pubblicamente il flirt, ma la stampa lo reclamizzò al punto da renderlo parte della campagna pubblicitaria del film, che si rivelò comunque un flop.

In quel periodo Marilyn iniziò a vedere uno psichiatra, il dottor Ralph Greenson: soffriva di insonnia e ingeriva eccessive dosi di farmaci, dai quali stava sviluppando una forte dipendenza. Secondo Greenson, il suo stato era dovuto al deteriorarsi del rapporto con il marito, verso il quale era sempre più insofferente.

Marilyn e Yves Montand in Facciamo l’amore

Gli spostati

Gli spostati (The Misfits, 1961) di John Huston, sceneggiato da Arthur Miller e co-interpretato da Clark Gable, Eli Wallach e Montgomery Clift, è un’analisi del malessere nella società statunitense attraverso la storia di una piccola comunità di sbandati che si illudono di essere dei ribelli senza padrone.

A Reno (Nevada) per divorziare dal marito assente, la bella e vulnerabile Roslyn (Marilyn) stringe amicizia con Gay (Gable), cowboy di mezza età, Guido (Wallach), meccanico e aviatore, e Perce (Clift), cowboy da rodeo. I tre, turbando la sensibilità di Roslyn, vanno a caccia di cavalli selvaggi da vendere a peso per farne cibo per cani. Roslyn si innamora, ricambiata, di Gay, che libera in suo omaggio lo splendido stallone catturato e domato a prezzo di una lotta furiosa.

Marilyn tra Montgomery Clift e Clark Gable sul set de Gli spostati

Arthur Miller aveva scritto la sceneggiatura del film come regalo di San Valentino per Marilyn, con un ruolo creato appositamente per lei, ma pochi mesi dopo il loro matrimonio era già naufragato: Marilyn odiava il fatto che il marito avesse basato sulla sua vita il personaggio di Roslyn, considerandolo inoltre inferiore alle parti maschili, e non sopportava la sua abitudine di riscrivere le scene la notte prima di girarle. In questa sorta di ritratto indiretto, tuttavia, Marilyn diede finalmente prova del proprio talento drammatico.

Marilyn con Clift, Gable, Wallach, Huston e Miller sul set de Gli spostati

Il rapporto con Miller si era comunque già da tempo incrinato per l’incompatibilità di carattere tra i due, che sarebbe poi diventata la motivazione ufficiale del loro divorzio. Marilyn, sul set come nella vita privata, era in quel periodo particolarmente instabile per l’abuso di alcool e farmaci, tra i problemi di salute cronici e le continue interruzioni di gravidanza.

Lo scrittore Truman Capote avrebbe voluto lei per interpretare Holly Golightly nell’adattamento cinematografico del suo Colazione da Tiffany (Breakfast at Tiffany’s), le cui riprese sarebbero iniziate nell’ottobre 1960, ma i produttori temevano che Marilyn avrebbe creato complicazioni e il ruolo andò ad Audrey Hepburn.

Le riprese de Gli spostati ebbero il via nel luglio 1960, nel torrido deserto del Nevada. Marilyn soffriva di calcoli biliari e assumeva farmaci sia per riposare che per svegliarsi, al punto che di solito veniva truccata mentre dormiva sotto l’effetto dei barbiturici. La sua dipendenza era talmente grave che nell’agosto 1960 il regista John Huston interruppe le riprese per due settimane per permetterle di disintossicarsi in ospedale.

Marilyn e il regista John Huston

Nel 1950 Huston aveva lanciato Marilyn nel suo primo ruolo di rilievo in Giungla d’asfalto e ne aveva visto poi crescere il mito: per un amaro scherzo del destino, diresse anche il suo ultimo film. Anni dopo, dichiarò di essere assolutamente certo che Marilyn fosse condannata: C’erano prove davanti a me quasi ogni giorno. Non poteva salvarsi o essere salvata da qualcun altro. I suoi dannati dottori l’avevano resa dipendente dai sonniferi.

Marilyn aveva problemi a ricordare le battute e non arrivava mai sul set prima delle 11:30, oltre due ore di ritardo rispetto a quanto stabilito; regista e attori, spazientiti, decisero di posticipare a quell’orario l’inizio delle riprese. Il più insofferente era Clark Gable, che per contratto lavorava solo dalle 9:00 alle 17:00 per poi tornare a casa dalla moglie incinta.

Marilyn e Gable ne Gli spostati

Benché da tempo malato di cuore e accanito fumatore, Gable rifiutò la controfigura in quasi tutte le scene più pericolose, in quella che sarebbe stata considerata una delle sue migliori interpretazioni. Le riprese terminarono il 4 novembre 1960; Gable ebbe un infarto due giorni dopo e morì il 16 novembre a soli 59 anni. La vedova dichiarò aspramente che lo stato di eterna attesa di Marilyn aveva contribuito alla prematura morte del marito.

Gli spostati fu quindi sia l’ultimo film completo di Marilyn che l’ultimo film di Gable, idolo d’infanzia della diva: in una delle sue ultime interviste, Marilyn confessò di aver fantasticato spesso che Gable fosse il padre che non aveva mai conosciuto.

Marilyn e Gable ne Gli spostati

L’11 novembre Marilyn e Arthur Miller si separarono ufficialmente, per poi divorziare il 24 gennaio 1961 a Ciudad Juárez, in Messico, dopo cinque anni di matrimonio. Gli spostati venne distribuito l’1 febbraio 1961 e fu un disastro al botteghino, ma la critica elogiò la sceneggiatura e le interpretazioni del quartetto di attori principali; la pellicola è stata recentemente rivalutata, tanto da essere considerata un cult degli Anni ’60.

Marilyn era ormai al limite: il 7 febbraio 1961, sempre più spesso preda di turbe psichiche, si recò volontariamente al Payne Whitney Psychiatric Clinic, l’ospedale psichiatrico di New York, sotto il falso nome di Faye Miller. Ben presto la casa di cura divenne per lei una prigione: chiese aiuto all’ex marito Joe DiMaggio, con cui aveva ristabilito un rapporto di amicizia, che riuscì a farla uscire e trasferire al Columbian Presbyterian, da cui venne dimessa poco dopo.

Marilyn e Joe DiMaggio all’epoca del loro matrimonio

A maggio subì un intervento chirurgico per l’endometriosi, a giugno una colecistectomia: dimessa l’11 luglio, fu colpita da un microfono durante l’assalto dei giornalisti. Non girò alcun film per tutto il 1961. Nel frattempo aveva iniziato una relazione con l’amico di lunga data Frank Sinatra, che durò diversi mesi: Sinatra aveva promesso di sposarla, ma nel gennaio 1962 la lasciò definitivamente annunciando il proprio matrimonio con l’attrice e ballerina Juliet Prowse, che poi non avvenne.

Marilyn e Frank Sinatra

Something’s Got to Give, i Kennedy e la morte

Something’s Got to Give (1962), diretto da George Cukor per la 20th Century Fox, doveva essere il remake della screwball comedy Le mie due mogli (My Favorite Wife, 1940) di Garson Kanin, con Cary Grant e Irene Dunne: oltre a Marilyn, il cast comprendeva Dean Martin e Cyd Charisse.

La fotografa Ellen Arden (Marilyn), moglie di Nick (Martin) e madre di due bambini, è dispersa in mare da cinque anni. Nick la fa dichiarare legalmente morta e si risposa con Bianca Russell (Charisse), ma proprio allora Ellen viene ritrovata su un’isola deserta e torna a casa. I figli non la riconoscono, ma la prendono in simpatia e la invitano a restare. Venuta a conoscenza del matrimonio di Nick e decisa a riconquistare la propria famiglia, Ellen decide di rivelarsi facendosi passare per la nuova tata svedese Ingrid Tic, catapultando Nick in un delicatissimo triangolo amoroso.

Marilyn sul set di Something’s Got to Give

Assente dallo schermo da oltre un anno, da tempo in precarie condizioni di salute e reduce dall’intervento alla cistifellea, Marilyn aveva perso più di 11 kg, raggiungendo il peso più basso della sua vita adulta. L’inizio delle riprese di Something’s Got to Give, previsto per gennaio 1962, era stato quindi posticipato a fine aprile per permetterle un pieno recupero.

Il 9 aprile 1962 Marilyn informò il produttore di Something’s Got to Give, Henry T. Weinstein, che la Casa Bianca le aveva chiesto di esibirsi in occasione del compleanno del Presidente John Fitzgerald Kennedy, a maggio: Weinstein l’aveva autorizzata, credendo che non ci sarebbero stati problemi sul set. Marilyn e JFK erano amanti probabilmente fin dal 1957, quando lui era ancora senatore del Massachusetts. Intermediari per i loro incontri erano stati Frank Sinatra e l’attore Peter Lawford, cognato del Presidente: Lawford aveva messo più volte la propria casa a loro disposizione.

Peter Lawford e JFK

Il 23 aprile, primo giorno di riprese, Marilyn telefonò a Weinstein per avvisarlo che non sarebbe stata presente a causa di una sinusite, contratta probabilmente dopo essersi recata all’Actors Studio di New York dall’insegnante di recitazione Lee Strasberg, per rivedere insieme la parte. La diagnosi del medico inviato dallo studio avrebbe posticipato le riprese del film di un altro mese, ma il regista George Cukor si rifiutò di aspettare e riorganizzò il programma in modo da iniziare a girare le scene in cui non compariva Marilyn.

Marilyn e il regista George Cukor sul set di Something’s Got to Give

Nel mese successivo le riprese proseguirono per lo più senza Marilyn, quasi sempre assente a causa di febbre, mal di testa, sinusite cronica e bronchite, e si accumularono altri 10 giorni di ritardo. La produzione era già fuori budget e la sceneggiatura, ancora in divenire, veniva riscritta ogni notte, costringendo una sempre più frustrata Marilyn a dover memorizzare nuove scene ogni giorno. Con l’avvicinarsi del compleanno del Presidente Kennedy (29 maggio), nessuno pensava che Marilyn avrebbe mantenuto il suo impegno con la Casa Bianca.

Il 19 maggio, invece, Marilyn partecipò ai festeggiamenti anticipati per il 45° compleanno del Presidente al Madison Square Garden di New York indossando l’iconico abito attillato in tessuto trasparente color carne con 2.500 strass cuciti all’esterno, che la faceva apparire nuda. Davanti a circa 15.000 persone, rivolgendosi al Presidente con voce intima e sensuale, cantò la celebre Happy Birthday, Mr. President, sostituendo Mr. President al nome di Kennedy nel tradizionale testo di Happy Birthday to You.

Happy Birthday, Mr. President

Il Presidente la ringraziò affermando che dopo aver ascoltato degli auguri di compleanno tanto dolci, poteva anche ritirarsi dalla politica, ma già da tempo aveva preso le distanze dall’attrice: il regalo di compleanno di Marilyn, un Rolex d’oro con incisa la frase Jack, with love as always from Marilyn, May 29th 1962 (Jack, con amore come sempre da Marilyn, 29 maggio 1962), venne donato a un dipendente. La performance di Marilyn fu una delle sue ultime apparizioni pubbliche di rilievo prima della sua morte, avvenuta meno di tre mesi dopo.

Marilyn tra Robert Kennedy e John Fitzgerald Kennedy

Il viaggio a New York aveva ulteriormente inasprito i rapporti con i dirigenti della 20th Century Fox, ma al suo ritorno Marilyn decise di dare a Something’s Got to Give una sensazionale spinta pubblicitaria facendo qualcosa che nessuna grande attrice di Hollywood aveva mai fatto prima.

In una scena del film, Ellen (Marilyn) nuota in piscina di notte, vede Nick (Martin) alla finestra e lo invita a unirsi a lei; Nick le chiede di uscire dalla piscina, quando si rende conto che Ellen è nuda. Marilyn avrebbe dovuto indossare un body, ma lo tolse subito per nuotare solo con lo slip di un bikini color carne. Se Something’s Got to Give fosse stato completato e distribuito come previsto, Marilyn sarebbe stata la prima stella del cinema a comparire in topless in un film di Hollywood nell’era del sonoro; un primato che spetterà invece all’attrice Jayne Mansfield nel misconosciuto Promises! Promises! dell’anno successivo (1963).

Marilyn in Something’s Got to Give

Quel 23 maggio sul set dovevano essere presenti solo i membri della troupe necessari a girare la scena, ma Marilyn aveva fatto entrare diversi fotografi, che l’avevano immortalata con e senza costume da bagno. Volendo spingere Liz Taylor fuori dalle copertine, nei mesi successivi permise a diverse riviste di pubblicare foto di lei parzialmente nuda. La copertina della rivista Life del 22 giugno mostrava Marilyn avvolta in un accappatoio di spugna blu con il titolo: A skinny dip you’ll never see on the screen (Un bagno nudo che non vedrete mai al cinema).

Marilyn sulla copertina di Life

L’1 giugno 1962, giorno del suo 36° compleanno, Marilyn girò una scena in giardino con Dean Martin e Wally Cox: sarà il suo ultimo giorno su un set cinematografico. Il 4 giugno Marilyn telefonò al produttore Weinstein per notificargli la propria assenza quel giorno, lamentando febbre e il riacutizzarsi della sinusite: fino a quel momento, era stata presente solo 12 giorni su 35.

Marilyn festeggia il proprio compleanno sul set col regista George Cukor

L’8 giugno la 20th Century Fox decise di licenziarla, fortemente appoggiata del regista Cukor, intentando contro di lei una causa da oltre mezzo milione di dollari. La decisione di licenziare Marilyn fu senza dubbio influenzata dalla massiccia debacle finanziaria in cui versava in quel periodo la 20th Century Fox per le riprese di Cleopatra (1963) di Joseph L. Mankiewicz, ancora oggi il film più costoso della storia del cinema: a fronte dei 2 milioni di dollari stimati inizialmente per la sua realizzazione, la pellicola ne avrebbe richiesti 44 (corrispondenti a 372 milioni di dollari attuali), rischiando di far fallire la casa di produzione.

Locandina di Cleopatra

I dirigenti della 20th Century Fox avevano pianificato l’uscita di Something’s Got to Give durante le vacanze di Natale di quell’anno proprio per compensare i costi di Cleopatra: alla disperata ricerca di un capro espiatorio per salvare la faccia, iniziarono una campagna denigratoria a mezzo stampa scandalistica contro Marilyn, additando la sua sregolatezza come causa di un millantato sforamento del budget di oltre 1 milione di dollari, accusandola di aver finto di essere malata e diffondendo addirittura la voce che fosse mentalmente disturbata.

Il ruolo di Marilyn fu offerto a Kim Novak e Shirley MacLaine, ma entrambe rifiutarono; trapelò il nome di Lee Remick, che aveva provato gli abiti di scena ed era stata fotografata con il regista, ma la notizia si rivelò una montatura della stampa. Dean Martin si rifiutò di continuare senza Marilyn e minacciò di abbandonare il film.

Marilyn e Martin in Something’s Got to Give

Per riscattare la propria immagine pubblica, Marilyn si lanciò in una serie di iniziative pubblicitarie, tra cui varie interviste per le riviste Life e Cosmopolitan e due servizi fotografici con Bert Stern per Vogue: uno doveva essere un classico editoriale di moda, nell’altro Marilyn posò nuda. Nei tre giorni di lavoro all’Hotel Bel-Air di Hollywood, Stern le scattò in totale 2.571 foto, che pubblicò solo nel 1982 raccogliendole nel libro The Last Sitting.

Marilyn fotografata da Bert Stern

Le riprese di Something’s Got to Give avevano ormai raggiunto una rovinosa fase di stallo. La 20th Century Fox pensò addirittura di utilizzare il materiale già girato con Marilyn aggiungendo solo una controfigura per le scene mancanti, ma presto si pentì di averla licenziata, riaprì le negoziazioni verso fine giugno e dovette sottostare alle sue condizioni: Marilyn avrebbe ricevuto 500.000 dollari per Something’s Got to Give, le cui riprese sarebbero state posticipate a ottobre, e altrettanti per un altro film, più bonus se completati in tempo; George Cukor sarebbe stato sostituito alla regia da Jean Negulesco, che aveva diretto Marilyn in Come sposare un milionario.

Il 13 luglio 1962, Marilyn posò sulla spiaggia di Santa Monica per il fotografo e amico George Barris, con cui aveva lavorato 8 anni prima in Quando la moglie è in vacanza. Le foto, che per anni Barris rifiutò di pubblicare, vedono Marilyn in bikini arancione, avvolta in un telo da mare verde e con indosso un pullover di lana a maglia larga: saranno gli ultimi scatti della diva.

Marilyn fotografata da George Barris

Col passare del tempo, faceva sempre più freddo. Marilyn voleva smettere.
Questa è l’ultima. -le dissi-
Ok, George. -rispose lei- Questa è solo per te.
Si sporse in avanti e mandò un bacio alla telecamera. Era l’ultima foto che le avrei mai scattato.

(George Barris sull’ultima foto di Marilyn)
L’ultima foto di Marilyn

In quel periodo Marilyn viveva nella sua residenza di Brentwood, a Los Angeles, che aveva acquistato a gennaio di quell’anno. Dopo la fine della relazione col Presidente Kennedy era divenuta amante di suo fratello Robert, allora Procuratore generale, e aveva confidato ad amici e perfino giornalisti che presto avrebbe sposato un uomo molto importante, dichiarando inoltre di essere incinta. Non si conosceva l’identità del padre del nascituro, ma si presumeva potesse essere proprio Robert Kennedy.

Nel frattempo, l’attore e cognato di Kennedy Peter Lawford aveva assunto l’investigatore privato Fred Otash per spiarla, registrandone le conversazioni: secondo Otash, Marilyn era davvero incinta e aveva poi abortito in Messico, forse costretta, con l’aiuto di un medico statunitense che l’aveva seguita oltre confine. L’1 agosto Marilyn firmò il nuovo contratto con la 20th Century Fox.

Peter Lawford e Robert Kennedy

La notte del 5 agosto 1962 la domestica Eunice Murray si svegliò verso le 3:00 e vide la luce accesa sotto la porta della camera da letto di Marilyn: provò a chiamarla, ma nessuno rispose; la porta era chiusa a chiave dall’interno. Alle 3:30 la domestica telefonò allo psichiatra di Marilyn, il dottor Greenson, che arrivò poco dopo e riuscì a entrare nella camera da una finestra: Marilyn giaceva morta nel suo letto, nuda e con in mano la cornetta del telefono. Aveva 36 anni. Alle 3:50 circa il suo medico personale, Hyman Engelberg, ne dichiarò la morte. La polizia di Los Angeles fu avvisata alle 4:25.

Il dottor Thomas Noguchi, medico legale della contea di Los Angeles, eseguì l’autopsia sul cadavere: Marilyn era morta tra le 20:30 e le 22:30 del 4 agosto per avvelenamento acuto da barbiturici. Nel sangue aveva 8 mg% (milligrammi per 100 millilitri di soluzione) di idrato di cloralio e 4,5 mg% di pentobarbital, nel fegato 13 mg% di pentobarbital: quantità di gran lunga superiori al dosaggio letale, che esclusero immediatamente l’ipotesi di un’overdose accidentale.

Noguchi fu assistito dal Los Angeles Suicide Prevention Team. I medici di Marilyn affermarono che l’attrice era soggetta a gravi fobie e frequenti depressioni con cambiamenti d’umore improvvisi e imprevedibili e che era andata diverse volte in overdose di farmaci in passato, forse intenzionalmente. Noguchi classificò quindi la sua morte come probabile suicidio.

Thomas Noguchi

L’incerta ricostruzione degli eventi, il tempo trascorso tra la morte e la denuncia alla polizia, le incongruenze nelle dichiarazioni dei testimoni e il frettoloso referto autoptico hanno alimentato nel tempo varie teorie alternative secondo le quali Marilyn non si sarebbe suicidata, ma sarebbe stata assassinata. Tali ipotesi si basano soprattutto sulle possibili rivelazioni di Marilyn sulle sue relazioni coi Kennedy, considerate una seria minaccia per la loro carriera politica, o su una vendetta della mafia statunitense nei confronti della famiglia Kennedy per le promesse fatte in campagna elettorale e non mantenute.

Già all’epoca si diffuse la voce che Robert Kennedy e Peter Lawford fossero nella casa dell’attrice poche ore prima della sua morte, confermata solo 10 anni fa dalla divulgazione degli archivi segreti dell’investigatore Fred Otash. Nei dossier, Otash parla di una violenta discussione tra Marilyn e Robert Kennedy sulla loro relazione, sull’impegno che lui aveva preso con lei, sul fatto che i Kennedy e i loro amici l’avessero resa un oggetto sessuale da passarsi l’un l’altro: Marilyn gridava disperata, mentre Kennedy e Lawford cercavano di calmarla.

Otash avrebbe saputo della morte di Marilyn solo nelle prime ore del giorno successivo, quando Lawford lo avrebbe chiamato chiedendogli di rimuovere qualsiasi elemento incriminante dalla casa: prove di cui da allora non v’è alcuna traccia, compresi i presunti nastri delle conversazioni. Nel 1982 un’indagine formale del procuratore generale della contea di Los Angeles John Van de Kamp si concluse in un nulla di fatto.

Fred Otash

A oggi non esiste alcuna evidenza di omicidio, ma neppure un’inconfutabile prova che Marilyn si sia suicidata: la fragilità psichica, le dipendenze dai farmaci e le relazioni con uomini di potere l’avevano resa un pericolo per sé stessa, ma l’avevano anche esposta alla mercé di persone senza scrupoli.

Il film Something’s Got to Give non fu mai portato a termine. Per anni non si seppe più nulla nemmeno del footage, che raccoglie le ultime scene in cui compare Marilyn: 9 ore di riprese e parti sonore rimasero inutilizzate negli archivi della 20th Century Fox fino al 1989, quando vennero ritrovate dalla Fox Entertainment News e assemblate in un documentario di un’ora intitolato Marilyn: Something’s Got to Give. L’1 giugno 2001, in occasione del 75° compleanno di Marilyn, un segmento di 37 minuti del documentario venne trasmesso dal canale satellitare AMC col titolo Marilyn Monroe: The Final Days ed è attualmente disponibile su YouTube.

Marilyn Monroe: The Final Days

Dopo la morte di Marilyn, la 20th Century Fox riprese immediatamente il progetto di Something’s Got to Give, mantenendo la trama e riutilizzando gran parte dei set, insieme ad acconciature e costumi in precedenza ideati per la diva. Furono invece rinnovati troupe, cast e titolo: Fammi posto tesoro (Move Over, Darling), diretto da Michael Gordon, vide Doris Day e James Garner nei ruoli di Marilyn Monroe e Dean Martin. Garner era stato a suo tempo la scelta iniziale per la parte, ma aveva preferito recitare ne La grande fuga di John Sturges ed era stato sostituito da Dean Martin.

Fammi posto tesoro venne distribuito nel dicembre 1963, esattamente un anno dopo l’uscita prevista per Something’s Got to Give: Marilyn Monroe non c’era più, ma ancora una volta lo spettacolo doveva continuare.

Locandina di Fammi posto tesoro

Anastasia: origini di una leggenda

Anastasia è una commedia romantica del 1956 diretta da Anatole Litvak e interpretata da Ingrid Bergman, Yul Brynner, Helen Hayes e Akim Tamiroff.

A Parigi, nel 1928, il generale Bounine (Brynner) istruisce Anna Korev (Bergman), una giovane affetta da amnesia fuggita da un manicomio, sperando di farla passare per la granduchessa Anastasia, sopravvissuta secondo la leggenda all’eccidio della famiglia imperiale: l’obiettivo di Bounine è far riconoscere ufficialmente la donna da parenti e conoscenti sfruttando la notevole somiglianza fisica con la principessa e l’impossibilità di risalire alle sue vere origini, così da potersi impossessare del tesoro dei Romanov, custodito in una banca inglese.

Anastasia (1956)

Anna non solo riesce a recitare la parte alla perfezione ma, apparentemente grazie ai ricordi che ogni tanto riaffiorano nella sua mente, finisce col credere di essere davvero Anastasia. Dopo diversi tentativi la donna riesce a incontrare l’imperatrice madre Marija Fëdorovna (Hayes) che, dopo un’iniziale esitazione, riconosce in lei la nipote. Nel frattempo Bounine, innamoratosi di Anna, rinuncia a ogni pretesa sull’eredità: la donna, che ricambia i suoi sentimenti, dovrà quindi scegliere tra l’amore e i fasti della vita nobiliare.

A sinistra, il regista Anatole Litvak con Ingrid Bergman e Yul Brynner; a destra, i due attori in una scena del film

Anastasia fece guadagnare a Ingrid Bergman il suo secondo Oscar come miglior attrice, segnando il suo trionfale ritorno a Hollywood dopo gli anni di ostracismo a cui era stata sottoposta per la chiacchierata relazione con il regista Roberto Rossellini, iniziata nel 1950 durante le riprese di Stromboli (Terra di Dio) mentre entrambi erano sposati. La notizia della gravidanza della Bergman aveva suscitato grande scandalo nella bigotta e perbenista opinione pubblica americana: l’attrice dall’aspetto angelico era diventata improvvisamente “un’adultera da lapidare” e la stampa l’aveva definita “Hollywood’s apostle of degradation” (“apostolo della degradazione di Hollywood”), montando contro di lei una campagna denigratoria senza precedenti. Gli strascichi si erano protratti a tal punto da impedire alla Bergman di presenziare di persona alla cerimonia degli Oscar: la statuetta venne ritirata dal suo grande amico Cary Grant. Come la sua Anna Korev nel film, la Bergman rinacque in Anastasia.

Ingrid Bergman in Stromboli (Terra di Dio)

Il 1956 fu un anno trionfale anche per Yul Brynner, in quel momento all’apice della carriera: oltre al ruolo del generale Bounine in Anastasia, l’attore era reduce dal successo de Il re ed io di Walter Lang, per il quale era stato premiato con l’Oscar (Anastasia vanta quindi nel cast i due Premi Oscar come miglior attore e miglior attrice del 1957), e aveva offerto una memorabile interpretazione del faraone Ramesse II nel kolossal I dieci comandamenti di Cecil B. DeMille. Celebre per il capo rasato, divenuto un suo tratto caratteristico così come il suo sguardo penetrante, Brynner dava il meglio di sé nei ruoli esotico-orientali, esaltando le sue origini russe: in Anastasia (e nel successivo Karamazov di Richard Brooks del 1958) riemerge anche il suo passato di talentuoso chitarrista nei locali notturni parigini.

Yul Brynner alla cerimonia degli Oscar (in alto a sinistra), ne Il re ed io (in alto a destra), in Karamazov (in basso a destra), ne I dieci comandamenti (in basso a sinistra)

Nel 1997, la 20th Century Fox produsse il film d’animazione Anastasia, a sua volta basato sulla leggenda della principessa sopravvissuta. Inevitabilmente molto lontano dalla realtà storica, il cartone animato prende tuttavia spunto da un evento realmente accaduto: le celebrazioni per i trecento anni dall’insediamento della dinastia Romanov (l’anniversario fu nel 1913, non nel 1916 come riportato) erano state offuscate da oscuri presagi. Il monaco Grigorij Rasputin affermò che il potere dei Romanov sarebbe tramontato se fossero entrati in guerra e non sarebbe sopravvissuto due anni alla sua morte se alla base di questa ci fosse stato qualcuno dei membri della famiglia: due previsioni che si sarebbero avverate poco tempo dopo. Nel cartone animato, dietro la fine dei Romanov c’è proprio una maledizione di Rasputin, ma in realtà egli era già morto al momento dell’eccidio.

Anastasia (1997)

Vi sono diversi riferimenti alla vita del vero Rasputin: l’annegamento del monaco all’inizio del film rievoca l’ultimo atto dei suoi assassini, che lo gettarono nel fiume Neva dopo avergli sparato più volte, per essere sicuri di averlo eliminato; l’essere un non-morto che continua a vivere seppur ridotto a pezzi riprende le sue leggendarie capacità di sopravvivenza. Una delle maggiori inesattezze storiche è però proprio nella rappresentazione di Rasputin: la versione dell’uomo malvagio e assetato di potere è stata spesso sposata dai media (da citare Rasputin, il monaco folle del 1966 diretto da Don Sharp con Christopher Lee nei panni del protagonista), ma è basata sulle calunnie diffuse all’epoca dall’aristocrazia russa per diffamarlo. Molto probabilmente si trattava di un imbonitore che sfruttava la sua influenza sulla famiglia imperiale per il proprio tornaconto, non tanto diverso da altri santoni dell’epoca, e pertanto inviso alla casta nobiliare, invidiosa della sua posizione.

Christopher Lee in Rasputin, il monaco folle (1966)

La vicenda di Anna Anderson

Ma come mai proprio la granduchessa Anastasija Nikolaevna Romanova è divenuta leggenda?

Anastasija Nikolaevna Romanova

Il film Anastasia è incentrato sulla storia romanzata di Anna Anderson, il cui nome è utilizzato esplicitamente come pseudonimo della protagonista in una scena.

Ricoverata in un ospedale psichiatrico a Berlino nel febbraio 1920 in seguito a un tentativo di suicidio, Anna Anderson sostenne di essere la granduchessa Anastasija, quartogenita dello zar Nicola II Romanov. La notizia accese battaglie legali e giornalistiche tra detrattori e sostenitori della donna: su questi ultimi pesava il forte sospetto di interessi legati al recupero dell’ingente tesoro dei Romanov. Le dispute coinvolsero anche parenti e altri personaggi vicini alla famiglia dello zar, ma per anni non giunsero né conferme né smentite sulla reale identità della donna, non esistendo prove documentali dirette o evidenze fisiche inconfutabili. Tra l’altro la Anderson, affetta da seri disturbi psichici, si dimostrava tutt’altro che collaborativa.

Anna Anderson

La storia di Anna Anderson apparve da subito controversa. Alcuni sostenevano le sue pretese, suffragate da presunte coincidenze anatomiche (colore degli occhi, altezza e presenza di una piccola deformità ai piedi). I detrattori controbattevano che eventuali riconoscimenti da parte di parenti e conoscenti potevano essere facilmente influenzati dal desiderio di ritrovare viva la granduchessa. Inoltre, le somiglianze fisiche potevano essere comuni a più donne e la conoscenza della vita di corte era spiegata in dettaglio in molti libri e poteva dunque essere facilmente memorizzata anche nei particolari.

Sin dagli Anni ’20, molti personaggi di fantasia si sono ispirati alla vicenda di Anna Anderson. Nel 1953, l’autrice francese Marcelle Maurette scrisse Anastasia, una pièce basata su Anastasia, a Woman’s Fate as Mirror of the World Catastrophe della scrittrice tedesca Harriet von Rathlef e su La falsa Anastasia: storia di una presunta Gran Duchessa di Russia di Pierre Gilliard, precettore dei figli dello zar sopravvissuto al destino dei Romanov: la prima a sostegno della Anderson, il secondo tra i più strenui oppositori. È lo spettatore a decidere se credere o meno che la protagonista, Anna, sia davvero Anastasia. La commedia, con protagonista l’attrice Viveca Lindfors, fece il giro del mondo e riscosse tanto successo da essere riadattata in inglese da Guy Bolton per l’omonimo film del 1956.

A sinistra, la scrittrice Marcelle Maurette; a destra, le attrici Viveca Lindfors e Eugenie Leontovich nella pièce Anastasia

Anna Anderson sostenne di essere la granduchessa Anastasija fino alla sua morte, sopraggiunta nel 1984: solo nel 1994 le analisi del DNA confermarono che ella non poteva in alcun modo essere imparentata con la famiglia Romanov, ma che si trattava di Franziska Schanzkowski, una malata di mente di origine polacca scomparsa da un ospedale psichiatrico di Berlino nel 1919.

Ma cosa ha alimentato per quasi un secolo la leggenda di membri della famiglia imperiale russa sopravvissuti alla Rivoluzione?

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La storia dietro la leggenda

Nella Russia zarista di inizio ‘900 le drammatiche condizioni di vita spinsero la popolazione a manifestazioni di protesta sempre più frequenti e il tradizionale sistema di potere autocratico iniziò a mostrare le prime consistenti crepe, acuite dall’umiliante sconfitta nella guerra russo-giapponese (1904–1905).

Il 22 gennaio 1905, a San Pietroburgo, l’esercito imperiale represse nel sangue una manifestazione pacifica di operai e contadini, recatisi davanti al Palazzo d’Inverno per chiedere riforme allo zar Nicola II: la Domenica di sangue segnò l’inizio della Prima rivoluzione russa. I lavoratori, organizzatisi nei soviet, indissero uno sciopero nazionale e chiesero la proclamazione di una repubblica democratica. Un’ondata di rivolte paralizzò il Paese: tra queste, l’ammutinamento della corazzata Potëmkin, immortalato nell’indimenticabile capolavoro (1925) del cineasta sovietico Sergej Michajlovič Ėjzenštejn.

La corazzata Potëmkin (1925)

Sin dalla creazione dell’Impero russo, gli zar avevano sempre regnato come monarchi assoluti. Il 30 ottobre 1905, Nicola II firmò il Manifesto di ottobre, rinunciando al potere legislativo in favore di un parlamento elettivo, la Duma di Stato. Ben presto, però, essendo la Duma in costante disaccordo con lo zar, questi cambiò la legge elettorale concedendo il diritto di voto alle sole classi più abbienti. Il Paese ripiombò nel caos: per sedare scioperi e sommosse venne decretata la legge marziale.

Lo zar Nicola II Romanov era succeduto al padre Alessandro III, morto improvvisamente a 49 anni, nel 1894. Mancandogli una completa educazione al ruolo, si era attenuto alla linea politica paterna, rifiutando testardamente di comprendere una realtà del tutto diversa rispetto al passato. L’inesperienza, l’indolenza e il totale disinteresse per le questioni di carattere sociale resero lo zar facilmente influenzabile e sempre più impopolare: a ciò contribuì in maniera determinante sua moglie, la zarina Aleksandra Fëdorovna, oppressa dalla paura e dal senso di colpa per aver trasmesso l’emofilia all’unico figlio maschio ed erede, lo zarevic Aleksej, esposto al pericolo di forti emorragie per ogni minimo trauma. La costante preoccupazione per la precaria salute di Aleksej spinse la zarina verso un sempre più forte misticismo e la indusse ad affidarsi a santoni e presunti guaritori, il più importante dei quali divenne lo starec (mistico cristiano ortodosso) siberiano Grigorij Rasputin.

Rasputin riuscì più volte a salvare l’erede da gravi crisi, al punto da guadagnare la più completa fiducia della zarina, che col tempo arrivò a richiedere il suo parere anche in ambito politico e strategico, fino a diventare quasi del tutto dipendente dalla sua opinione. Nicola II e Aleksandra Fëdorovna ebbero cinque figli: le granduchesse Ol’ga, Tat’jana, Marija e Anastasija, e il granduca Aleksej. Il misticismo della zarina e la salute di Aleksej allontanarono sempre di più la famiglia imperiale dalla corte e dagli affari di Stato, alimentando le tensioni politiche e l’insofferenza di una popolazione già allo stremo.

La famiglia imperiale: in piedi, da sinistra, le granduchesse Tat’jana e Ol’ga; seduti, da sinistra, la granduchessa Marija, la zarina Aleksandra Fëdorovna, lo zarevic Aleksej, lo zar Nicola II, la granduchessa Anastasija

Nel 1914, la miccia decisiva: la Prima Guerra Mondiale. L’Impero russo entrò in guerra insieme alle altre potenze della Triplice Intesa contro gli Imperi centrali e, grazie alla numerosissima popolazione, fu in grado di schierare un esercito di gran lunga superiore alla totalità dei contingenti nemici riuniti. Ben presto, però, le carenze organizzative e la mancanza di rifornimenti e armamenti adeguati fecero emergere tutta l’arretratezza del sistema politico, economico e industriale russo: gli iniziali e irrilevanti successi lasciarono man mano spazio a pesanti sconfitte, finché l’esercito non fu costretto a ritirarsi per difendere i confini della stessa Russia.

Fanteria russa durante la Prima Guerra Mondiale

I disastri militari spinsero lo zar a prendere il comando diretto dell’esercito e a trasferirsi presso lo Stato Maggiore. La gestione del potere nella Capitale (rinominata Pietrogrado nel 1914 per volere dello zar) venne quindi lasciata alla zarina, già sospettata di essere filogermanica per le sue origini tedesche e in quel momento del tutto succube di Rasputin: il prestigio e la credibilità della famiglia imperiale subirono un colpo fatale. Al malumore delle truppe al fronte si aggiunse la sempre maggiore agitazione popolare, esacerbata dall’inflazione e dalla mancanza di generi alimentari e combustibili: scioperi e manifestazioni ripresero in molte città. Il 30 dicembre 1916, Rasputin venne assassinato in una congiura ordita da un gruppo di aristocratici nell’illusione di risollevare la reputazione dei Romanov, ma ormai era troppo tardi.

A sinistra, lo starec Grigorij Rasputin; a destra, una caricatura anonima di Rasputin con la coppia imperiale (1916).

L’8 marzo 1917 (23 febbraio secondo il calendario giuliano, allora vigente in Russia) a Pietrogrado il popolo insorse per la mancanza di viveri. Nel 1905, in una situazione simile, le truppe avevano sparato sui dimostranti, ma stavolta i soldati si unirono a loro: la Rivoluzione di febbraio rovesciò il regime zarista, costringendo Nicola II ad abdicare (15 marzo), e portò alla formazione di un governo provvisorio guidato da cadetti, menscevichi e socialisti rivoluzionari.

La Rivoluzione di febbraio consegnò tuttavia il potere a politici che intendevano continuare la guerra e che non avevano intenzione di cedere le proprietà personali: la situazione non appariva molto diversa alla maggioranza della popolazione. Sempre più persone iniziarono a seguire i bolscevichi, che si proponevano di trasferire tutto il potere ai soviet (i consigli dei delegati di operai, soldati e contadini) e di uscire immediatamente dal conflitto mondiale.

La notte tra il 6 e il 7 novembre 1917 (24 e 25 ottobre secondo il calendario giuliano) i bolscevichi occuparono i punti nevralgici della Capitale: la Rivoluzione di ottobre rovesciò il governo provvisorio e segnò la nascita della Repubblica Socialista Federativa Sovietica Russa. Il 3 marzo 1918 la Russia bolscevica firmò la pace di Brest-Litovsk con gli Imperi centrali, accettando di perdere Finlandia, Estonia, Lettonia, Lituania, Polonia, Bielorussia e Ucraina.

Soldati a Mosca durante la Rivoluzione di ottobre

Dopo l’abdicazione dello zar, la famiglia imperiale venne posta agli arresti domiciliari per poi essere trasferita a Ekaterinburg, nella regione degli Urali, e tenuta in isolamento a Casa Ipat’ev. Nel frattempo le forze contro-rivoluzionarie, sostenute dalle potenze straniere, si riorganizzarono e lanciarono l’attacco al potere bolscevico: fu l’inizio di una cruenta guerra civile che si sarebbe conclusa nel 1922 con la vittoria dell’Armata Rossa (bolscevichi) sull’Armata Bianca (contro-rivoluzionari) e che avrebbe portato alla nascita dell’Unione Sovietica.

L’avanzata dell’Armata Bianca nella regione degli Urali nelle prime fasi della guerra civile segnò un drammatico punto di svolta: i bolscevichi non volevano che i Romanov cadessero nelle mani dei contro-rivoluzionari, poiché qualsiasi membro della famiglia imperiale sarebbe potuto diventare un baluardo della resistenza ed essere considerato ancora il legittimo regnante di Russia da parte delle altre potenze europee. Fu quindi deciso di eliminare lo zar e la sua famiglia, che vennero fucilati il 17 luglio 1918 nello scantinato di Casa Ipat’ev. I corpi furono occultati nei boschi presso Ekaterinburg. La vita dell’ultimo zar di Russia è raccontata nel film Nicola e Alessandra di Franklin J. Schaffner (1971).

Una scena del film Nicola e Alessandra (1971)

Due giorni dopo l’eccidio, il giornale locale di Ekaterinburg annunciò che “lo zar era stato giustiziato mediante plotone d’esecuzione” e che “la sua famiglia era stata portata in un posto sicuro“. Il 20 luglio venne diramato alla popolazione il comunicato ufficiale dell’avvenuta esecuzione. I bolscevichi si limitarono quindi ad annunciare alla stampa la morte di Nicola II, mentendo sulla sorte degli altri membri della famiglia.

Il 25 luglio l’Armata Bianca conquistò Ekaterinburg e iniziò le indagini sull’esecuzione e le ricerche dei corpi della famiglia imperiale, non riuscendo però a individuare il luogo della sepoltura: il rapporto Sokolov (dal nome dell’investigatore incaricato) riunì fotografie e testimonianze raccolte durante l’inchiesta e, fino al 1989, sarebbe stato l’unico resoconto ufficiale sulla vicenda. Il rapporto scatenò sdegno in tutto il mondo e fu bandito dalle autorità bolsceviche, che furono tuttavia costrette ad ammettere l’esecuzione dei familiari dello zar. L’assoluto silenzio imposto dal regime sulla sorte dei Romanov fece nascere da subito fantasie su possibili sopravvissuti all’eccidio di Ekaterinburg: fin dal 1919 iniziarono a comparire frotte di impostori che sostenevano di essere legittimi figli dello zar.

Il luogo di sepoltura dei Romanov venne scoperto nel 1979 dal ricercatore amatoriale Aleksandr Avdonin e dal regista Gelij Rjabov, dopo anni di studi e ricerche sul campo. I due recuperarono tre teschi, ma nessun laboratorio accettò di esaminarli e, preoccupati dalle conseguenze della scoperta, decisero di riseppellirli. La nuova attitudine all’apertura e alla trasparenza (glasnost’) predicata dal presidente Michail Gorbačëv spinse Rjabov a rivelare la sua scoperta al giornale The Moscow News il 10 aprile 1989. Nel 1991 i corpi di cinque membri della famiglia imperiale (lo zar, la zarina e tre delle loro figlie) furono riesumati e sottoposti a indagini forensi e identificazione del DNA, che ne confermarono le identità. La mancanza di due corpi, presumibilmente Aleksej e una tra Marija e Anastasija, diede nuova linfa alla leggenda che qualcuno dei Romanov si fosse misteriosamente salvato.

Il 29 luglio 2007, un gruppo di ricercatori amatoriali trovò una piccola tomba non lontana dal sito dove erano stati scoperti gli altri corpi, contenente i resti di due ragazzi. Il 30 aprile 2008, in seguito alla pubblicazione dei test del DNA, vennero definitivamente identificati i corpi della granduchessa Marija e dello zarevic Aleksej. Lo stesso giorno le autorità russe comunicarono ufficialmente che l’intera famiglia imperiale era stata identificata.