“Top Gun”: una saga da record

36 anni di attesa per uno dei sequel più annunciati di sempre: il 2022 è stato finalmente l’anno di Top Gun: Maverick, con Tom Cruise di nuovo nel ruolo del pilota Pete Maverick Mitchell, che aveva lanciato la sua carriera in Top Gun (1986). Uno dei periodi di tempo più lunghi tra un film e il suo sequel, che per di più procede sulla stessa trama dell’originale seguendo gli eventi della vita reale.

La sceneggiatura di un seguito era stata già scritta subito dopo il trionfo del primo film, ma il divieto del Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti di mostrare le più recenti innovazioni nella tecnologia militare impedì la realizzazione del progetto. Nonostante le proposte ricorrenti nei decenni e la strada per il successo praticamente spianata dall’hype sempre più pressante, la produzione di Top Gun: Maverick si è rivelata piuttosto travagliata.

Tom Cruise in Top Gun: Maverick

La Paramount Pictures aveva annunciato un sequel di Top Gun già nel 2010: Tom Cruise e Val Kilmer erano stati contattati per tornare nei rispettivi ruoli, così come il produttore Jerry Bruckheimer e il regista Tony Scott. Una bozza della sceneggiatura era già pronta nel 2012, ma il 19 agosto dello stesso anno Scott si suicidò gettandosi dal Vincent Thomas Bridge di Los Angeles e il progetto venne di nuovo accantonato.

Nel 2017 fu ingaggiato il regista Joseph Kosinski, che scrisse la sceneggiatura definitiva di Top Gun: Maverick. Kosinski aveva già lavorato con Tom Cruise in Oblivion (2013) e non era nuovo a sequel realizzati decenni dopo gli originali, avendo diretto Tron: Legacy (2010), uscito 28 anni dopo Tron (1982), capostipite della saga.

Kosinski sul set di Oblivion

E chissà che rilevanza avrebbe avuto il Tom Iceman Kazansky di Val Kilmer nel progetto originale, ridotto a un cameo nella versione finale, seppur significativo e commovente. Nel 2017 emerse infatti che Kilmer aveva sconfitto dopo due anni un cancro alla gola, sottoponendosi a due tracheotomie che avevano danneggiato le sue corde vocali al punto da non permettergli più di parlare se non per mezzo di un dispositivo elettronico. Nel 2021 la voce di Kilmer venne ricreata da registrazioni d’archivio grazie all’intelligenza artificiale, che consentì di riprodurla in Top Gun: Maverick. E pensare che Kilmer aveva recitato nel primo Top Gun solo perché costretto da obblighi contrattuali, in quello che si sarebbe rivelato uno dei ruoli più iconici della sua carriera…

Val Kilmer e Tom Cruise in Top Gun: Maverick

Capitoli a confronto

In entrambe le pellicole della saga i migliori piloti della Marina Militare statunitense vengono addestrati nella scuola di combattimento Top Gun ma, nonostante i numerosi riferimenti del sequel al suo predecessore, i due film differiscono in modo sostanziale già nella struttura e nell’impronta dei due diversi registi.

Top Gun (1986) è l’esaltazione della sfida per il primato, come la lotta per diventare il maschio dominante in un gruppo: l’azione si basa sugli allenamenti più che su reali imprese belliche, ma il ritmo è mantenuto sapientemente elevato come se i combattimenti aerei (dogfight) fossero vere battaglie per la vita o la morte, grazie anche all’acceso dualismo tra i piloti di punta Maverick (Tom Cruise) e Iceman (Val Kilmer).

Maverick e Iceman in Top Gun

Cercare di dimostrare a ogni costo di essere il miglior pilota ha però un prezzo altissimo e la morte del compagno Goose (Anthony Edwards) segnerà profondamente Maverick, che vivrà per sempre sommerso dai sensi di colpa. Come dichiarato dallo stesso Tom Cruise, Top Gun si discosta dal classico action movie per concentrarsi sul profilo psicologico del protagonista, spaziando nel genere drammatico. In diversi momenti il focus del film si sposta dall’azione alla riflessione, rievocando i fantasmi di Maverick: dalla perdita del padre a quella di Goose, all’incessante bisogno di superare limiti, di infrangere regole, di vivere di solo istinto nell’adrenalina di giocare costantemente con la morte.

Maverick e Goose in Top Gun

Top Gun: Maverick (2022) segue invece più da vicino i canoni del film d’azione. Maverick, ormai divenuto una scomoda leggenda a fine carriera, torna da istruttore alla Top Gun per addestrare dei piloti a una missione quasi suicida: tra questi Rooster (Miles Teller), il figlio di Goose.

Pur mantenendo lo schema del predecessore nelle esercitazioni della parte iniziale, il film è incentrato sull’impresa finale, sulla crescita dei singoli e sulla forza del gruppo. Il turbolento rapporto tra Maverick e Rooster potrebbe sembrare solo un altro modo di rivangare il passato e riallacciarsi al primo film, ma in realtà è il presupposto essenziale per evidenziare l’evoluzione di entrambi i personaggi: i progressi di Rooster nell’acquisire temperamento e sicurezza, la capacità di Maverick di dare fiducia al di là dei tormenti personali.

Rooster (Miles Teller) in Top Gun: Maverick

Come nella maggior parte delle recenti produzioni hollywoodiane, elemento imprescindibile è diventata l’inclusività, spesso forzata al punto da sembrare più una strategia di marketing che la naturale evoluzione nella realizzazione di un film. Considerando che Top Gun: Maverick è il sequel di un film manifesto del machismo patinato di cui inevitabilmente mantiene l’impronta, in questo caso la scelta di introdurre piloti di diverse etnie, tra cui due donne, più che comprensibile è sembrata doverosa.

Phoenix (Monica Barbaro) in Top Gun: Maverick

Non è mai facile per un sequel ripercorrere le orme del predecessore, specialmente di un blockbuster di fama mondiale, ma Top Gun: Maverick ne sfrutta il clamore mediatico senza esserne sommerso, riuscendo a tracciare in autonomia la propria strada.

Entrambi i film fanno parte di una categoria inevitabilmente ritenuta commerciale e spesso snobbata dalla critica, ma la regia di mestiere, l’adeguato mix di azione e introspezione, il ritmo frenetico e la convincente definizione dei personaggi rendono a tutti gli effetti Top Gun una delle saghe più coinvolgenti degli ultimi anni.

Tom Cruise in Top Gun: Maverick

Curiosità sui due film

Top Gun: Maverick è stato presentato nella selezione ufficiale del Festival di Cannes, durante il quale Tom Cruise ha ricevuto a sorpresa la Palma d’oro onoraria.

Tom Cruise premiato a Cannes

Entrambi i capitoli della saga hanno riscosso grandissimo successo al botteghino: Top Gun: Maverick ha già guadagnato oltre 1 miliardo di dollari in tutto il mondo, diventando la pellicola di maggior incasso del 2022 e dell’intera carriera di Tom Cruise (la prima a raggiungere simili cifre), superando proprio il primo Top Gun (già film di maggior incasso del 1986, arrivato a guadagnare 357 milioni di dollari in tutto il mondo).

Tom Cruise in Top Gun

Tom Cruise si dichiarò disponibile a recitare in Top Gun: Maverick a condizione che fossero usati veri velivoli per le riprese aeree e che fosse ridotto al minimo l’utilizzo dei consueti effetti speciali basati su green screen (mediante il quale si può sostituire il colore di uno sfondo con qualsiasi altra immagine) o CGI (Computer-Generated Imagery): perfino i primi piani nella cabina di pilotaggio sono stati realizzati durante reali sequenze di volo e ciò ha costretto gran parte del cast a sottoporsi a lunghe sessioni di allenamento.

Prima di Top Gun (1986), Tom Cruise non aveva mai guidato nemmeno una motocicletta (imparò nel parcheggio della House of Motorcycles a El Cajon, in California): ora, a 60 anni (compiuti oggi), non usa praticamente mai gli stuntman ed esegue da solo anche le scene più estreme.

Tom Cruise in Top Gun

In Top Gun (1986), l’unico attore a non vomitare durante le riprese negli aerei da combattimento fu Anthony Edwards (Goose), il cui personaggio è l’unico a morire.

Anthony Edwards (Goose) in Top Gun

Miles Teller scelse il nome di battaglia Rooster (Gallo) per il proprio personaggio perché apparteneva alla stessa famiglia di quello di suo padre nel primo film, Goose (Oca). Top Gun: Maverick potrebbe aver risollevato la sua carriera, che dopo lo strepitoso successo di Whiplash (2014) sembrava essere già in forte declino, complici ruoli sbagliati e dichiarazioni pubbliche sopra le righe: Teller era infatti reduce da una serie di flop commerciali e di critica e da alcune spiacevoli interviste, in cui si era mostrato come una persona sgradevole e volgare, che avevano fatto crollare la sua popolarità.

Miles Teller in Top Gun: Maverick

La convincente interpretazione e l’incredibile trasformazione fisica per il Rooster di Top Gun: Maverick hanno sorpreso perfino alcuni colleghi: la somiglianza per nulla scontata con Anthony Edwards, suo padre in Top Gun, viene ricreata in modo impressionante nella scena in cui Teller suona al piano e canta Great Balls of Fire di Jerry Lee Lewis, come Edwards nel primo film. Una scena che in Top Gun non era nemmeno prevista: fu il regista Tony Scott ad aggiungerla all’ultimo perché stava ascoltando la canzone quella mattina…

Miles Teller in Top Gun: Maverick

Il personaggio interpretato da Jennifer Connelly in Top Gun: Maverick, Penny Benjamin, non compare nel primo Top Gun, ma viene menzionata più volte come una ragazza (la figlia dell’ammiraglio) con cui Maverick ha avuto una storia e su cui ha effettuato uno dei suoi vietatissimi voli radenti alle torri di controllo. In Top Gun (1986) viene anche riferito che Penny ha 16 anni, quindi in Top Gun: Maverick (2022) dovrebbe averne più o meno 51: Jennifer Connelly ha esattamente 51 anni.

Il titolo della celebre serie di videogiochi motoristici Need for Speed è tratto dalla frase “I feel the need… the need for speed!” detta da Maverick a Goose in una scena di Top Gun (1986), andata persa nel doppiaggio italiano e sostituita con: “Ma noi saremo sempre i più forti!”.

Tom Cruise e Jennifer Connelly in Top Gun: Maverick

La partita di beach football in Top Gun: Maverick è un dichiarato omaggio alla famosissima partita di beach volley di Top Gun, diventata una delle scene più iconiche del film, alla quale il regista Tony Scott aveva inaspettatamente dedicato un’intera giornata di riprese, rischiando di essere licenziato.

Beach football in Top Gun: Maverick

La tensione tra Maverick e Iceman nel primo Top Gun non fu solo recitazione: per restare nei personaggi, Tom Cruise e Val Kilmer si tennero a distanza per l’intera durata delle riprese e non socializzarono mai. Tom Cruise e Anthony Edwards alloggiarono addirittura in una struttura diversa da quella di tutti gli altri attori interpreti dei piloti, per restare separati dal gruppo. Negli anni, comunque, come dichiarato più volte da entrambi, i due sono diventati grandi amici e la serenità del loro attuale rapporto ha senza dubbio contribuito a rendere ancora più emozionanti le scene condivise in Top Gun: Maverick.

Kilmer e Cruise in Top Gun

Anche le riprese del primo film furono funestate da un tragico episodio, e se Top Gun: Maverick è stato dedicato alla memoria del regista Tony Scott, Top Gun fu dedicato ad Art Scholl, famoso pilota acrobatico e stuntman morto il 16 settembre 1985 precipitando nell’Oceano Pacifico al largo della costa meridionale della California nel tentativo di filmare un avvitamento piatto dal suo velivolo: né il corpo né l’aereo vennero mai ritrovati.

Un contributo essenziale al successo mondiale di Top Gun (1986) fu dato dalla strepitosa colonna sonora, comprendente canzoni divenute immortali come Danger Zone di Kenny Loggins e soprattutto Take My Breath Away, scritta da Tom Whitlock e prodotta da Giorgio Moroder per i Berlin, vincitrice dell’Oscar e del Golden Globe per la miglior canzone originale.

BerlinTake My Breath Away

Si trattò della terza statuetta per l’italiano Giorgio Moroder, uno dei musicisti più innovativi e influenti nell’ambito della musica elettronica e della disco music, già premiato nel 1979 per la miglior colonna sonora di Fuga di mezzanotte e nel 1984 ancora per la miglior canzone originale con Flashdance… What a Feeling.

Giorgio Moroder

Per i Berlin, gruppo musicale new wave statunitense, Take My Breath Away rappresentò allo stesso tempo il culmine della fama e l’inizio della fine: la band si sciolse infatti già nel 1987 per divergenze tra la front woman Terri Nunn e il fondatore del gruppo John Crawford, risentito del fatto che i Berlin avessero raggiunto il successo grazie a una canzone che non avevano scritto loro, non avevano mai sentito e non c’entrava niente con loro.

Berlin

Premi Oscar 2022

La 94ª edizione degli Academy Awards sarà purtroppo ricordata per quello che molti hanno definito il momento più brutto nella storia degli Oscar. Durante la presentazione del premio per il miglior documentario, il comico Chris Rock si è rivolto alla moglie di Will Smith, Jada Pinkett Smith, paragonandola alla Demi Moore del film Soldato Jane per la sua testa rasata. Pinkett Smith soffre di alopecia e il suo disappunto per la pessima battuta, all’insegna del body shaming, ha innescato la violenta e ingiustificabile reazione del marito Will Smith, che è salito sul palco e ha schiaffeggiato il presentatore.

Poco dopo, Smith ha ricevuto il suo primo Oscar in carriera come miglior attore protagonista: in lacrime durante il discorso di accettazione, l’attore si è scusato con l’Academy e con gli altri candidati per il proprio gesto sconsiderato, motivandolo con l’amore verso i propri cari e ricevendo dal pubblico una standing ovation decisamente fuori luogo.

Una famiglia vincente – King Richard

L’Oscar a Will Smith era il più scontato della serata: per il ruolo di Richard Williams nel biopic Una famiglia vincente – King Richard, storia del padre e allenatore delle sorelle campionesse di tennis Venus e Serena Williams, l’attore aveva già vinto i maggiori premi internazionali (Golden Globe, Screen Actors Guild Award, Critics Choice Award e BAFTA). Una lodevole interpretazione in un film godibile e ben costruito, seppur leggermente sminuito dall’etichetta di ennesimo stereotipo del sogno americano.

Nettamente sfavoriti alla vigilia gli altri candidati, nonostante l’eccellente performance di Benedict Cumberbatch (Il potere del cane) il momento d’oro di Andrew Garfield (Tick, Tick… Boom!) e il solito intramontabile Denzel Washington (Macbeth).

Il potere del cane

Il potere del cane ha conquistato l’altra statuetta ampiamente annunciata, la sua unica a fronte di 12 nomination (il numero più alto in questa edizione): l’Oscar al miglior regista è andato infatti alla neozelandese Jane Campion, prima donna a essere candidata più di una volta per il premio e già vincitrice del Leone d’argento alla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia. Dopo la vittoria dello scorso anno di Chloé Zhao con Nomadland, è la prima volta che l’Oscar viene assegnato a una donna per due edizioni consecutive.

Suggestive inquadrature e notevoli riprese dall’alto in un film solo all’apparenza definibile western: Il potere del cane è un dramma cupo e inquietante, con personaggi ambigui e un’atmosfera intrisa di perversione. Bravi gli attori (Kirsten Dunst, Jesse Plemons e il luciferino Kodi Smit-McPhee, oltre a Cumberbatch), tutti e quattro candidati all’Oscar.

CODA – I segni del cuore

Decisamente troppe le 10 pellicole candidate all’Oscar per il miglior film, la metà delle quali non aveva alcuna possibilità di vittoria. Il premio è infine andato con merito a un outsider: CODA – I segni del cuore. Remake de La famiglia Bélier (2014) di Éric Lartigau, CODA è l’acronimo di Child Of Deaf Adult, ossia persona udente cresciuta da genitore sordo: la protagonista Ruby Rossi (Emilia Jones) è l’unico membro udente della propria famiglia, avendo padre, madre e fratello sordi, e ha una grande passione per la musica.

La pellicola affronta una tematica delicata da un punto di vista originale e coinvolgente: la disabilità non è rappresentata come un dramma, ma come qualcosa di speciale come il legame che crea tra le persone. CODA pone luce con leggerezza e semplicità sulla difficoltà di comunicare in contesti ancora impreparati alla diversità e sulla caparbietà nel superarla. Un film allegro e allo stesso tempo emozionante, dal messaggio fortemente positivo, diverso da tutti gli altri in gara.

Marlee Matlin, la madre di Ruby nel film, è stata la prima interprete sorda a conquistare un Oscar e la donna più giovane a vincere la statuetta come miglior attrice protagonista per Figli di un dio minore (1986), debuttando all’età di 21 anni: lei e Troy Kotsur, premiato come miglior attore non protagonista per la magnifica interpretazione del padre di Ruby, sono quindi gli unici due attori sordi ad aver vinto un Oscar. Grande soddisfazione anche per la regista e sceneggiatrice Siân Heder, che si aggiudica il premio per la miglior sceneggiatura non originale. Un vero e proprio trionfo per CODA, che conquista tutti e tre gli Oscar per cui era candidato.

Gli occhi di Tammy Faye

Se l’Oscar al miglior attore era praticamente già assegnato, molto più tirata è stata la sfida per l’Oscar alla miglior attrice, dove il testa a testa tra Nicole Kidman e Jessica Chastain si è concluso con la vittoria di quest’ultima per Gli occhi di Tammy Faye, film biografico incentrato sulla vita della famosa telepredicatrice: una statuetta meritata in un film piuttosto lento e fiacco, trascinato quasi unicamente dalla sua performance; premiati con l’Oscar anche i trucchi e le acconciature, impeccabili al punto da rendere l’attrice irriconoscibile.

Nicole Kidman, già vincitrice del Golden Globe per A proposito dei Ricardo, è stata poco aiutata da un film abbastanza piatto e da un’interpretazione un po’ troppo asettica di quella Lucille Ball resa celebre dalla sensazionale mimica facciale e dalla strepitosa verve comica. Davvero difficile la scelta finale, considerato anche il livello delle altre tre candidate: la sorprendente Kristen Stewart nel ruolo di Lady Diana in Spencer, la splendida Penelope Cruz in Madres paralelas di Pedro Almodóvar e la sempre bravissima Olivia Colman ne La figlia oscura di Maggie Gyllenhaal, quest’ultima penalizzata forse dall’aver condiviso la scena con la stella emergente Jessie Buckley, a sua volta candidata come miglior attrice non protagonista.

West Side Story

Era davvero impossibile per West Side Story replicare il successo dell’omonimo capolavoro girato 60 anni prima (1961), vincitore di 10 Oscar e considerato uno dei migliori musical di tutti i tempi. La pellicola, diretta da Steven Spielberg, è riuscita però a ritagliarsi uno spazio importante in questa rassegna degli Academy Awards grazie alla statuetta conquistata da Ariana DeBose come miglior attrice non protagonista nel ruolo di Anita, entrando di diritto nella storia del cinema: l’attrice interprete di Anita nel film del 1961, Rita Moreno, aveva infatti vinto a sua volta l’Oscar come miglior attrice non protagonista.

Anita raggiunge quindi Don Corleone e Joker tra i personaggi le cui interpretazioni hanno guadagnato più di un Oscar, ma la sua doppietta è, se vogliamo, ancora più speciale: mentre gli altri compaiono in due distinte narrazioni (Il padrino e Il padrino – Parte II, Il cavaliere oscuro e Joker), in questo caso l’interpretazione dello stesso personaggio in entrambi gli adattamenti cinematografici della stessa opera viene premiata con lo stesso Oscar.

Belfast

Kenneth Branagh ha finalmente conquistato il suo primo Oscar in carriera per la sceneggiatura originale del semi-autobiografico Belfast: un degno riconoscimento per uno degli artisti più poliedrici del panorama cinematografico mondiale, come testimoniato dallo straordinario dettaglio delle 7 diverse nomination su 8 totali (film, regista, attore protagonista, attore non protagonista, sceneggiatura non originale, sceneggiatura originale, cortometraggio) in oltre 30 anni (la prima nel 1990).

Il suo Belfast è un film intenso e coraggioso sul conflitto nordirlandese tra cattolici e protestanti visto dalla prospettiva di un bambino, con un’iconica fotografia in bianco e nero e ottimi interpreti, piccoli e grandi, tra i quali spicca la performance di Ciarán Hinds nel ruolo del nonno.

Drive My Car

Quasi scontato l’Oscar come miglior film internazionale a Drive My Car di Ryūsuke Hamaguchi (Giappone), candidato anche nelle categorie Miglior film, Miglior regista e Miglior sceneggiatura non originale e dato per favorito rispetto a Flee (Danimarca), La persona peggiore del mondo (Norvegia) e al nostro È stata la mano di Dio di Paolo Sorrentino.

Già vincitore del Golden Globe per il miglior film in lingua straniera e del Prix du scénario (premio alla migliore sceneggiatura) al Festival di Cannes, Drive My Car è un dramma introspettivo sul rimpianto e l’accettazione di sé stessi, ma anche un omaggio al teatro, alla sua capacità di unire personalità e linguaggi diversi, al potere che esercita su chi vi si dedica. Un film impegnativo, ancora di più per la durata di quasi tre ore, ma senza dubbio da vedere.

Dune

A sorpresa, il film più premiato in questa edizione degli Academy Awards è stato Dune di Denis Villeneuve, prima parte dell’adattamento cinematografico dell’omonimo romanzo di Frank Herbert già portato sullo schermo nel 1984 da David Lynch, vincitore di 6 Oscar su 10 nomination: fotografia, montaggio, sonoro, scenografia, effetti speciali e colonna sonora al leggendario Hans Zimmer, alla seconda statuetta in carriera dopo quella per Il re leone (1995).

Un avvincente film di fantascienza supportato da un pregevole cast corale comprendente Timothée Chalamet, Rebecca Ferguson, Oscar Isaac, Zendaya, Jason Momoa, Josh Brolin, Stellan Skarsgård, Javier Bardem e Charlotte Rampling.

Il remake vince facilmente il confronto con il film originale, sommerso a suo tempo da critiche ben poco lusinghiere:

Molti dei personaggi di Dune sono sensitivi, il che li mette nella posizione unica di essere in grado di capire ciò che accade nel film.

Janet Maslin

Ci sono voluti a Dune circa nove minuti per spogliarmi completamente di ogni aspettativa.
Questo film è un vero casino, un’incomprensibile, brutta, non strutturata, inutile escursione nei reami più oscuri di una delle sceneggiature più confuse di tutti i tempi.

Roger Ebert

L’Oscar onorario è stato assegnato agli attori Samuel L. Jackson, Elaine May e Liv Ullmann, mentre Danny Glover ha ricevuto il Premio umanitario Jean Hersholt per il suo decennale impegno nella difesa della giustizia e dei diritti umani. Crudelia, reboot e prequel de La carica dei 101, premiato con l’Oscar per i migliori costumi. Miglior film d’animazione Encanto, 60° classico Disney, miglior canzone No Time To Die di Billie Eilish e Finneas O’Connell per l’omonimo film, 25° capitolo della saga di James Bond.

Zero Oscar!

Grande delusione, infine, per tante pellicole pluricandidate, alcune delle quali annunciate come possibili outsider: La figlia oscura, Licorice Pizza, La persona peggiore del mondo, A proposito dei Ricardo, Macbeth, Tick, Tick… Boom!, Madres paralelas, Don’t Look Up e La fiera delle illusioni – Nightmare Alley tornano a casa senza nemmeno una statuetta.

“Nata libera”: quando il cinema iniziò a parlare dei diritti degli animali

A volte un film aiuta ad aprire una finestra su vicende sconosciute, a volte fa scoccare una scintilla in chi non aspettava altro, innescando meccanismi imprevedibili: la magia del cinema è che può accadere anche con un basso budget e poche pretese di celebrità. Nata libera (Born Free), film del 1966 diretto da James Hill e interpretato da Virginia McKenna e Bill Travers, è riuscito a riunire da solo tutto questo in nome di un principio sacro: l’amore per la natura.

Il soggetto di Nata libera è tratto dal romanzo autobiografico Born Free (1960) di Joy Adamson, edito in Italia come Nata libera: la straordinaria avventura della leonessa Elsa e best seller internazionale negli Anni ’60.

Nel 1956, i coniugi Joy e George Adamson vivono in Kenya, a quel tempo colonia britannica: Joy è una pittrice, George lavora come guardacaccia nel Northern Frontier District. Un giorno, George è inviato a sopprimere un leone che ha aggredito e ucciso una donna nei pressi di un villaggio. Dopo aver eliminato il leone, il guardacaccia è costretto a uccidere anche una leonessa che l’aveva improvvisamente assalito nell’estremo tentativo di difendere i propri cuccioli: quando George si accorge dei tre leoncini, nati solo da poche settimane, decide di adottarli e di allevarli insieme alla moglie.

Virginia McKenna e Bill Travers in Nata libera

Joy si affeziona particolarmente a Elsa, la più piccola della cucciolata. I piccoli crescono rapidamente e diventano presto ingestibili, tanto che i primi due (Lustica e Big One) vengono inviati allo zoo di Rotterdam: Joy, però, non vuole separarsi da Elsa e, d’accordo con George, decide di tenerla come un animale domestico. Col sopraggiungere dell’età adulta, per la leonessa iniziano i problemi: prima rischia di essere uccisa per sbaglio da un cacciatore durante un safari, poi provoca la fuga disordinata di un branco di elefanti che distrugge alcune coltivazioni suscitando l’ira dei locali.

Una scena di Nata libera

Il superiore di George impone ai coniugi di inviare Elsa presso uno zoo, ma Joy si oppone con forza, sostenendo che la leonessa debba vivere libera, essendo nata libera: nonostante Elsa sia ormai addomesticata e non più in grado di vivere nella natura selvaggia, Joy decide caparbiamente di tentare in pochi mesi un graduale reinserimento del felino nel suo habitat naturale.

«È nata libera e ha il diritto di vivere libera.»

(Joy Adamson)
Una scena di Nata libera

La sceneggiatura del film è opera di Lester Cole, scrittore statunitense inserito nella lista nera di Hollywood durante il maccartismo, la caccia alle streghe lanciata nei primi Anni ’50 dal senatore Joseph McCarthy contro persone sospettate di essere filocomuniste e sovversive. Accuse infondate e attacchi personali coinvolsero molte personalità di spicco della politica, della cultura e del mondo dello spettacolo. Cole e altri nove colleghi (i cosiddetti Hollywood Ten) si rifiutarono di testimoniare davanti alla Commissione per le attività antiamericane e furono pertanto ostracizzati dall’industria cinematografica.

Solo tre delle sue sceneggiature sono divenute film, ognuna firmata con un diverso pseudonimo: Nata libera è accreditato a Gerald L. C. Copley. Come in molti dei film sceneggiati dal più celebre collega Dalton Trumbo (Vacanze romane, Spartacus e Papillon, solo per citarne alcuni), nel soggetto su cui ha lavorato Cole alberga un ardente desiderio di libertà: quella stessa libertà che era stata loro ingiustamente preclusa.

Lester Cole (a destra) con il collega Ring Lardner Jr.

Nata libera conquistò i premi Oscar per la miglior colonna sonora (John Barry) e per la miglior canzone (Born Free, di John Barry e Don Black, cantata da Matt Monro). Quasi vent’anni dopo, il maestro John Barry avrebbe vinto la sua quarta statuetta per la struggente colonna sonora di un altro film legato all’Africa e al Kenya, ben più celebre del precedente: La mia Africa (Out of Africa, 1985), di Sydney Pollack, ispirato all’omonimo romanzo autobiografico di Karen Blixen e interpretato da Meryl Streep e Robert Redford, vincitore di 7 premi Oscar (miglior film, miglior regia, miglior sceneggiatura non originale, miglior fotografia, miglior scenografia, miglior sonoro e, appunto, miglior colonna sonora).

Meryl Streep (Karen Blixen) e Robert Redford (Denys Finch-Hatton) ne La mia Africa

Gli attori Bill Travers e Virginia McKenna, protagonisti del film Nata libera e coniugi anche nella vita, divennero intimi amici dei veri George e Joy Adamson. La realizzazione del film cambiò per sempre la vita dei due attori, che divennero attivisti per i diritti degli animali e continuarono nei decenni successivi a battersi per la protezione degli animali selvatici africani e per la salvaguardia del loro habitat naturale.

Bill Travers e Virginia McKenna in una scena di Nata libera

Travers e McKenna recitarono in un’altra pellicola per famiglie a sfondo animalista, An Elephant Called Slowly (1969), basato stavolta sulle reali avventure della coppia con tre giovani elefanti africani, in Kenya. Nel film compaiono il vero George Adamson e l’elefantina Pole Pole (Piano piano in swahili), donata allo zoo di Londra alla fine delle riprese. Quando nel 1982 la coppia andò a trovare l’elefantessa e vide in che condizioni viveva, iniziò una campagna per spostarla in un luogo più adatto, ma durante il trasferimento Pole Pole morì: la disgrazia spinse i coniugi a fondare nel 1984 l’organizzazione Zoo Check. Nello stesso anno, McKenna fu coinvolta nella protesta contro le cattive condizioni dello zoo di Southampton, che fu chiuso un anno dopo.

Nel 1991, la Zoo Check divenne la Born Free Foundation, un ente di beneficenza internazionale per la salvaguardia della fauna selvatica il cui attuale presidente esecutivo è Will Travers, figlio maggiore della coppia. Per i meriti artistici e l’impegno profuso nella salvaguardia degli animali e della natura, nel 2004 Virginia McKenna è stata nominata Ufficiale dell’Ordine dell’Impero Britannico.

Bill Travers e Virginia McKenna visitano l’elefantessa Pole Pole allo zoo di Londra (1982)

«Non torno a Londra se non ho abbattuto un elefante!»

Nata libera rappresenta una delle prime opere cinematografiche che affrontano il tema della salvaguardia della natura e, in uno stile ancora grezzo ma genuino, si rivolge a un pubblico di tutte le età.

Sono gli anni in cui viene fondato il WWF (1961), ancora oggi la più grande organizzazione internazionale non governativa per la protezione ambientale, e in cui si registrano decisivi passi in avanti nell’etologia, grazie alla diffusione degli studi di Konrad Lorenz sul comportamento animale: tutto ciò produce finalmente interesse e sensibilizzazione a livello globale, soprattutto riguardo a preservazione della biodiversità, sostenibilità nell’utilizzo delle risorse naturali e riduzione dell’inquinamento.

Jane Goodall

Nel 1960, in Tanzania, l’etologa inglese Jane Goodall inizia le sue ricerche sulla vita sociale e familiare degli scimpanzé. Tempo dopo, in Ruanda, la zoologa statunitense Dian Fossey avrebbe seguito il suo esempio dedicandosi all’osservazione e allo studio dei gorilla: la sua vita è immortalata in Gorilla nella nebbia (Gorillas in the Mist, 1988) di Michael Apted, in cui la Fossey è interpretata da una straordinaria Sigourney Weaver.

Dian Fossey

Nata libera è allo stesso tempo una testimonianza intatta di quanto l’essere umano stesse iniziando solo allora a sviluppare una reale consapevolezza riguardo a determinati concetti etici: un leone considerato pericoloso per una comunità che viene abbattuto senza remore, un turista che durante un safari afferma che “non tornerà a Londra se non avrà abbattuto un elefante”.

A conferma di ciò, solo pochi anni prima era stato prodotto Hatari!, avventuroso film del grande Howard Hawks interpretato tra gli altri da John Wayne, Elsa Martinelli, Hardy Krüger e Bruce Cabot: i protagonisti sono una squadra di cacciatori professionisti che, in Tanzania, si occupa della cattura di animali esotici della savana, destinati alla vendita all’estero presso zoo e riserve naturali.

Elsa Martinelli in una scena di Hatari!

Il film, ritenuto da molti un capolavoro, è conosciuto anche per la celebre scena del bagno degli elefantini sulle note di Baby Elephant Walk, uno dei motivi composti da Henry Mancini per la colonna sonora.

«Era la storia di un gruppo di persone che catturavano animali, e non avevo intenzione di metterci altro.»

(Howard Hawks)

Molto popolare soprattutto tra i più piccoli, grazie alla presenza di molti animali esotici, la pellicola aveva avuto un ottimo riscontro dalla critica internazionale, affascinata dal suo carattere utopico e dall’armonia tra le sensazionali scene di cattura degli animali e le sequenze ambientate al campo, in cui le vicende personali dei protagonisti vengono narrate con garbo e ironia. Il film ha un tono quasi fiabesco: un mondo fuori dal tempo in cui i protagonisti vivono in armonia e complicità con tanti animali selvaggi.

John Wayne in Hatari!

Secondo Todd McCarthy, biografo di Howard Hawks, Hatari! è addirittura il più geniale film del mondo: inizia come film d’avventura, si trasforma in film d’amore, termina come film per bambini.

Visto oggi, Hatari! non può non risultare eticamente ambiguo. Nelle riprese di caccia furono utilizzati sempre animali vivi, liberi e selvaggi: inseguirli e catturarli, anche per poi liberarli, sarebbe oggi assolutamente vietato e severamente punito, per lo stress causato e le possibili conseguenze sulla salute degli animali, in particolare per le specie protette o in via di estinzione.

John Wayne in Hatari!

Tale leggerezza su una questione così delicata non può tuttavia sorprendere: il safari a scopo venatorio, infatti, è attualmente consentito in quasi tutti i Paesi sub-sahariani tranne che in Kenya, nel cui territorio la caccia è vietata fin dal 1977. In molte riserve di caccia statali e terreni privati è ancora legale abbattere animali protetti come leoni, elefanti e rinoceronti previo pagamento, nella maggior parte dei casi appannaggio di personaggi facoltosi senza scrupoli.

Eppure, oggi sappiamo che perfino un affascinante safari fotografico in riserve e parchi nazionali, all’apparenza innocuo, può avere un impatto negativo sull’ambiente: la presenza di turisti può infatti disturbare le attività da cui dipende la sopravvivenza degli animali (l’efficienza di caccia dei leoni nelle aree più frequentate da turisti è molto inferiore, spesso appena sufficiente al sostentamento; ancora maggiore è il danno ai predatori prevalentemente diurni come il ghepardo). L’unico contributo positivo del turismo all’ambiente è di tipo indiretto: spesso i governi locali hanno difficoltà a sorvegliare territori così vasti e la presenza di turisti può aiutare a controllare e, in certi casi, a scoraggiare il bracconaggio.

La cattura di una giraffa in una scena di Hatari!

Elsa, George e Joy Adamson

Il successo del romanzo Born Free convinse Joy Adamson a pubblicare due sequel: Living Free (1961) e Forever Free (1963). Prima dell’uscita del film Nata libera, il naturalista Sir David Attenborough aveva già realizzato per la BBC un documentario sulla leonessa Elsa: Elsa the Lioness (1961). La storia di Elsa e degli Adamson ha ispirato numerosi altri documentari, un sequel (Living Free, 1972), una serie televisiva (Nata libera, 1974), un film TV (Born Free: A New Adventure, 1996) e il film To Walk with Lions di Carl Schultz (1999) con Richard Harris, Honor Blackman, Ian Bannen e Geraldine Chaplin, sugli ultimi anni di vita di George Adamson.

La leonessa Elsa con Joy Adamson

Elsa fu la prima leonessa a essere rimessa con successo in libertà, la prima a stabilire un contatto e ad avere una cucciolata dopo essere stata messa in libertà. Morì nel 1961 di babesiosi, una malattia infettiva provocata dal morso di zecca. I suoi cuccioli divennero presto una minaccia per il bestiame dei locali e, per la loro sicurezza, furono trasferiti dagli Adamson nel Parco nazionale del Serengeti, in Tanzania.

Nello stesso anno, George Adamson andò in pensione come guardacaccia per potersi dedicare completamente all’attività di naturalista e agli studi sui leoni: Baba ya Simba (Il padre dei leoni in swahili) fece da capo consulente tecnico per il film Nata libera ed è oggi considerato uno dei padri fondatori della conservazione della fauna selvatica.

George Adamson

«Chi si prenderà cura degli animali, per quelli che non sono autosufficienti?
Ci sono giovani uomini e giovani donne disposti ad assumere questo incarico?
Chi farà sentire la sua voce, quando la mia sarà stata portata via dal vento, chi aiuterà la causa?»

(George Adamson)

In seguito, i diversi interessi portarono George e Joy a separarsi, pur rimanendo in buoni rapporti: George continuò a occuparsi dei leoni, mentre Joy decise di dedicarsi ai ghepardi. Joy passò gli anni successivi a raccogliere fondi per la fauna selvatica, grazie anche al successo del libro e del film, e riuscì a rimettere in libertà un ghepardo e un leopardo.

Joy Adamson

Il leone Christian

Nel 1969, John Rendall e Anthony Bourke, due amici australiani che lavoravano in un negozio di mobili a Londra, acquistarono un cucciolo di leone maschio, Christian, nel reparto animali esotici del grande magazzino londinese Harrods, preoccupati per le sue condizioni e per il suo destino: il cucciolo era stato separato dai suoi genitori a causa della vendita dello zoo di Ilfracombe, in Inghilterra, in cui vivevano. Christian venne allevato nel seminterrato del negozio e il vicario locale permise ai due ragazzi di lasciarlo libero per qualche ora al giorno sul prato del cimitero adiacente. Destino volle che l’anno dopo, quando il cucciolo aveva ormai raggiunto una grande stazza, gli attori Bill Travers e Virginia McKenna si recassero proprio in quel negozio per acquistare una scrivania. McKenna raccontò loro la storia della leonessa Elsa e li mise in contatto con George Adamson, per tentare anche con Christian una reintroduzione alla vita selvaggia in Africa.

Virginia McKenna e Bill Travers con John Rendall, Anthony Bourke e il leone Christian

I due ragazzi accettarono la proposta e nel corso dell’anno organizzarono la spedizione in Kenya per Christian, avvertiti comunque da Adamson che la sua reintroduzione sarebbe stata molto più difficile di quella di Elsa e che probabilmente l’esperimento sarebbe fallito: Elsa, infatti, era nata in Kenya e quindi era sempre vissuta nel suo habitat naturale, anche se domestico, mentre Christian aveva vissuto sempre in città, i suoi stessi genitori erano nati in cattività e non era quindi abituato neanche al clima africano.

John Rendall, Anthony Bourke e il leone Christian

Adamson volle tentare la reintegrazione del leone in una colonia già esistente. Data la difficoltà di integrare un maschio in una comunità con un capobranco già attribuito, decise di aiutarsi con un altro leone maschio addomesticato di nome Boy, che aveva preso parte al film Nata libera. Adamson intendeva stabilire un legame tra i due che li rendesse i leader di un nuovo nucleo. Nonostante gli iniziali screzi, l’esperimento riuscì perfettamente e i due leoni divennero inseparabili. Il secondo passo fu l’affiancamento di una femmina, di nome Katania, per provare a estendere la nuova colonia.

Da questo momento, iniziò una serie di tragedie che misero a serio rischio la riuscita del progetto: Katania venne attaccata da un coccodrillo in prossimità di una pozza d’acqua e un’altra femmina venne uccisa da un altro branco di leoni. Stanley, uno chef della riserva allontanatosi dal campo alla ricerca di miele selvatico senza misure di sicurezza, fu attaccato da Boy, che si trovava libero nelle vicinanze: Adamson, accorso in aiuto, fu costretto a sparare all’amato leone, uccidendolo, ma non fece in tempo a salvare l’uomo, che morì per le ferite riportate.

Il clamore della tragedia sembrò segnare la fine del progetto, ma Adamson non si scoraggiò e, grazie all’aiuto di altri naturalisti riuscì finalmente a raggiungere lo scopo: Christian aveva preso possesso di una colonia di cui era divenuto il leader, aveva avuto dei cuccioli con due femmine e, dopo la sua reintegrazione nella natura, si avvicinava raramente al campo e agli uomini.

Appresa la notizia, Rendall e Bourke decisero di intraprendere un ultimo viaggio in Kenya per poter osservare di persona la reintegrazione del leone e per tentare di salutarlo un’ultima volta. Adamson li avvertì che il loro viaggio sarebbe stato probabilmente inutile, poiché Christian non si faceva vedere da almeno nove mesi, ma i due decisero ugualmente di partire.

Arrivati alla riserva, Adamson andò loro incontro con una novità: la notte prima, Christian era tornato nelle vicinanze del campo con le sue compagne e i suoi cuccioli.

«Christian è arrivato ieri sera.
È qui con le sue leonesse e i loro cuccioli.
È appostato sulla sua roccia preferita al di fuori del campo.
Vi sta aspettando.»

(George Adamson)

George e Joy Adamson avevano spesso parlato nei loro scritti di una sorta di sesto senso dei leoni, soprattutto nei confronti degli esseri umani, definendo ciò come una sorta di capacità telepatica.

Rendall e Bourke furono avvertiti del fatto che il leone avrebbe potuto non riconoscerli e, conseguentemente, attaccarli: i due, però, non si persero d’animo e vollero comunque incontrarlo. Ciò che avvenne fu talmente incredibile da stupire perfino Adamson: a distanza di tanto tempo, Christian non solo riconobbe immediatamente i due ragazzi, ma gli corse incontro come se non si fosse mai allontanato da loro buttandogli le zampe intorno al collo in una sorta di abbraccio. Il commovente filmato dell’incontro, condiviso su internet trent’anni dopo, è diventato virale.

La storia di Christian è stata raccontata in un libro (scritto da Rendall e Bourke) e in un documentario (Christian, The Lion at World’s End), e ha ispirato un libro per bambini (Christian, the Hugging Lion).

Il leone Christian

«L’animale più pericoloso è l’uomo»

Il 3 gennaio 1980, poche settimane prima di compiere 70 anni, Joy Adamson fu trovata morta nella Shaba National Reserve, in Kenya, uccisa da un suo ex dipendente. Nove anni dopo, il 20 agosto 1989, George Adamson fu assassinato nel Parco Nazionale di Kora, in Kenya, nel salvare il suo assistente e un turista europeo da un gruppo di banditi somali: aveva 83 anni.

Sia Joy che George vollero farsi seppellire con i loro adorati leoni, in Kenya: Joy fu sepolta con la leonessa Elsa nel Meru National Park, mentre George coi leoni Boy, Super Cub e Mugie nel Kora National Park.

George Adamson

Nei suoi scritti, George aveva sempre ribadito che l’animale più pericoloso al mondo è l’uomo e che il leone non è solo un predatore, ma un essere vivente capace di sviluppare una varietà di comportamenti.

Le esperienze e gli studi di George e Joy Adamson sono stati fonte di ispirazione per tanti altri naturalisti e hanno dato un contributo essenziale nell’interazione con un mondo fino ad allora quasi sconosciuto e considerato solo selvaggio.

Joy e George Adamson

Premi Oscar 2021

L’atmosfera surreale della 93ª edizione degli Academy Awards in tempi di pandemia sarà impossibile da dimenticare.

Posticipata di due mesi, la notte degli Oscar si è tenuta quasi interamente alla Union Station di Los Angeles e solo in parte al Dolby Theatre (che la ospitava dal 2002), con un ristretto numero di ospiti e molti candidati collegati in diretta dall’estero.

La novità più importante è stata l’inconsueto ordine di consegna delle statuette: per la prima volta, la serata si è conclusa con la premiazione del Miglior attore e non del Miglior film.

Forse l’Academy ha voluto tenere per ultima la sorpresa più grande: Anthony Hopkins ha infatti vinto l’Oscar come Miglior attore protagonista per The Father di Florian Zeller, superando in volata il favoritissimo Chadwick Boseman, candidato per Ma Rainey’s Black Bottom di George C. Wolfe.

The Father: in alto, Anthony Hopkins in una scena del film; in basso, Florian Zeller con l’Oscar per la Miglior sceneggiatura non originale

Un Oscar più che meritato: la performance di Hopkins è straordinaria, mentre quella di Boseman risulta sopra le righe, in un film piuttosto insignificante, e una sua vittoria sarebbe stata facilmente ricondotta alla sua prematura scomparsa. Bravissimi anche Olivia Colman e Rufus Sewell, interpreti rispettivamente della figlia e del genero del protagonista.

Grazie alla potenza dei dialoghi, enfatizzata dagli ambienti chiusi, The Father è stato premiato anche per la Miglior sceneggiatura non originale: una statuetta molto particolare per lo scrittore Florian Zeller, al suo esordio alla regia, autore sia della pièce teatrale che del suo adattamento cinematografico.

The Father tratta con vigore e partecipazione un argomento estremamente delicato, in grado di scuotere l’intima sensibilità di chiunque, portando lo spettatore a immedesimarsi nella confusione di una persona affetta da demenza senile mediante pregevoli espedienti scenici.

Una donna promettente: in alto, Carey Mulligan in una scena del film; in basso, Emerald Fennell con l’Oscar per la Miglior sceneggiatura originale

Il premio per la Miglior sceneggiatura originale è andato a Emerald Fennell per Una donna promettente (Promising Young Woman), da lei scritto e diretto: una scelta coraggiosa motivata anche dall’uso di un linguaggio crudo ed esplicito.

Il film è angosciante, feroce: un macabro thriller nella provocatoria confezione di una commedia con ricorrenti tratti tipici dell’horror. Climax talmente potenti ed efficaci da non rendere quasi mai necessario un colpo di scena: quasi, perché una tale implosione non può che divampare con tutta la sua furia nel caustico finale.

Eccezionale la protagonista Carey Mulligan, che avrebbe probabilmente meritato l’Oscar, senza nulla togliere alla sempre strepitosa Frances McDormand.

Nomadland: in alto, Frances McDormand in una scena del film; in basso, Chloé Zhao con gli Oscar per il Miglior film e la Miglior regia

La statuetta come Miglior attrice protagonista alla McDormand è stata senza dubbio la meno attesa delle tre conquistate da Nomadland, annunciato vincitore degli Oscar per il Miglior film e la Miglior regia: la regista Chloé Zhao è diventata la prima donna asiatica a vincere il prestigioso premio.

Il viaggio e l’isolamento esprimono necessità esistenziali, barlumi di sopravvivenza più che scelte di vita. Il film è un’opera struggente, profondamente umana, ma manca quella scintilla che l’avrebbe liberato dalla gravità del tono semi-documentaristico.

Dall’estrema solitudine di Nomadland alla vita di una famiglia, Minari, di Lee Isaac Chung: due opposti che rientrano nella stessa categoria emotiva, due film drammatici con un messaggio di speranza non scontato, rivolto a chi trova la forza di coglierlo.

Minari: in alto, Steven Yeun e Alan Kim in una scena del film; in basso, Yoon Yeo-jeong con l’Oscar per la Miglior attrice non protagonista

Minari è una storia commovente, notevole lo spunto e bravi gli interpreti, in particolare le donne: Han Ye-ri, nella parte di Monica, avrebbe meritato almeno una nomination come Miglior attrice protagonista, mentre Yoon Yeo-jeong è riuscita ad aggiudicarsi la statuetta come Miglior attrice non protagonista nella parte di sua madre Soon-ja, prima sudcoreana a essere premiata con un Oscar per una prova attoriale.

Verso la fine, però, si avverte qualcosa che interferisce con l’armonia del film: una forzata ricerca del dramma, unita a un’innaturale necessità di far passare il messaggio più corretto.

Sound of Metal: in alto, Riz Ahmed in una scena del film; in basso, Nicolas Becker, Jaime Baksht, Michelle Couttolenc, Carlos Cortés e Philip Bladh con l’Oscar per il Miglior sonoro

Doveroso l’Oscar per il Miglior sonoro a Sound of Metal di Darius Marder, una delle pellicole più originali e significative di questa edizione, vincitrice anche del premio per il Miglior montaggio (Mikkel E. G. Nielsen). Una storia intensa ed emozionante, in cui silenzio e rumore diventano protagonisti assoluti.

Notevoli Olivia Cooke (nel ruolo di Lou) e Paul Raci (candidato all’Oscar come Miglior attore non protagonista per l’interpretazione di Joe), perfetto Riz Ahmed nei panni del protagonista (il batterista Ruben): una splendida performance forse penalizzata agli Oscar dall’innovativa e disorientante struttura del film.

Judas and the Black Messiah: in alto, Daniel Kaluuya in una scena del film; in basso, H.E.R. con l’Oscar per la Miglior canzone originale

Nessuna sorpresa per l’Oscar come Miglior attore non protagonista, conquistato dall’annunciatissimo Daniel Kaluuya per Judas and the Black Messiah di Shaka King, premiato anche per la Miglior canzone originale (Fight For You di H.E.R.).

Judas and the Black Messiah è un film imponente e coraggioso che fa luce su una scomoda vicenda storica, stigmatizzando le efferatezze di cui possono macchiarsi le istituzioni e delineando con perizia i profili di un carismatico leader (Fred Hampton/Daniel Kaluuya) e di un tormentato infiltrato (William O’Neal/Lakeith Stanfield).

Lakeith Stanfield avrebbe meritato l’Oscar come Miglior attore non protagonista, ma la scelta di candidare Daniel Kaluuya nella stessa categoria ha di fatto spianato la strada all’attore britannico.

Mank: in alto, Gary Oldman in una scena del film; in basso, Erik Messerschmidt con l’Oscar per la Miglior fotografia

Delusione annunciata per Mank di David Fincher, vincitore di due soli Oscar a fronte delle dieci candidature: Miglior fotografia allo splendido bianco e nero di Erik Messerschmidt, che ha battuto a sorpresa il favorito Nomadland, e Miglior scenografia a Donald Graham Burt e Jan Pascale per l’ineccepibile ricostruzione scenica di un capitolo fondamentale nella storia del Cinema.

Nonostante un grande Gary Oldman, la staticità dell’azione e la bassa risonanza della vicenda appesantiscono inevitabilmente il film, raggiungendo un pubblico forse troppo di nicchia.

Un altro giro: in alto, Mads Mikkelsen in una scena del film; in basso, Thomas Vinterberg con l’Oscar per il Miglior film internazionale

Un altro giro (Druk) di Thomas Vinterberg, candidato anche per la Miglior regia, è stato premiato con l’Oscar per il Miglior film internazionale.

La pellicola danese, incentrata sui possibili benefici dell’alcol nella vita di una persona, è un pugno nello stomaco al perbenismo condiscendente: un messaggio all’apparenza ambiguo e addirittura nocivo ma, in realtà, di grande potenza.

Bravissimi gli attori, su tutti un impagabile Mads Mikkelsen dallo sguardo vacuo e impenetrabile.

Soul: in alto, una scena del film; in basso, Trent Reznor, Atticus Ross e Jon Batiste con l’Oscar per la Miglior colonna sonora

La Disney-Pixar sbanca di nuovo gli Oscar con Soul di Pete Docter, che si aggiudica le statuette per il Miglior film d’animazione e la Miglior colonna sonora.

Una bella storia con un’idea di base vivace e un finale emozionante, che forse poteva essere curata di più nei dettagli, rendendo davvero protagonista la musica jazz e sviluppando meglio alcune trovate (una su tutte, la famosa scintilla): in certi casi, la confezione vale più del contenuto.

Il mio amico in fondo al mare: in alto, una scena del film; in basso, Pippa Ehrlich e James Reed con l’Oscar per il Miglior documentario

Meritano di essere menzionati anche il coinvolgente documentario Il mio amico in fondo al mare (My Octopus Teacher) di Pippa Ehrlich e James Reed, vincitore dell’Oscar nella sua categoria, e Il Processo ai Chicago 7 (The Trial of the Chicago 7) di Aaron Sorkin, vibrante spaccato di un’epoca che avrebbe meritato almeno una statuetta sulle sei candidature ricevute.