Premi Oscar 2021

L’atmosfera surreale della 93ª edizione degli Academy Awards in tempi di pandemia sarà impossibile da dimenticare.

Posticipata di due mesi, la notte degli Oscar si è tenuta quasi interamente alla Union Station di Los Angeles e solo in parte al Dolby Theatre (che la ospitava dal 2002), con un ristretto numero di ospiti e molti candidati collegati in diretta dall’estero.

La novità più importante è stata l’inconsueto ordine di consegna delle statuette: per la prima volta, la serata si è conclusa con la premiazione del Miglior attore e non del Miglior film.

Forse l’Academy ha voluto tenere per ultima la sorpresa più grande: Anthony Hopkins ha infatti vinto l’Oscar come Miglior attore protagonista per The Father di Florian Zeller, superando in volata il favoritissimo Chadwick Boseman, candidato per Ma Rainey’s Black Bottom di George C. Wolfe.

The Father: in alto, Anthony Hopkins in una scena del film; in basso, Florian Zeller con l’Oscar per la Miglior sceneggiatura non originale

Un Oscar più che meritato: la performance di Hopkins è straordinaria, mentre quella di Boseman risulta sopra le righe, in un film piuttosto insignificante, e una sua vittoria sarebbe stata facilmente ricondotta alla sua prematura scomparsa. Bravissimi anche Olivia Colman e Rufus Sewell, interpreti rispettivamente della figlia e del genero del protagonista.

Grazie alla potenza dei dialoghi, enfatizzata dagli ambienti chiusi, The Father è stato premiato anche per la Miglior sceneggiatura non originale: una statuetta molto particolare per lo scrittore Florian Zeller, al suo esordio alla regia, autore sia della pièce teatrale che del suo adattamento cinematografico.

The Father tratta con vigore e partecipazione un argomento estremamente delicato, in grado di scuotere l’intima sensibilità di chiunque, portando lo spettatore a immedesimarsi nella confusione di una persona affetta da demenza senile mediante pregevoli espedienti scenici.

Una donna promettente: in alto, Carey Mulligan in una scena del film; in basso, Emerald Fennell con l’Oscar per la Miglior sceneggiatura originale

Il premio per la Miglior sceneggiatura originale è andato a Emerald Fennell per Una donna promettente (Promising Young Woman), da lei scritto e diretto: una scelta coraggiosa motivata anche dall’uso di un linguaggio crudo ed esplicito.

Il film è angosciante, feroce: un macabro thriller nella provocatoria confezione di una commedia con ricorrenti tratti tipici dell’horror. Climax talmente potenti ed efficaci da non rendere quasi mai necessario un colpo di scena: quasi, perché una tale implosione non può che divampare con tutta la sua furia nel caustico finale.

Eccezionale la protagonista Carey Mulligan, che avrebbe probabilmente meritato l’Oscar, senza nulla togliere alla sempre strepitosa Frances McDormand.

Nomadland: in alto, Frances McDormand in una scena del film; in basso, Chloé Zhao con gli Oscar per il Miglior film e la Miglior regia

La statuetta come Miglior attrice protagonista alla McDormand è stata senza dubbio la meno attesa delle tre conquistate da Nomadland, annunciato vincitore degli Oscar per il Miglior film e la Miglior regia: la regista Chloé Zhao è diventata la prima donna asiatica a vincere il prestigioso premio.

Il viaggio e l’isolamento esprimono necessità esistenziali, barlumi di sopravvivenza più che scelte di vita. Il film è un’opera struggente, profondamente umana, ma manca quella scintilla che l’avrebbe liberato dalla gravità del tono semi-documentaristico.

Dall’estrema solitudine di Nomadland alla vita di una famiglia, Minari, di Lee Isaac Chung: due opposti che rientrano nella stessa categoria emotiva, due film drammatici con un messaggio di speranza non scontato, rivolto a chi trova la forza di coglierlo.

Minari: in alto, Steven Yeun e Alan Kim in una scena del film; in basso, Yoon Yeo-jeong con l’Oscar per la Miglior attrice non protagonista

Minari è una storia commovente, notevole lo spunto e bravi gli interpreti, in particolare le donne: Han Ye-ri, nella parte di Monica, avrebbe meritato almeno una nomination come Miglior attrice protagonista, mentre Yoon Yeo-jeong è riuscita ad aggiudicarsi la statuetta come Miglior attrice non protagonista nella parte di sua madre Soon-ja, prima sudcoreana a essere premiata con un Oscar per una prova attoriale.

Verso la fine, però, si avverte qualcosa che interferisce con l’armonia del film: una forzata ricerca del dramma, unita a un’innaturale necessità di far passare il messaggio più corretto.

Sound of Metal: in alto, Riz Ahmed in una scena del film; in basso, Nicolas Becker, Jaime Baksht, Michelle Couttolenc, Carlos Cortés e Philip Bladh con l’Oscar per il Miglior sonoro

Doveroso l’Oscar per il Miglior sonoro a Sound of Metal di Darius Marder, una delle pellicole più originali e significative di questa edizione, vincitrice anche del premio per il Miglior montaggio (Mikkel E. G. Nielsen). Una storia intensa ed emozionante, in cui silenzio e rumore diventano protagonisti assoluti.

Notevoli Olivia Cooke (nel ruolo di Lou) e Paul Raci (candidato all’Oscar come Miglior attore non protagonista per l’interpretazione di Joe), perfetto Riz Ahmed nei panni del protagonista (il batterista Ruben): una splendida performance forse penalizzata agli Oscar dall’innovativa e disorientante struttura del film.

Judas and the Black Messiah: in alto, Daniel Kaluuya in una scena del film; in basso, H.E.R. con l’Oscar per la Miglior canzone originale

Nessuna sorpresa per l’Oscar come Miglior attore non protagonista, conquistato dall’annunciatissimo Daniel Kaluuya per Judas and the Black Messiah di Shaka King, premiato anche per la Miglior canzone originale (Fight For You di H.E.R.).

Judas and the Black Messiah è un film imponente e coraggioso che fa luce su una scomoda vicenda storica, stigmatizzando le efferatezze di cui possono macchiarsi le istituzioni e delineando con perizia i profili di un carismatico leader (Fred Hampton/Daniel Kaluuya) e di un tormentato infiltrato (William O’Neal/Lakeith Stanfield).

Lakeith Stanfield avrebbe meritato l’Oscar come Miglior attore non protagonista, ma la scelta di candidare Daniel Kaluuya nella stessa categoria ha di fatto spianato la strada all’attore britannico.

Mank: in alto, Gary Oldman in una scena del film; in basso, Erik Messerschmidt con l’Oscar per la Miglior fotografia

Delusione annunciata per Mank di David Fincher, vincitore di due soli Oscar a fronte delle dieci candidature: Miglior fotografia allo splendido bianco e nero di Erik Messerschmidt, che ha battuto a sorpresa il favorito Nomadland, e Miglior scenografia a Donald Graham Burt e Jan Pascale per l’ineccepibile ricostruzione scenica di un capitolo fondamentale nella storia del Cinema.

Nonostante un grande Gary Oldman, la staticità dell’azione e la bassa risonanza della vicenda appesantiscono inevitabilmente il film, raggiungendo un pubblico forse troppo di nicchia.

Un altro giro: in alto, Mads Mikkelsen in una scena del film; in basso, Thomas Vinterberg con l’Oscar per il Miglior film internazionale

Un altro giro (Druk) di Thomas Vinterberg, candidato anche per la Miglior regia, è stato premiato con l’Oscar per il Miglior film internazionale.

La pellicola danese, incentrata sui possibili benefici dell’alcol nella vita di una persona, è un pugno nello stomaco al perbenismo condiscendente: un messaggio all’apparenza ambiguo e addirittura nocivo ma, in realtà, di grande potenza.

Bravissimi gli attori, su tutti un impagabile Mads Mikkelsen dallo sguardo vacuo e impenetrabile.

Soul: in alto, una scena del film; in basso, Trent Reznor, Atticus Ross e Jon Batiste con l’Oscar per la Miglior colonna sonora

La Disney-Pixar sbanca di nuovo gli Oscar con Soul di Pete Docter, che si aggiudica le statuette per il Miglior film d’animazione e la Miglior colonna sonora.

Una bella storia con un’idea di base vivace e un finale emozionante, che forse poteva essere curata di più nei dettagli, rendendo davvero protagonista la musica jazz e sviluppando meglio alcune trovate (una su tutte, la famosa scintilla): in certi casi, la confezione vale più del contenuto.

Il mio amico in fondo al mare: in alto, una scena del film; in basso, Pippa Ehrlich e James Reed con l’Oscar per il Miglior documentario

Meritano di essere menzionati anche il coinvolgente documentario Il mio amico in fondo al mare (My Octopus Teacher) di Pippa Ehrlich e James Reed, vincitore dell’Oscar nella sua categoria, e Il Processo ai Chicago 7 (The Trial of the Chicago 7) di Aaron Sorkin, vibrante spaccato di un’epoca che avrebbe meritato almeno una statuetta sulle sei candidature ricevute.

Adagio per archi (Samuel Barber)

L’Adagio per archi (Adagio for strings) è il brano più famoso del compositore statunitense Samuel Barber, arrangiamento per orchestra d’archi del secondo movimento del suo Quartetto per archi op. 11. Eseguito per la prima volta l’11 maggio 1938 dalla NBC Symphony Orchestra diretta da Arturo Toscanini, l’adagio ha accompagnato i funerali di Albert Einstein, John Fitzgerald Kennedy, Grace Kelly e Ranieri III di Monaco. Nel 2004 è stato votato dagli ascoltatori del programma della BBC Today Programme come brano di musica classica più triste mai realizzato.

Non sorprende, quindi, che l’Adagio per archi sia stato spesso utilizzato in film, documentari e programmi televisivi per enfatizzare scene di grande commozione, momenti tragici, nostalgici o di disperazione. In particolare, il brano è presente nelle colonne sonore di due pellicole indimenticabili, entrambe realizzate negli Anni ’80: The Elephant Man e Platoon.

Samuel Barber e Arturo Toscanini

The Elephant Man

The Elephant Man è un film del 1980 diretto da David Lynch, prodotto da Mel Brooks e interpretato da John Hurt, Anthony Hopkins, Anne Bancroft, John Gielgud, Freddie Jones e Wendy Hiller. Il soggetto del film è tratto dall’autobiografia del medico e chirurgo Sir Frederick Treves, The Elephant Man and Other Reminiscences, e dal romanzo biografico The Elephant Man: A Study in Human Dignity dell’antropologo e saggista Ashley Montagu.

A sinistra, John Hurt in una scena del film; a destra, l’attore riceve il Premio BAFTA come Miglior attore protagonista per The Elephant Man

Nella Londra dell’epoca vittoriana, lo sfortunato Joseph Merrick (chiamato erroneamente John nelle sue prime biografie, comprese le opere citate) è affetto dalla rarissima sindrome di Proteo (che colpisce meno di 200 individui in tutto il mondo): gran parte del suo corpo presenta deformità, in particolare il capo, tanto da essere soprannominato The Elephant Man (L’Uomo Elefante).

Merrick (Hurt) è succube del malvagio sfruttatore Bytes (Jones), che lo usa come fenomeno da baraccone nei freak show (esibizioni a pagamento di persone bizzarre o ripugnanti), trattandolo al pari di un animale. Durante uno di questi spettacoli di strada viene scoperto dal dottor Frederick Treves (Hopkins), un valido e sensibile medico del London Hospital. Affascinato dalla singolarità del caso, Treves conduce temporaneamente Merrick presso il proprio ospedale per studiarlo e mostrarlo ai colleghi, pagando il suo aguzzino.

Bytes (Freddie Jones) e il dottor Treves (Anthony Hopkins)

Restituito al suo proprietario, Merrick viene da questi brutalmente percosso e le sue condizioni si aggravano: Treves riesce a riportarlo in ospedale per tenerlo in cura e tentare di aiutarlo. È qui che emerge l’uomo dietro la maschera: Merrick non solo è capace di parlare, leggere e scrivere ma, con il passare dei giorni, mostra il suo carattere sensibile e sofisticato, da lui sempre nascosto per non subire ulteriori maltrattamenti. In poco tempo, Merrick diventerà una celebrità presso l’alta società vittoriana e, circondato dall’affetto, troverà finalmente pace nella propria vita, fino al commovente epilogo.

“Un film sulla dignità e il dolore, sull’umanità che si nasconde sotto una maschera mostruosa.”
(Il Morandini)

L’Adagio per archi accompagna la sequenza più struggente del film, l’apice dell’agognata serenità dopo un crescendo di sofferenza: la morte di Merrick. Invitato a teatro dalla grande attrice Madge Kendal (Bancroft), diventata sua cara amica, Merrick viene salutato calorosamente dal pubblico alla fine dello spettacolo. Tornato in ospedale, ringrazia il dottor Treves per tutto ciò che ha fatto per lui, chiamandolo più volte amico, e dichiara di non essersi mai sentito tanto amato. Un’emozione così forte, una giornata così perfetta da convincerlo all’estremo gesto. Merrick toglie tutti i cuscini che fungono da sostegno per l’abnorme massa del suo capo e si sdraia supino sul letto, ben conscio che dormire in tale posizione gli provocherà la morte per soffocamento: la sua vita si concluderà riposando come gli esseri normali, perché finalmente si sente uno di loro.

The Elephant Man non vinse alcun premio Oscar nonostante le 8 candidature, ma il tempo lo ha degnamente ricompensato: oggi è riconosciuto come una delle più significative opere di David Lynch. All’epoca Lynch era semisconosciuto (aveva realizzato solo il surreale Eraserhead), ma Mel Brooks decise comunque di affidargli la regia: una scelta coraggiosa e lungimirante che ha contribuito a regalarci uno dei più apprezzati cineasti dei nostri giorni.

David Lynch sul set di The Elephant Man (in alto a destra), con John Hurt (in alto a sinistra), con Mel Brooks (in basso) all’AFI (American Film Institute)

Platoon

Platoon è un film del 1986, diretto da Oliver Stone e interpretato da Charlie Sheen, Willem Dafoe, Tom Berenger, John C. McGinley, Johnny Depp, Mark Moses, Forest Whitaker e Kevin Dillon.

Chris Taylor (Sheen), un ragazzo statunitense, parte volontario per la guerra in Vietnam per motivi ideologici: non trova giusto che siano solo le classi disagiate e le minoranze etniche a rischiare la vita per la patria. Il plotone a cui viene assegnato è comandato dall’inesperto tenente Wolfe (Moses), ma i veri leader riconosciuti dal gruppo sono il cinico e spietato sergente maggiore Barnes (Berenger) e l’umano e disilluso sergente Elias (Dafoe): questo dualismo divide il plotone in due schieramenti distinti, esacerbando la tensione tra i soldati già provati dalla giungla ostile e dai nemici invisibili.

Taylor (in alto a sinistra), Elias (a destra) e Barnes (in basso a sinistra) in Platoon

In breve tempo, Chris inizia a vivere in prima persona gli orrori della guerra: la morte dei compagni, la violenza su civili inermi, la distruzione di interi villaggi. L’effetto più sconvolgente di tanta disumanità è la radicale trasformazione delle persone: quanto può diventare naturale uccidere, quanto facilmente la brutalità può impossessarsi di un essere umano, quanto aiuto può dare la droga per alienarsi, esorcizzare la paura e dimenticare la nostalgia di casa. L’esperienza in Vietnam cambierà profondamente Chris e alimenterà i suoi peggiori incubi, con i quali dovrà convivere per il resto della vita.

La pellicola è ispirata alle reali esperienze vissute dal regista Oliver Stone come volontario durante la guerra in Vietnam nel 1967-68: Stone iniziò la stesura del copione poco dopo il suo ritorno alla vita da civile.

Platoon vinse 4 premi Oscar (miglior film, miglior regia, miglior montaggio, miglior sonoro) su 8 candidature, Oliver Stone fu premiato anche con l’Orso d’argento come miglior regista al Festival internazionale del cinema di Berlino.

A sinistra, Oliver Stone riceve l’Oscar per Platoon; a destra, insieme al cast (Willem Dafoe, Tom Berenger e Charlie Sheen)

L’Adagio per archi è parte integrante della colonna sonora: oltre a essere usato nei titoli di testa e nella scena finale, il brano sottolinea i momenti più drammatici del film. In particolare, è presente nella tragica sequenza della morte di Elias, la cui immagine con le braccia rivolte al cielo è diventata l’icona stessa di Platoon.

La brutale rappresaglia su un villaggio accusato di spalleggiare i Vietcong viene interrotta da Elias, che aggredisce il sadico Barnes e promette di denunciare ai superiori le atrocità da lui commesse. Durante un’azione successiva, Elias si ritrova isolato nella giungla e Barnes gli spara a sangue freddo per evitare di essere condotto di fronte alla corte marziale. Il primissimo piano del cambiamento nello sguardo di Elias, che dal sollievo di aver incontrato un compagno si trasforma nella terribile consapevolezza dell’imminente tradimento, vale da solo la visione del film.

L’apice della tragedia arriva poco dopo, quando dall’elicottero di soccorso Chris e gli altri notano sconvolti che Elias, dato per morto da Barnes, è ancora vivo e sta cercando disperatamente di fuggire da un manipolo di Vietcong: colpito più volte, il sergente muore in una posa di estrema prostrazione. Un’immagine che non a caso rispecchia una crocifissione: la fine di un uomo giusto, tradito da chi riteneva amico, il cui sacrificio finale è un monito urlato al mondo contro le atrocità della guerra.

La morte del sergente Elias in Platoon

Il confronto

Perché l’Adagio per archi suscita le stesse emozioni in due tragedie umane così agli antipodi?

In entrambi i film, il brano è inevitabilmente associato alla morte, essendo presente sia durante il suicidio di Merrick che durante l’uccisione di Elias. Due morti che, tuttavia, non potrebbero essere più diverse: se Merrick sceglie di morire pregno di un’insperata serenità, Elias lotta fino all’ultimo per scampare al proprio destino, fino a doversi arrendere nella più totale disperazione.

Se Merrick rappresenta la massima deformità del corpo, che nasconde una profonda umanità, il sergente Elias rappresenta la massima prestanza fisica costretta a convivere con gli orrori a cui ha dovuto assistere. Orrori che hanno reso molti suoi compagni delle perfette macchine di morte, incapaci di provare più alcun sentimento umano: macchine che possono uccidere a sangue freddo un commilitone e abbandonarlo al nemico nel cuore della giungla.

Un nemico che per Merrick è all’interno, una malattia logorante e fatale, il cui effetto si ripercuote impietosamente sul suo aspetto esteriore, rendendolo un mostro deforme. Per il sergente Elias, il nemico all’apparenza è solo all’esterno, da individuare davanti a sé, invisibile ma sempre presente, che costringe a stare all’erta in ogni momento. In realtà, come dice Chris alla fine di Platoon, non era quello il nemico peggiore:

“Io ora credo, guardandomi indietro, che non abbiamo combattuto contro il nemico… abbiamo combattuto contro noi stessi. E il nemico era dentro di noi.”
(Chris Taylor in Platoon)