Backbeat – Tutti hanno bisogno di amore (Iain Softley, 1994)

A maggio, un tweet di Paul McCartney ha rievocato profondi ricordi e suscitato grande commozione tra i più accaniti fan dei Beatles: la rockstar ha commemorato la recente scomparsa della fotografa tedesca Astrid Kirchherr, una donna che ha avuto un ruolo fondamentale nella nascita del mito dei Fab Four.

Astrid Kirchherr (autoritratto a sinistra, con Paul McCartney in alto a destra, con Stuart Sutcliffe in basso a destra)

Astrid Kirchherr conobbe i Beatles ad Amburgo nel 1960 durante il loro primo tour, restando affascinata dalla loro incredibile presenza scenica e dalla qualità della musica. Allieva del celebre fotografo tedesco Reinhart Wolf, scattò le prime fotografie di quel giovanissimo gruppo e ne influenzò profondamente il look e lo stile, contribuendo a trasformarlo in un’icona pop senza precedenti. A lei viene attribuita, in particolare, l’introduzione del taglio dei capelli a caschetto, che sarebbe diventato uno dei simboli della rock band.

I Beatles fotografati da Astrid Kirchherr durante il tour di Amburgo (da sinistra: Pete Best, George Harrison, John Lennon, Paul McCartney, Stuart Sutcliffe)

La sua vita è legata indissolubilmente a quella di Stuart “Stu” Sutcliffe, “il quinto Beatle”, la cui storia è raccontata nel film Backbeat – Tutti hanno bisogno di amore (1994) di Iain Softley.

Backbeat – Tutti hanno bisogno di amore (Iain Softley, 1994)

Il film descrive il “periodo tedesco” dei Beatles, un momento fondamentale per la loro formazione umana e artistica, ponendo l’accento sull’enigmatico bassista Stuart Sutcliffe, sulla sua fraterna amicizia con John Lennon e sulla sua storia d’amore con Astrid Kirchherr, ma anche su aspetti meno noti, come l’assunzione di anfetamine da parte del gruppo per sostenere le estenuanti e interminabili esibizioni e le profonde riflessioni di quegli adolescenti divenuti adulti così in fretta.

A sinistra, George Harrison, Stuart Sutcliffe e John Lennon fotografati da Astrid Kirchherr; a destra, Chris O’Neill, Stephen Dorff e Ian Hart in Backbeat (1994)

Stuart Sutcliffe era un pittore dallo straordinario talento, compagno di John Lennon al Liverpool College of Art e suo grande amico. Eclettico ed erudito, affascinato dall’attore Zbigniew Cybulski (“il James Dean polacco”) volle imitarlo indossando un paio di occhiali neri, acquisendo così una fascinosa aria bohémienne. Lennon e McCartney lo convinsero ad imparare a suonare il basso elettrico per entrare a far parte del loro nuovo gruppo: il nome Beatles pare vada accreditato proprio a Sutcliffe. Avendo poca predisposizione per la musica, trovò molto difficile suonare il basso e, per mascherare l’inadeguatezza tecnica, gli fu suggerito di suonare spalle al pubblico. Nonostante le difficoltà, decise di accompagnare il gruppo nella trasferta di Amburgo.

Stuart “Stu” Sutcliffe

La formazione dei Beatles comprendeva allora John Lennon (voce e chitarra), Paul McCartney (voce e chitarra), George Harrison (chitarra), Pete Best (batteria) e, appunto, Stuart Sutcliffe (basso). Durante le esibizioni, i Beatles vennero a contatto con un gruppo di studenti tedeschi seguaci dell’esistenzialismo, fra cui Astrid Kirchherr. Ben presto, Astrid e Stu si innamorarono e iniziarono una relazione.

Stephen Dorff/Stuart Sutcliffe e Sheryl Lee/Astrid Kirchherr in Backbeat (1994)

La mancanza di talento musicale di Stu portò al progressivo deterioramento dei suoi rapporti artistici e umani con Lennon e con gli altri membri del gruppo fino a indurlo alla decisione di abbandonare i Beatles. Quando il gruppo tornò nel Regno Unito, nel 1961, Stu rimase ad Amburgo per amore di Astrid e per dedicarsi finalmente alla pittura. L’anno dopo morì, a soli 22 anni, per un’emorragia cerebrale causata molto probabilmente da una frattura al cranio che aveva riportato tre anni prima in un pestaggio davanti a un locale. La sua morte giunse proprio mentre i Beatles stavano diventando un fenomeno di massa: pochi mesi dopo, il singolo I Want to Hold Your Hand avrebbe venduto 13 milioni di copie in tutto il mondo.

Backbeat – Tutti hanno bisogno di amore potrebbe essere un film scritto da ragazzi per dei ragazzi: all’inizio può sembrare banale, ma lo sguardo dei protagonisti rivela presto la sua intensa e autentica natura.

Backbeat – Tutti hanno bisogno di amore (Iain Softley, 1994)

Il vero punto di forza del film è proprio Stu: la sua sofferenza interiore, l’indecisione tipica della sua età, la sua ansia creativa alimentata da un grande talento, il suo profondo anticonformismo, superiore anche a quello di una band che avrebbe cambiato per sempre la storia della musica. Il tema principale del film è l’imprevedibilità: la fama, che quasi dal nulla fa esplodere uno dei tanti gruppi che si esibivano a quell’epoca; l’amore, che nasce dall’incontro di due personalità tanto affini quanto distanti; la morte, che sopravviene ingiusta e inaspettata quando ogni tassello sembra aver trovato la propria collocazione.

La somiglianza tra attori e personaggi reali è davvero impressionante. L’interpretazione di Stu da parte di Stephen Dorff ha sbalordito lo stesso Paul McCartney, che ha elogiato pubblicamente l’attore. Gary Bakewell avrebbe interpretato nuovamente Paul McCartney nel film TV The Linda McCartney Story (2000), mentre Ian Hart (celebre per il ruolo del professor Raptor in Harry Potter e la pietra filosofale) aveva già impersonato John Lennon in The Hours and Times (1991).

Ian Hart in Harry Potter e la pietra filosofale (2001) e insieme a Stephen Dorff in Backbeat (1994)

Una curiosità: Nowhere Boy, diretto da Sam Taylor-Johnson nel 2009, racconterà l’adolescenza di John Lennon e la nascita dei Fab Four fino alla partenza per il tour di Amburgo, concludendosi proprio dov’era iniziato Backbeat – Tutti hanno bisogno di amore (1994); i due film, nonostante idee e stili molto diversi tra loro, guardati uno dopo l’altro riescono a fornire una descrizione molto realistica delle origini dei Beatles.

The Doors (Oliver Stone, 1991)

Un film di canzoni, ogni canzone un film.
La storia di un gruppo rock, The Doors, e del suo leader, Jim Morrison.
Lo spaccato di un’epoca, di un contesto umano, sociale e artistico irripetibile di cui la loro musica si fa voce e cuore pulsante.
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“The Doors” è un’opera biografica che ha il merito di sfumare le inevitabili differenze tra la trama di un film e gli eventi realmente accaduti, fin quasi ad annullarne l’orizzonte. Le riflessioni e i commenti sul film, le parole da spendere, diventano tutt’uno con le considerazioni sui Doors, su Morrison, su quella musica, su quegli anni.
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The Doors (Oliver Stone, 1991)
The Doors (Oliver Stone, 1991)

La prima parte del film vede Jim Morrison alla ricerca di se stesso, sopraffatto dal bisogno di conoscere nel profondo la propria anima e di comprendere davvero quale sia la più pura espressione del proprio talento, della propria creatività e del proprio pensiero, a partire dal fallimentare approccio con il mondo del cinema e con la macchina da presa e dalla frenetica produzione di poesie. Da qui, il fatale incontro col tastierista Ray Manzarek, l’idea di mettere in musica quelle parole, la nascita del gruppo insieme al chitarrista Robby Krieger e al batterista John Densmore. Quindi gli amori di Morrison, primo fra tutti la sua compagna Pamela Courson (interpretata da Meg Ryan), forse il personaggio meno credibile e più decontestualizzato del film: una figura un po’ troppo costruita, che viene percepita dallo spettatore quasi come un corpo estraneo e presentata in certi momenti alla stregua di una donna-oggetto, di cui vengono lasciati colpevolmente in secondo piano sia l’effettivo contributo come musa ispiratrice del cantante/poeta sia l’iconico ruolo di “groupie”, autentico emblema degli anni della contestazione giovanile.
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Il film si snoda parallelamente tra i concerti del gruppo e la vita privata dei personaggi, ambiti in cui man mano emergono tutte le inquietudini, le esagerazioni e i comportamenti sopra le righe di Morrison, che contribuiscono a portare i Doors prima all’apice del successo e poi ad un rapido declino, fino all’evento che li fa entrare nella leggenda: la morte del loro leader, ancora oggi avvolta nel mistero.
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L’ultima scena vale da sola la visione del film: esprime tutta l’emozione del regista Oliver Stone nel cercare di far comprendere a tutti ciò che Jim Morrison ha rappresentato per la sua generazione. Una città straniera (Parigi), un cimitero che trasuda arte e intelletto (Père-Lachaise), le tombe di grandi personaggi del passato. Maestose, sì, ma tristi e cupe. E poi, all’improvviso, la sua: un’esplosione di colori, di scritte, di fiori, di oggetti lasciati in dono a un uomo che tanto ha dato a chi ha ascoltato e ancora ascolta la sua musica, e non solo.
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Le interpretazioni di gran parte degli attori (Kilmer/Morrison e MacLachlan/Manzarek su tutti), la colonna sonora traboccante di canzoni del gruppo (“Light my fire“, “Riders on the storm” e “The End” le pietre miliari), la scelta registica di unire l’atmosfera di un’avventura “on the road” ai generi canonici per questo tipo di film (biografico, musicale) consentono alla trasposizione di fondersi con la realtà e allo spettatore di entrare immediatamente dal vivo nella storia.
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È una storia che poggia le basi su due temi fondamentali e ricorrenti: la musica e il viaggio. Da essi ne nasce un altro, che pian piano diventa dominante: vivere tanto appieno la vita da desiderare di superarne i confini.
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The Doors (Oliver Stone, 1991)
The Doors (Oliver Stone, 1991)

Il film è un viaggio nell’autodistruzione, un incessante inseguimento della morte fin quasi a toccarla per riempire di significato l’esistenza, per apprezzarne davvero ogni attimo. Ma è anche un viaggio di vita, di creazione, come se ogni nuova canzone fosse un respiro profondo o un sorso d’acqua e insieme un altro passo verso la libertà, verso l’infinito.
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Amare la vita esasperandone la visione olistica e usare la musica per tentare di descrivere questo amore: il più forte e umano dei sentimenti diventa una divinità da venerare e a cui consacrarsi, un ideale a cui sacrificare anche la propria esistenza. Ed è qui che vita e morte iniziano il loro connubio, presente e continuo per tutto il film.
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Attraverso il fascino selvaggio che esercita su Morrison, la morte stessa diventa un personaggio del film: è un’amica, una compagna fedele che dà speranza e serenità, è la promessa della fine delle sofferenze di un animo tormentato ma al tempo stesso è la porta per un nuovo mondo, in cui regnano pace, armonia e amore.
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The Doors
The Doors

Una porta, il simbolo alla base di tutto, a partire dal nome del gruppo: “The Doors”.
“If the doors of perception were cleansed, everything would appear to man as it is: infinite.” – “Se le porte della percezione fossero purificate, ogni cosa apparirebbe all’uomo com’è: infinita.” Così recita la frase di William Blake riportata nel libro “The Doors of Perception” di Aldous Huxley, che ha ispirato la scelta del nome del gruppo.
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E cosa c’è di più potente ed efficace della droga per eludere i sensi, il raziocinio, la lucidità? Forse nulla.
Droga per raggiungere e mantenere quello stato di incoscienza pura e primitiva, all’interno del quale l’anima stessa sembra essere diretta creatrice di tutto ciò che è arte. E tra le droghe, la più importante è anche la più inaspettata: la musica. È la musica la vera porta verso l’infinito, il vero mezzo per andare oltre la percezione sensoriale umana. È la musica, ispirata dalla poesia di quei testi, così profondi e spiazzanti, così fuori dall’usuale, quasi mistici, emblematici di quanta infinita disperazione possa celarsi nell’animo umano e di quanta immensa gioia possa risiedervi allo stesso tempo: su questo paradosso si è basata l’intera, breve e intensa esistenza di Jim Morrison.
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Jim Morrison/Val Kilmer
Jim Morrison/Val Kilmer