Adagio per archi (Samuel Barber)

L’Adagio per archi (Adagio for strings) è il brano più famoso del compositore statunitense Samuel Barber, arrangiamento per orchestra d’archi del secondo movimento del suo Quartetto per archi op. 11. Eseguito per la prima volta l’11 maggio 1938 dalla NBC Symphony Orchestra diretta da Arturo Toscanini, l’adagio ha accompagnato i funerali di Albert Einstein, John Fitzgerald Kennedy, Grace Kelly e Ranieri III di Monaco. Nel 2004 è stato votato dagli ascoltatori del programma della BBC Today Programme come brano di musica classica più triste mai realizzato.

Non sorprende, quindi, che l’Adagio per archi sia stato spesso utilizzato in film, documentari e programmi televisivi per enfatizzare scene di grande commozione, momenti tragici, nostalgici o di disperazione. In particolare, il brano è presente nelle colonne sonore di due pellicole indimenticabili, entrambe realizzate negli Anni ’80: The Elephant Man e Platoon.

Samuel Barber e Arturo Toscanini

The Elephant Man

The Elephant Man è un film del 1980 diretto da David Lynch, prodotto da Mel Brooks e interpretato da John Hurt, Anthony Hopkins, Anne Bancroft, John Gielgud, Freddie Jones e Wendy Hiller. Il soggetto del film è tratto dall’autobiografia del medico e chirurgo Sir Frederick Treves, The Elephant Man and Other Reminiscences, e dal romanzo biografico The Elephant Man: A Study in Human Dignity dell’antropologo e saggista Ashley Montagu.

A sinistra, John Hurt in una scena del film; a destra, l’attore riceve il Premio BAFTA come Miglior attore protagonista per The Elephant Man

Nella Londra dell’epoca vittoriana, lo sfortunato Joseph Merrick (chiamato erroneamente John nelle sue prime biografie, comprese le opere citate) è affetto dalla rarissima sindrome di Proteo (che colpisce meno di 200 individui in tutto il mondo): gran parte del suo corpo presenta deformità, in particolare il capo, tanto da essere soprannominato The Elephant Man (L’Uomo Elefante).

Merrick (Hurt) è succube del malvagio sfruttatore Bytes (Jones), che lo usa come fenomeno da baraccone nei freak show (esibizioni a pagamento di persone bizzarre o ripugnanti), trattandolo al pari di un animale. Durante uno di questi spettacoli di strada viene scoperto dal dottor Frederick Treves (Hopkins), un valido e sensibile medico del London Hospital. Affascinato dalla singolarità del caso, Treves conduce temporaneamente Merrick presso il proprio ospedale per studiarlo e mostrarlo ai colleghi, pagando il suo aguzzino.

Bytes (Freddie Jones) e il dottor Treves (Anthony Hopkins)

Restituito al suo proprietario, Merrick viene da questi brutalmente percosso e le sue condizioni si aggravano: Treves riesce a riportarlo in ospedale per tenerlo in cura e tentare di aiutarlo. È qui che emerge l’uomo dietro la maschera: Merrick non solo è capace di parlare, leggere e scrivere ma, con il passare dei giorni, mostra il suo carattere sensibile e sofisticato, da lui sempre nascosto per non subire ulteriori maltrattamenti. In poco tempo, Merrick diventerà una celebrità presso l’alta società vittoriana e, circondato dall’affetto, troverà finalmente pace nella propria vita, fino al commovente epilogo.

“Un film sulla dignità e il dolore, sull’umanità che si nasconde sotto una maschera mostruosa.”
(Il Morandini)

L’Adagio per archi accompagna la sequenza più struggente del film, l’apice dell’agognata serenità dopo un crescendo di sofferenza: la morte di Merrick. Invitato a teatro dalla grande attrice Madge Kendal (Bancroft), diventata sua cara amica, Merrick viene salutato calorosamente dal pubblico alla fine dello spettacolo. Tornato in ospedale, ringrazia il dottor Treves per tutto ciò che ha fatto per lui, chiamandolo più volte amico, e dichiara di non essersi mai sentito tanto amato. Un’emozione così forte, una giornata così perfetta da convincerlo all’estremo gesto. Merrick toglie tutti i cuscini che fungono da sostegno per l’abnorme massa del suo capo e si sdraia supino sul letto, ben conscio che dormire in tale posizione gli provocherà la morte per soffocamento: la sua vita si concluderà riposando come gli esseri normali, perché finalmente si sente uno di loro.

The Elephant Man non vinse alcun premio Oscar nonostante le 8 candidature, ma il tempo lo ha degnamente ricompensato: oggi è riconosciuto come una delle più significative opere di David Lynch. All’epoca Lynch era semisconosciuto (aveva realizzato solo il surreale Eraserhead), ma Mel Brooks decise comunque di affidargli la regia: una scelta coraggiosa e lungimirante che ha contribuito a regalarci uno dei più apprezzati cineasti dei nostri giorni.

David Lynch sul set di The Elephant Man (in alto a destra), con John Hurt (in alto a sinistra), con Mel Brooks (in basso) all’AFI (American Film Institute)

Platoon

Platoon è un film del 1986, diretto da Oliver Stone e interpretato da Charlie Sheen, Willem Dafoe, Tom Berenger, John C. McGinley, Johnny Depp, Mark Moses, Forest Whitaker e Kevin Dillon.

Chris Taylor (Sheen), un ragazzo statunitense, parte volontario per la guerra in Vietnam per motivi ideologici: non trova giusto che siano solo le classi disagiate e le minoranze etniche a rischiare la vita per la patria. Il plotone a cui viene assegnato è comandato dall’inesperto tenente Wolfe (Moses), ma i veri leader riconosciuti dal gruppo sono il cinico e spietato sergente maggiore Barnes (Berenger) e l’umano e disilluso sergente Elias (Dafoe): questo dualismo divide il plotone in due schieramenti distinti, esacerbando la tensione tra i soldati già provati dalla giungla ostile e dai nemici invisibili.

Taylor (in alto a sinistra), Elias (a destra) e Barnes (in basso a sinistra) in Platoon

In breve tempo, Chris inizia a vivere in prima persona gli orrori della guerra: la morte dei compagni, la violenza su civili inermi, la distruzione di interi villaggi. L’effetto più sconvolgente di tanta disumanità è la radicale trasformazione delle persone: quanto può diventare naturale uccidere, quanto facilmente la brutalità può impossessarsi di un essere umano, quanto aiuto può dare la droga per alienarsi, esorcizzare la paura e dimenticare la nostalgia di casa. L’esperienza in Vietnam cambierà profondamente Chris e alimenterà i suoi peggiori incubi, con i quali dovrà convivere per il resto della vita.

La pellicola è ispirata alle reali esperienze vissute dal regista Oliver Stone come volontario durante la guerra in Vietnam nel 1967-68: Stone iniziò la stesura del copione poco dopo il suo ritorno alla vita da civile.

Platoon vinse 4 premi Oscar (miglior film, miglior regia, miglior montaggio, miglior sonoro) su 8 candidature, Oliver Stone fu premiato anche con l’Orso d’argento come miglior regista al Festival internazionale del cinema di Berlino.

A sinistra, Oliver Stone riceve l’Oscar per Platoon; a destra, insieme al cast (Willem Dafoe, Tom Berenger e Charlie Sheen)

L’Adagio per archi è parte integrante della colonna sonora: oltre a essere usato nei titoli di testa e nella scena finale, il brano sottolinea i momenti più drammatici del film. In particolare, è presente nella tragica sequenza della morte di Elias, la cui immagine con le braccia rivolte al cielo è diventata l’icona stessa di Platoon.

La brutale rappresaglia su un villaggio accusato di spalleggiare i Vietcong viene interrotta da Elias, che aggredisce il sadico Barnes e promette di denunciare ai superiori le atrocità da lui commesse. Durante un’azione successiva, Elias si ritrova isolato nella giungla e Barnes gli spara a sangue freddo per evitare di essere condotto di fronte alla corte marziale. Il primissimo piano del cambiamento nello sguardo di Elias, che dal sollievo di aver incontrato un compagno si trasforma nella terribile consapevolezza dell’imminente tradimento, vale da solo la visione del film.

L’apice della tragedia arriva poco dopo, quando dall’elicottero di soccorso Chris e gli altri notano sconvolti che Elias, dato per morto da Barnes, è ancora vivo e sta cercando disperatamente di fuggire da un manipolo di Vietcong: colpito più volte, il sergente muore in una posa di estrema prostrazione. Un’immagine che non a caso rispecchia una crocifissione: la fine di un uomo giusto, tradito da chi riteneva amico, il cui sacrificio finale è un monito urlato al mondo contro le atrocità della guerra.

La morte del sergente Elias in Platoon

Il confronto

Perché l’Adagio per archi suscita le stesse emozioni in due tragedie umane così agli antipodi?

In entrambi i film, il brano è inevitabilmente associato alla morte, essendo presente sia durante il suicidio di Merrick che durante l’uccisione di Elias. Due morti che, tuttavia, non potrebbero essere più diverse: se Merrick sceglie di morire pregno di un’insperata serenità, Elias lotta fino all’ultimo per scampare al proprio destino, fino a doversi arrendere nella più totale disperazione.

Se Merrick rappresenta la massima deformità del corpo, che nasconde una profonda umanità, il sergente Elias rappresenta la massima prestanza fisica costretta a convivere con gli orrori a cui ha dovuto assistere. Orrori che hanno reso molti suoi compagni delle perfette macchine di morte, incapaci di provare più alcun sentimento umano: macchine che possono uccidere a sangue freddo un commilitone e abbandonarlo al nemico nel cuore della giungla.

Un nemico che per Merrick è all’interno, una malattia logorante e fatale, il cui effetto si ripercuote impietosamente sul suo aspetto esteriore, rendendolo un mostro deforme. Per il sergente Elias, il nemico all’apparenza è solo all’esterno, da individuare davanti a sé, invisibile ma sempre presente, che costringe a stare all’erta in ogni momento. In realtà, come dice Chris alla fine di Platoon, non era quello il nemico peggiore:

“Io ora credo, guardandomi indietro, che non abbiamo combattuto contro il nemico… abbiamo combattuto contro noi stessi. E il nemico era dentro di noi.”
(Chris Taylor in Platoon)

Dai Golden Turkey Awards a Tim Burton

Golden Turkey Awards (The Worst Achievements in Hollywood History) è un libro scritto nel 1980 dai fratelli Michael e Harry Medved.
Grandi appassionati di B-movie, i Medved decisero di creare un premio fittizio denominato Golden Turkey sulla falsariga del Premio Oscar, da assegnare ai peggiori film ed attori. A tale scopo, scrissero un saggio elencando quale fosse, secondo loro, il peggio del peggio di Hollywood: nel libro sono presenti liste di vari “riconoscimenti” a film, registi, attori, ecc. ritenuti i peggiori della storia del cinema.
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Golden Turkey Awards
Golden Turkey Awards (The Worst Achievements in Hollywood History), Michael e Harry Medved

Nella prefazione del libro, gli autori dichiarano che le loro scelte possono non essere condivise da tutti, e che, esistendo “un numero enorme di brutti film, pessimi registi ed attori tremendi”, le liste sono soggette a continui aggiornamenti. Essendo gli autori anglofoni, la lista è molto sbilanciata sul cinema americano, tralasciando quello europeo e di altri Paesi.
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Alcuni vincitori del Golden Turkey sono davvero singolari, come ad esempio il peggior credito nei titoli assegnato alla versione del 1929 de La bisbetica domata di William Shakespeare, dove appare la dicitura “with additional dialogue by Sam Taylor” (“dialoghi supplementari aggiunti da Sam Taylor”, come se Shakespeare avesse bisogno di “dialoghi supplementari”…).
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La bisbetica domata (1929)
La bisbetica domata (Sam Taylor, 1929)

Il riconoscimento più controverso, al limite del paradossale, è senza dubbio il Golden Turkey come peggior attore a Richard Burton, attore shakespeariano più volte candidato all’Oscar e considerato tra i più grandi attori della storia del cinema. L’assegnazione del premio, tuttavia, è stata motivata quasi esclusivamente dalle discutibili scelte dei ruoli cinematografici interpretati in carriera e dalla partecipazione ad un elevato numero di film ritenuti scadenti.
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Richard Burton
Richard Burton

In ogni caso, come per gli Oscar, a destare maggiore curiosità sono inevitabilmente i premi per il peggior film e il peggior regista.
Le due categorie risaltano ancor di più in quanto intimamente collegate: il peggior film, Plan 9 from Outer Space, è stato diretto dal peggior regista, Edward D. Wood Jr.
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Plan 9 from Outer Space è un horror fantascientifico del 1959, ignorato dalla critica fino alla morte del regista Edward D. Wood Jr. nel 1978, quando tornò in auge proprio con la definizione di “peggior film di tutti i tempi”. Ciò ha contribuito a renderlo un film di culto, in cui a risaltare sono soprattutto gli effetti speciali, considerati ridicoli anche per l’epoca: modellini di astronavi sorretti da fili visibili, sfondi finti su cui gli attori proiettano le proprie ombre, e così via. Secondo il Morandini, questo “non gli impedisce di essere assai divertente, almeno per chi sa apprezzarne lo spudorato dilettantismo, le strampalate scenografie, i dialoghi tremendi, l’assurda logica narrativa”.
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Plan 9 from outer space_1
Plan 9 from Outer Space (1959)

Edward D. Wood Jr. è stato un uomo di cinema: regista, sceneggiatore, produttore cinematografico, attore, montatore. Emarginato dal mainstream hollywoodiano sia per l’etichetta di “diverso” e “bizzarro” (era un crossdresser con un feticismo per i golfini d’angora da donna), sia per le proprie idee eccentriche, ha avuto a disposizione sempre e solo budget irrisori e tempi di realizzazione ridicoli. La costante mancanza di mezzi, a cui faceva da contraltare solo la grande passione per il cinema, ha inesorabilmente influenzato la sua intera produzione cinematografica: tutti i suoi film sono caratterizzati da una trama estremamente approssimativa e da un’irrealistica rapidità nel girare le scene. Quasi sempre erano sufficienti pochi giorni e singoli ciak per il completamento di un film.
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Edward D. Wood Jr.
Edward D. Wood Jr.

A rendere leggendario il nome di Edward D. Wood Jr. ha contribuito il suo più celebre collega Tim Burton, che gli ha reso omaggio con il film biografico Ed Wood (1994), il cui cast comprende un intenso Johnny Depp ed uno straordinario Martin Landau, premiato con l’Oscar.
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Johnny Depp e Martin Landau in Ed Wood (1994)

Burton, da sempre fan di Wood, ebbe modo di leggere alcune sue lettere e fu colpito dalla considerazione che egli aveva dei propri film, come se fossero dei capolavori assoluti, mentre i suoi contemporanei li reputavano i peggiori film di sempre.
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Glen or Glenda (1953) e La sposa del mostro (1955)

A riprova del grande rispetto di Burton per Wood, il biopic è intriso di ammirazione (in modo partecipato ed esagerato, a detta dello stesso regista), più che finalizzato alla derisione del lavoro del protagonista. Burton riconobbe infatti di aver probabilmente rappresentato Wood ed il suo staff con troppa indulgenza, affermando di “non voler ridicolizzare persone che sono già state ridicolizzate per un considerevole periodo della loro vita”. Il regista ha inoltre affermato che, nel film Edward mani di forbice (1990), il protagonista si chiama Edward in onore di Wood.
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Edward mani di forbice (1990)

Uno dei punti focali nella vita di Edward D. Wood Jr., così come nel film Ed Wood, è la sua profonda amicizia con Bela Lugosi, attore ungherese sulla via del declino ed un tempo indiscussa star di Hollywood, per il quale Wood aveva una sconfinata ammirazione.
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Wood e Lugosi sul set di Glen or Glenda, Depp e Landau in Ed Wood

Il rapporto tra Ed Wood e Bela Lugosi ne ricorda molto un altro: quello tra il regista Tim Burton e il suo idolo di sempre, l’attore Vincent Price. In un’intervista, Burton disse: “incontrare Vincent ebbe un impatto incredibile per me, lo stesso impatto che deve aver avuto su Ed incontrare il suo idolo e lavorare con lui”.
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Tim Burton e Vincent Price

A Vincent Price, eccellente attore dall’aspetto aristocratico, icona del cinema horror degli Anni ’50 e ’60, Tim Burton ha dedicato il film Edward mani di forbice, in cui Price recita per l’ultima volta.
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Vincent Price
Vincent Price (in primo piano e insieme a Tim Burton e Johnny Depp sul set di Edward mani di forbice)